Donne in Afghanistan, diritti violati e attese future
“E’ necessario aprire le menti, soprattutto degli uomini”, con questa emblematica frase, Maria Bashir, unica donna procuratrice generale dell’Afghanistan, inserita dal Time tra le 100 donne più influenti del mondo, sintetizza la sua coraggiosa lotta iniziata nel 2006, per la costruzione di uno stato democratico che metta fine all’assurdo stato di iniquità che segna una linea di demarcazione tra l’“essere uomo” e l’“essere donna” in Afghanistan. Una distinzione di “genere” che finisce per tradursi, per il mondo femminile, in una netta negazione di diritti e rinuncia alla vita.
Il lavoro di Maria Bashir è dedicato a contrastare le piaghe del Paese: mogli in prigione perché scappate da una storia familiare caratterizzata da violenze fisiche e psicologiche (l’87% delle donne secondo i dati forniti dal Ministero degli Affari Femminili, è vittima di violenza domestica); livelli di istruzione bassi (solo il 13% delle donne sa leggere e scrivere); matrimoni forzati e con spose bambine.
Nel 1994, i Talebani, studenti islamici cresciuti nelle madrase del Pakistan, conquistarono il 90% del Paese, eliminando ogni segno di modernità e cancellando di fatto le donne dalla società privandole di alcuni diritti fondamentali, tra i quali: diritto all’educazione (tutte le scuole femminili furono chiuse); diritto al lavoro (a tutte le donne venne imposto di restare a casa); diritto a spostarsi se non accompagnate da un membro scelto dalla propria famiglia; diritto alla salute e diritto a divertirsi.
A dieci anni dall’intervento militare della comunità internazionale in Afghanistan con la conseguente caduta nel 2002 del regime dei Talebani, un’indagine di ActionAid su un campione di 1000 donne afghane, rivela, tra l’altro, un generale timore da parte di esse, incluse le attiviste per i diritti umani e le rappresentanti politiche, che i loro diritti possano essere considerati merce negoziabile degli accordi di pace che disegneranno il nuovo assetto politico del Paese.
Humaira Ameer-Rasuli, direttrice di Medica Afghanistan, denuncia la tendenza dei giornali a mostrare troppo spesso un quadro ben diverso dalla reale situazione delle donne e ragazze del Paese. Un quadro che di solito presenta un netto miglioramento della condizione sociale della donna afghana dal 2002 (con la caduta del regime dei Talebani) in particolar modo rispetto all’educazione, alla presenza in politica e alle strutture sanitarie: “Dopo dieci anni di ‘apparente democrazia’ – riferisce invece Ameer-Rasuli – i veri luoghi democratici in Afghanistan sono decisamente pochi. Le donne non godono in nessun modo di una vera libertà. Non ci è permesso dire cosa pensiamo. Le donne non hanno nessun ruolo nella società afghana. I nostri diritti civili come cittadine non vengono né riconosciuti, né rispettati”.
Secondo un sondaggio effettuato da varie organizzazioni e istituzioni afghane e internazionali, negli ultimi cinque anni si sono completamente azzerati gli sforzi per migliorare l’educazione femminile: dei 2.4 milioni di ragazze iscritte a scuola, il 20% non frequenta regolarmente; solo il 6% delle donne al di sopra dei 25 anni ha ricevuto un’educazione e solo il 12% delle donne al di sopra dei 15 anni sa leggere e scrivere; senza dimenticare le aggressioni con acido nei confronti delle studentesse dell’ultimo anno. Una conferma dell’allarmante riemergere della negazione dei diritti femminili.
DALLA PARTE DELLE DONNE: RAWA
RAWA è un’organizzazione attivista creata nel 1977, composta da donne impegnate nella lotta per la libertà, la democrazia e la giustizia sociale.
In un’intervista rilasciata a Radio Città Aperta, Samia Walid – attivista dell’organizzazione – analizza alcune criticità della situazione politica del Paese.
Samia, spiega come l’Afghanistan viva una guerra ininterrotta da oltre 30 anni: “…il processo democratico in Afghanistan è giovane. Esiste una campagna molto forte, portata avanti dagli occidentali, di canalizzazione della cultura con il il governo Karzai che rema contro perché formato da fondamentalisti. RAWA – continua la Walid – ha sempre sostenuto che attraverso la guerra e l’occupazione militare occidentale non si può portare l’idea di democrazia in un Paese. All’inizio dell’occupazione, gli Stati Uniti, quando hanno invaso l’Afghanistan si sono presentati con slogan che giustificavano l’azione militare attraverso l’esportazione della democrazia e dei diritti delle donne, ma la democrazia non si può raggiungere se l’Occidente continua a supportare un governo dove siedono fondamentalisti e mujaiid. Il Ministero degli Affari Femminili è solo una presenza di ‘facciata’, in realtà queste donne non hanno mai fatto nessuna azione reale per i diritti delle donne. Molte di loro per sedere lì sono legate ai ‘Signori della Guerra’. Quello che porta avanti il governo americano in Afghanistan è il gioco della parti: chi viene mosso è funzionale agli interessi americani. Il fatto di aver finanziato e sostenuto che nel governo afghano ci fossero esponenti dell’alleanza del Nord, non importa se siano fondamentalisti o meno, ha fatto parte del gioco, così come i cosiddetti “colloqui di pace con i talebani” (riportare i talebani all’interno del governo). Il governo che sta in Afghanistan è un governo che non deve contrastare gli interessi americani, sia di carattere politico che economico: sono stati firmati accordi con il governo di Hamid Karzai per la costruzione di basi militari che possono portare al controllo del Paese, forze realmente democratiche non possono presiedere a questo gioco, nella girga della pace (grande assemblea tradizionale afghana Ndr) siedono l’alleanza del Nord, i talebani, i fondamentalisti.” Parole forti quelle della Walid che continua denunciando senza mezze misure la cosiddetta “mafia delle ONG”: “Riguardo ai fondi che vengono dall’estero per la ricostruzione del territorio, i soldi della compera internazionale trovano la loro realizzazione nella costruzione di case, nell’acquisto di macchine, insomma per una questione privata e non per progetti destinati alla popolazione che, purtroppo, spesso non partono nemmeno.”
Le riflessioni di Samia Walid sono lo specchio di una realtà che arresta lo sviluppo di un Paese che ha ancora risorse non sfruttate e che una sana politica economica potrebbe condurre alla ripresa del sistema agricolo con ricadute positive rilevanti per l’intera popolazione.
Alla domanda se abbia mai temuto per la propria vita, Samia risponde senza tentennamenti che come ogni essere umano ha un enorme desiderio di vivere: “…ma quando penso alla situazione delle donne afghane del mio Paese, sono convinta che sia nostra responsabilità di attiviste e donne istruite combattere anche per loro”.
Purtroppo sempre più di frequente, le donne più attive e con una maggiore consapevolezza dei propri diritti scelgono di espatriare all’estero. Il rischio a cui si va incontro è che l’Islam integralista riconquisti l’Afghanistan e che le donne subiscano l’oppressione o decidano di emigrare abbandonando il Paese al proprio destino, rendendo in tal modo sempre più lontano il costituirsi di un vero stato democratico.