25 Novembre 2024

Il costo della natura, democrazia o economia?

[Nota: Traduzione a cura di Stefania Gliedman dall’articolo originale di Paul Anderson apparso su openDemocracy]

Aristotele si chiedeva come l’uomo, animale politico per natura, potesse progettare e creare delle istituzioni che garantissero la sopravvivenza con almeno una “piccola parte di vita buona”. Nonostante il quesito di Aristotele riguardasse la polis, il problema del disegno istituzionale è tutt’altro che estraneo a quello della lotta contro il degrado globale delle risorse.
Nel novero delle teorie più autorevoli al riguardo, sono rari i riferimenti all’economia neoclassica, che vede nel ‘fallimento dei mercati’ la sola causa dei vari tipi di degrado ambientale: il degrado si verificherebbe nel momento in cui l’allocazione delle risorse naturali non riflette il valore a esse attribuito dagli individui; e in particolare, quando non esistono mercati in grado di ricevere tali risorse che, essendo gratuite, vengono molto spesso abusate, sprecate e danneggiate.
Se è vero che i problemi dell’ambiente sono creati dall’assenza di mercati per le risorse naturali, allora la soluzione consisterebbe nel crearne dei nuovi; in questo modo, le preferenze della gente verrebbero documentate dalle transazioni commerciali. Nel caso in cui i mercati esistano già, li si può correggere, ad esempio con tasse o oneri, da stabilirsi sulla base del ‘prezzo ombra’ relativo all’utilizzo della risorsa; si tratta di un prezzo che viene stabilito da un regolatore e rappresenta quanto gli individui sarebbero disposti a pagare per una certa risorsa, qualora quest’ultima venisse immessa nel mercato.
La diagnosi e i rimedi offerti dai sostenitori di questo metodo hanno conquistato un posto di rilievo in seno alle strategie internazionali contro il degrado delle risorse, che va dal cambiamento climatico e perdita della biodiversità, all’inquinamento e alla conservazione; sono inoltre diventati il fondamento teorico della plausibilità del ‘capitalismo verde’, una tematica che sarà al centro del dibattito ambientale nel prossimo futuro, a partire dalla Conferenza sullo sviluppo Sostenibile Rio+20 di quest’anno.
Tuttavia, la il successo di questo approccio sembra di gran lunga sproporzionato rispetto ai benefici ambientali che potrebbe effettivamente ottenere, per due motivi: il primo è che i rimedi proposti sono per la maggior parte inefficaci; il secondo è che il resoconto delle cause del degrado ambientale da cui traggono origine i suddetti rimedi, non coglie la reale natura del problema.

Creare e ‘correggere’ i mercati

Sta prendendo piede la consapevolezza di come sia sbagliato pensare che un’autentica protezione ambientale possa essere conquistata nel contesto dell’economia di mercato globale – in altre parole, credere che limitare e allargare l’utilizzo delle risorse siano due azioni compatibili. Sebbene una spiegazione approfondita della questione non rientri negli obiettivi del presente commento, vorrei soffermarmi brevemente su tre punti. In primo luogo, gli strumenti economici dipendono dall’esistenza di mercati competitivi. Questo li rende incompatibili con i mercati oligopolistici. Il problema che ne deriva non è certo trascurabile, visto che molte risorse interessate dal ‘cambiamento globale’ – dall’acqua dolce e risorse alimentari, dai minerali all’energia fossile – sono invece soggetti ai mercati oligopolistici.

In secondo luogo, laddove esistono i mercati competitivi, gli agenti economici si sentono spesso incentivati ad abusare delle risorse invece che a conservarle, in particolare:
• a utilizzare le risorse a un ritmo proporzionale a quello del ritorno economico piuttosto che a quello del reintegro delle risorse stesse.
• a deprezzare conseguentemente le risorse improduttive dal punto di vista del ritorno economico; infine
• a scaricare il costo su altri, in particolare su coloro che, come le generazioni future, non hanno alcuna influenza sul sistema dei prezzi.
Agire altrimenti porrebbe gli agenti in svantaggio rispetto a coloro che usano le risorse al fine di massimizzare i ritorni, come accade per i sistemi di mercato delle emissioni. Il problema consiste nell’incentivo a sfruttare l’intero ‘spazio di emissione’ invece che lasciarne una parte di riserva a titolo precauzionale. Come spiega Gerd Winter, ridefinire lo spazio delle emissioni come un diritto fruibile trasforma

le quote di emissione in un valore economico che non resta inattivo, ma che viene anzi legittimamente sfruttato fino all’ultima goccia, sia dagli Stati che dai singoli individui. Un imprenditore che non sfruttasse le proprie quote, o che non le vendesse qualora inutilizzate, verrebbe giudicato economicamente irragionevole. Uno Stato che non accumulasse riserve in caso di necessità, risulterebbe politicamente incompetente.

Terzo, l’incentivo all’abuso delle risorse si accentua quando alla competizione va ad aggiungersi il credito privato. In molti casi, l’utilizzo delle risorse produttive è determinato dall’accesso al credito. Poiché l’accesso al credito è legato alle aspettative di guadagni futuri, gli indivudui tendono a utilizzare le risorse a un tasso maggiore rispetto a quello di interesse, e a quello della concorrenza. Come osserva John Dryzek,

gli operatori di mercato devono scontare i costi e i benefici futuri ai tassi di interesse prevalenti. Più il tasso è alto, più diminuisce la lungimiranza del sistema.

In definitiva, questa prima critica sferra un pesante attacco alla creazione e alla ‘correzione’ dei mercati, che potrebbero condurre non a un miglioramento, bensì a un peggioramento del degrado ambientale, la cui gravità aumenterebbe in modo proporzionale alla quantità di beni ambientali che vengono stimati e quindi privatizzati.

Fallito il fallimento dei mercati?

La seconda critica a cui si è accennato riguarda il fatto che è principalmente errato considerare l’economia neoclassica come un contesto appropriato per la riflessione sulla sostenibilità. Esiste infatti il sospetto che l’economia neoclassica non comprenda né il degrado né la sostenibilità ambientale. Esiste una parte di verità nell’idea che il degrado ambientale derivi dalla sottovalutazione dei beni ambientali e , di conseguenza, che se li valutassimo di più li danneggeremmo meno. Il problema comunque sta nel fatto che la spiegazione del degrado ambientale offerta dall’economia – ovvero la mancanza di un meccanismo di prezzi per i beni ambientali – si basa su una rappresentazione distorta dei tre termini su cui si basa il rapporto tra gli esseri umani e l’ambiente, che sono l’ambiente, le persone e ciò che le persone considerano importante. Questi travisamenti mettono a repentaglio il sucesso degli sforzi intrapresi per porre rimedio in modo efficace al degrado ambientale e raggiungere la sostenibilità.

1. L’ambiente. Dal punto di vista dell’economia neoclassica, l’ambiente ha valore unicamente in quanto le persone sono disposte a pagare per usufruirne i beni e i servizi; è concepito come una serie di potenziali costi e benefici valutati in termine strategie di investimento. Ad esempio, si da’ per scontato che le perdite ambientali possano essere compensate con un ammontare pari a quanto gli individui colpiti sono disposti ad accettare. In pratica l’ambiente diventa – come affermato nel rapporto Brudtland – semplicemente un altro fattore produttivo (come il lavoro, la tecnologia e il capitale).
Esistono almeno due aspetti del problema. In primo luogo, si parte dal presupposto che le caratteristiche biofisiche degli ambienti (inclusi quelli che sostengono la vita, sia umana che non) possano essere rimpiazzate da fattori economici. Il che significa che non è l’ambiente, ma il mercato ad essere sostenuto grazie a queste sostituzioni. In secondo luogo, l’ipotesi che l’ambiente possa venire rimpiazzato da fattori produttivi elimina di fatto le motivazioni che rendono necessaria la conservazione delle risorse naturali, visto che in teoria tutti i ‘servizi’ naturali di cui l’uomo ha bisogno potrebbero essere forniti dal capitale.

2. Le persone. Gli individui vengono trattati come se vossero dei ‘massimizzatori’ razionali ed egoisti, ovvero come se cercassero costantemente di massimizzare il proprio utile rispondendo alle proprie preferenze. Come per l’ambiente, l’economia travisa quindi anche il concetto di individui, che non vengono più considerati come persone, ma come – riprendendo il concetto espresso da Mark Sagoff,ricettacoli di ‘stati affettivi’ monetizzabili. Di fatto, l’economia offre una soluzione al quesito di Aristotele ridefinendo il concetto di ‘animale politico’. In questo modo riduce i diversi ruoli degli individui a quello unico di ‘consumatore’.
I vari ruoli assunti dalle persone comuni – continua Sagoff – che si esprimono in materia di bene pubblico, indicando “cio’ che è giusto e buono o appropriato nelle date circostanze” non rientrano in quella categorie di preferenze che vengono definite come disponibilità a pagare. Infatti, una definizione così riduttiva dei ruoli delle persone impedisce loro di esprimere le proprie preoccupazioni riguardo il bene pubblico. Il che rischia di vanificare gli sforzi in favore della sostenibilità, poiché è sono di solito le persone comuni quelle che esprimono timori riguardo il bene pubblico, come ad esempio un ambiente sostenibile.

3. I valori. Considerando i problemi ambientali come il risultato di rapporti di prezzo non realizzato tra persone e ambienti, l’economia neoclassica riduce i ciò che conta per la gente a semplice valore di scambio. Immediatamente saltano all’occhio tre problemi. Primo, date che è solo la forza delle preferenze delle persone (espressa in disponibilità a pagare) a essere presa in considerazione, e non le ragioni di tali preferenze l’economia diventa il regolatore indiscusso delle politiche ambientali, come sottolineato da John O’Neill. Lungi dall’appoggiare la politica, l’economia la sostituisce.
Secondo, dato che solo le preferenze monetizzate contano (nella creazione delle politiche ambientali), quelle dei ricchi (individui, imprese o Paesi) hanno la meglio. Tale imparzialità deriva dal semplice fatto che, visto che i ricchi possono pagare di più, la loro preferenza è sempre più influente rispetto a quella dei poverii. Ciò significa che le stime del povero, incluse quelle relative alla salute e alla propria vita, sono una frazione rispetto a quelle dei ricchi. Ai ricchi – in particolar modo i grandi operatori commerciali – viene dato di fatto il permesso di comprare il diritto di inquinare, o addirittura di comperare la propria assoluzione, come nel caso del disastro causato da BP nel Golfo del Messico. In entrambi i casi, correggere la mano invisibile del mercato con i prezzi ombra e con la privatizzazione conferisce agli interessi privati dei ricchi una visibilità decisamente maggiore.
Terzo, ridurre i valori degli individui a valore di scambio fa sì che ciò a cui le persone tengono di più venga trascurato. Molto di quanto sta a cuore alla gente (ad esempio i rapporti sociali significativi e altri valori fondamentali come identità e lealtà civile) possiedono cio’ che Joseph Raz chiama ‘incommensurabiltà costitutiva’. Dare per scontato che questi valori possano essere messi a confronto utilizzando una stessa unità di misura come ad esempio il prezzo – e che la difficoltà operativa consista semplicemente nell’assegnare ‘il prezzo giusto’ – significa non averne compreso il vero significato.
Per quanto riguarda l’amicizia ad esempio, esiste un comune impegno che ci vieta di trattarla come merce. O’ Neill spiega che farlo significherebbe venir meno tale impegno. Una persona disposta a dare un prezzo a un amico semplicemente non ha capito il vero significato dell’amicizia. Uno dei più vergognosi esempi di rapporti personali visti in termini di ‘disponibilità a pagare’ è rappresentato dai trenta pezzi d’argento che Giuda riceve per aver guidato i soldati da Gesù. Come sottolinea O’Neill,

l’assegnazione di un prezzo a Cristo non è solamente una misurazione mal riuscita – il problema non sta nel fatto che la valutazione di trenta pezzi d’argento sia errata, e che il prezzo avrebbe dovuto essere più alto; Il problema è che si tratta di un tradimento, ovvero che l’impegno di una persona nei confronti di un’altra viene trattato come qualcosa che può essere comprato e venduto. Se Giuda avesse chiesto un compenso maggiore il tradimento sarebbe stato più grave, non certo il contrario.

Lo stesso tipo di impegno esiste per quanto riguarda molto di quello che è importante sia per gli uomini che per gli animali, come ad esempio gli ambienti naturali. Come spiega Sagoff ‘il valore delle cose che amiamo si esprime meglio con la nostra indisponibilità a pagare ottenerle”. I valori costitutivi rappresentano una base importantissima per la prevenzione del danno a ciò che gli individui ritiene importante. Il trascurarli mette a repentaglio la logica per la difesa dell’ambiente, e il considerarli esige che gli strumenti e le regole di mercato vengano rimossi dalle aree che più stanno a cuore alle persone.

Verso la sostenibilità

Tutte le soluzioni avanzate in risposta al quesito di Aristotele presentano un elemento comune: introdurre o estendere strumenti e regole di mercato a varie aree della società non andrà a vantaggio della sostenibilità ambientale, ma al contrario la danneggerà. Sarebbe più utile espandere e sostenere la sfera pubblica – sia proceduralmente che sostanzialmente. Il che consentirebbe il riconoscimento della poliedricità di valori, persone e ambienti. Vi sarebbero finalmente sentenze pubbliche riguardo a ciò che ha valore che dovranno essere rispettate, al contrario di quanto accaduto nel caso di BP che è riuscita a evadere le proprie responsabilità per la catastrofe del Golfo del Messico.
Tutto questo sarà possibile nel momento in cui gli strumenti e le regole di mercato verranno rimossi da aree che ad essi non competono. Come sostiene Karl Polanyi il progetto sociale per la sostenibilità, è essenziamente un modo per porre fine alle igiustizie sociali causati dai mercati liberi. (Ri)assoggettare al controllo sociale e democratico i mercati, in particolare l’utilizzo delle risorse chiave fa parte di questo progetto sociale. Assoggettare i mercati e l’uso delle risorse chiave a un genuino controllo democratico significa che i mercati sono fatti per servire le persone e il pianeta, e non viceversa.

Sono numerose al momento le teorie riguardo il disegno di istituzioni che governino l’uso delle risorse chiave nella fase di transizione verso un utilizzo sostenibile di queste ultime. Si tratta di teorie di natura locale, come quella di Elinor Ostrom su i ‘comuni’ economici e quella di Schumacher sulla democratizzazione economica, oppure di natura globale come la democrazia economica di David Schweickart e la Building Global Democracy coalition . Una genuina democratizzazione delle risorse si è fatta attendere già troppo a lungo. Tale democrazia appare un’utopia solo se ci rifiutiamo di considerare seriamente l’alternativa più probabile – e decisamente insostenibile – di mettere il pianeta in vendita.

Stefania Gliedman

Traduttrice freelance, appassionata di lingua e cultura russa, si interessa principalmente alle tematiche collegate all’Europa Centro-orientale.

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