Colombia, uno Stato a intermittenza
[Traduzione di Beatrice Borgato dell’articolo originale di Adam Isacson pubblicato su OpenDemocracy.net]
Il prossimo 20 febbraio 2012 sarà un anniversario amaro per la Colombia. In quello stesso giorno di dieci anni fa, dopo il rapimento da parte della guerrilla di un senatore della Repubblica, l’allora Presidente Andrés Pastrana mise brutalmente fine a più di tre anni di negoziati di pace con i guerriglieri delle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane (FARC).
Nei dieci anni successivi oltre 22.500 cittadini hanno perso la vita in conflitti con le forze di sicurezza, mentre altre migliaia sono cadute in scontri tra gruppi armati clandestini, ma non mancano le vittime civili.
Ora che quel decennio volge al termine, i gruppi armati di un conflitto durato quasi mezzo secolo – le FARC, la guerrilla minore dell’ELN, e i gruppi paramilitari della droga – non sembrano più gli stessi, sono nettamente più deboli. Ciò nonostante tengono duro, minacciando di farsi sentire ancora per un bel po’ di tempo. Eppure, rispetto al 2002, i colombiani parlano con maggior ottimismo del futuro del Paese. Il Presidente Juan Manuel Santos si è reso portavoce dei loro sentimenti quando, di fronte a un gruppo di investitori brasiliani, ha dichiarato che la Colombia “ha nuove priorità” — premurandosi di aggiungere : “Siamo una nazione pronta a decollare”.
Ma hanno forse ragione gli ottimisti? Ora che i problemi della violenza e del narcotraffico sono stati declassati al rango di “disturbo della quiete pubblica”, la Colombia è pronta a seguire la traiettoria del Brasile di Lula. Oppure esistono questioni fondamentali come la disuguaglianza, l’ingiustizia, la corruzione e il ruolo dello Stato di diritto, che restano irrisolte, rischiando così di ricacciare da un momento all’altro il Paese nel baratro?
Entrambi sono scenari possibili. Indipendentemente dai problemi attuali, la situazione colombiana può essere vista secondo la logica del bicchiere mezzo pieno oppure mezzo vuoto, ed entrambe le visioni poggiano su fatti quantificabili.
La sicurezza va e viene
Prendiamo, ad esempio, la situazione della sicurezza nazionale. Nel complesso le notizie appaiono positive. L’offensiva militare contro la guerrilla, e l’accordo che ha smobilitato i paramilitari, togliendo loro molto del sostegno statale di cui godevano, ha ridotto drasticamente la violenza: dal 2002 gli omicidi e i rapimenti sono diminuiti rispettivamente del 50 e 90 per cento, dati che fanno della Colombia un’eccezione in America Latina, dove i crimini efferati vanno crescendo quasi ovunque.
Di recente, le forze dell’ordine hanno sferrato colpi durissimi ai gruppi armati. Nel novembre scorso c’è stata l’uccisione di Alfonso Cano, leader supremo delle Farc. L’Erpac, il neo-gruppo paramilitare che controlla le pianure orientali colombiane, è stato smantellato nel dicembre 2011, un anno dopo l’uccisione del suo leader. Il 1° gennaio 2012, le forze governative hanno ucciso Juan de Dios Usuga, uno dei due fratelli al comando del neo-gruppo paramilitare Urabeños.
Molto meno incoraggianti, tuttavia, le notizie più recenti: in risposta all’uccisione di Usuga, gli Urabeños hanno ordinato a tutte le aziende di un’ampia fascia di territorio nel nord del Paese di chiudere – uno “sciopero armato” molto più ambizioso di qualsiasi cosa le Farc abbiano mai tentato. Intanto nel 2011, i sequestri sono cresciuti del 5% e gli attacchi della guerrilla – per la maggior parte imboscate, ordigni esplosivi improvvisati (IEDs), mine anti-uomo, e fuoco incrociato in aree remote del Paese – hanno ucciso più di 400 tra soldati e poliziotti per il terzo anno consecutivo. Ai primi di febbraio 2012, gli ordigni esplosi in due giorni dalle Farc all’esterno di due stazioni di polizia nel sudovest del Paese, hanno ucciso quindici persone, 11 erano civili. La guerrilla ha attaccato le forze di sicurezza 132 volte nei primi 20 giorni del 2012.
La storia colombiana della lotta al narcotraffico è altrettanto controversa. Negli ultimi anni del 2000, il Paese ha deciso di tagliare le fumigazioni aeree con erbicida, diffuse nei primi anni del decennio sotto il “Plan Colombia”, per incrementare la eradicazione manuale delle piante di coca. Questo metodo sembra ridurre la coltivazione di coca al punto in cui il Perù avrebbe prodotto nel 2011 più foglie di coca della Colombia.
Tuttavia, l’attuale generazione di signori della droga – personaggi quali Daniel “El Loco” Barrera e Medellín kingpin “Sebastian” detto anche “Don Mario”, che a quanto si dice continua a comandare gli Urabeños dalla prigione – rimane abbondante e grazie alla corruzione degli ufficiali, politicamente potente. In Colombia si produce più cocaina che in qualsiasi altra nazione, e la stragrande maggioranza della droga diretta agli Stati Uniti parte dal territorio colombiano, direttamente dalle sue coste oppure attraverso il Venezuela e poi via aerea.
Una forma di giustizia
Intanto rimangono distese e amichevoli le relazioni fra Colombia e Venezuela. Negli anni del governo Uribe, invece, dal 2002 al 2010, ci sono stati alcuni episodi di forte tensione tra le due nazioni, dovuti al fatto che il confine venezuelano sfugge al controllo delle autorità, e alle accuse mosse al governo socialista di Chávez di dare rifugio alle Farc. Juan Manuel Santos, successore di Uribe dall’agosto 2010, ha cambiato marcia optando per un riavvicinamento col vicino Chávez.
Il fragile disgelo delle relazioni tra Colombia e Venezuela è messo a dura prova dalle accuse al Venezuela di sostegno alle Farc. Inoltre, non favorisce la situazione la notizia che il nuovo leader guerrigliero Timoleón Jiménez (alias “Timochenko”) si trovi nella zona di confine, o che il nuovo Ministro della Difesa venezuelano, il Generale Henry Rangel Silva, è ricercato negli Stati Uniti per una presumibile collaborazione con le Farc. Ciononostante, le due diplomazie si sforzano entrambe di mantenere l’equilibrio, specie ora che Hugo Chávez sta lottando contro il cancro e in previsione delle ormai prossime elezioni presidenziali di ottobre.
Dopo gli otto anni di estrema destra del governo Uribe, è cambiata anche la politica interna colombiana. Juan Manuel Santos, sebbene Ministro della difesa del governo Uribe per tre anni, ha fatto cessare la conflittualità che esisteva invece fra il sistema giudiziario e il suo predecessore ponendo anche fine alle accuse pubbliche di collusione con il terrorismo mosse nei confronti dei gruppi in difesa dei diritti umani. Il suo governo ha aumentato il salario minimo garantito, lavorando anche all’introduzione di leggi – attualmente in fase di attuazione – che marcano un punto di svolta perché prevedono la restituzione di milioni di ettari di terra sottratta fin dai primi anni ’90 dai vari soggetti armati.
Questi sviluppi hanno sminuito l’operato dell’ex Presidente Uribe, il quale si oppone con forza ad alcune delle politiche che il suo successore sta portando avanti, in particolare il riavvicinamento con il Venezuela. Inoltre, alcune indagini investigative su vari scandali l’hanno costretto a difendersi, assieme ai suoi alleati politici, da accuse di corruzione, spionaggio politico e collaborazione con gruppi paramilitari.
Non è chiaro però, se il governo di Bogotá sarà in grado di portare a termine il programma di restituzione delle terre. Alcune delle aree dove è stata sottratta la maggioranza di esse, sono consumate dalla violenza o controllate da proprietari terrieri corrotti che nel recente passato hanno sostenuto tattiche violente. Dall’ascesa al potere del Presidente Santos, sono stati uccisi più di venti leader dei gruppi pro-restituzione delle terre; più avanza il programma di recupero dei terreni maltolti, più la vita delle vittime che provano a riscattare ciò che hanno perso è a rischio.
Sono di vitale importanza l’abilità e la volontà di cui le forze di sicurezza dispongono per proteggere le vittime. Per garantire l’effettiva restituzione delle terre – e impedire che le Farc e i ‘nuovi’ gruppi paramilitari si rafforzino – il governo Santos avrà bisogno della cooperazione dell’esercito che politicamente sta ricoprendo un ruolo sempre maggiore. Con quasi 300,000 membri all’attivo (più 160,000 poliziotti) e una grossa quota del budget nazionale, le forze armate colombiane sono diventate un’istituzione molto più potente rispetto a dieci anni fa.
E sono arrabbiate: negli ultimi anni il sistema della giustizia civile colombiana si è dimostrato più indipendente, condannando parecchi alti ufficiali per vecchi crimini contro i diritti umani. I verdetti che hanno colpito più duramente l’esercito si riferiscono agli abusi commessi in un caso definito come ultra-delicato: la reazione eccessiva dell’esercito nel 1985, quando un gruppo di guerriglieri ha sequestrato il Palazzo di Giustizia di Bogotá.
Alcuni analisti delle forze armate colombiane, ufficiali in pensione compresi, affermano che l’ inversione di tendenza – come l’aumento degli attacchi delle Farc – sarebbe in parte dovuta allo scontento degli ufficiali, che evitano deliberatamente gli scontri. In una sorta di ‘sciopero bianco’, si rifiutano di combattere reclamando una maggiore duttilità della magistratura, un monito ai leader civili consapevoli del fatto che loro hanno più bisogno dei militari di quanto l’esercito ne abbia di loro.
Durante il dibattito sulla riforma costituzionale tenutosi in Parlamento l’autunno scorso, il Ministro della Difesa ha introdotto un disegno di legge che evidentemente risponde a questo “sciopero”: l’articolo di legge proposto stabilisce che i casi relativi ai diritti umani verrebbero giudicati in prima istanza dall’ordinamento giudiziario militare – dove in passato l’impunità era virtualmente assicurata – invece che da quello civile. Con questo provvedimento, la Colombia rischia di fare un enorme passo indietro nella tutela dei diritti umani. E’ alquanto difficile credere che poco dopo le accuse di aver ucciso 3.000 civili – secondo la versione dell’esercito uccisi in combattimento perché appartenenti a gruppi terroristici – le forze armate possano giudicare i loro stessi uomini per crimini contro l’umanità.
Sulla questione, apparentemente senza fine, delle prospettive di pace nel Paese, il quadro sebbene eterogeneo, è meno incoraggiante. Le forze armate sono convinte di essere giunte ad una fase di ‘rastrellamento’ finale nel conflitto con le Farc, e assieme a chissà la metà dei colombiani, non favoriscono i negoziati di pace. Peraltro “Timochenko”, il nuovo leader delle Farc, è stato molto più esplicito dei suoi predecessori; il tono quasi conciliatore, con cui ha espresso la volontà di riprendere i negoziati di pace, ha sorpreso tutti. Ciò nonostante, ai primi di febbraio, di fronte all’insuperabile rigidità di ambo le parti e alla riluttanza del Ministero della Difesa nell’accettare l’aiuto di attori esterni (governo brasiliano incluso), le Farc hanno ritirato l’offerta di rilasciare sei membri delle forze di sicurezza tenuti in ostaggio da oltre un decennio.
Il ruolo di Washington
Anche prima della conclusione dell’ultimo processo di pace, gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo cruciale in tutti le questioni di cui sopra: dalla guerra alla pace, dagli stupefacenti alla politica. Sebbene indebolita, la loro funzione è oggi contraddittoria ma pur sempre importante.
Che l’influenza degli USA sia diminuita è evidente. Nel 2012 gli aiuti economici sono scesi fino a meno di 300 milioni di dollari per polizia e militari, tornando ai livelli pre-1999. Questa contrazione è destinata a continuare in linea con i continui tagli al bilancio statale statunitense. Nel 2011 il Congresso ha finalmente ratificato l’accordo di libero scambio firmato con la Colombia nel 2006; questo potrebbe comportare la diminuzione della capacità di pressione statunitense sulle politiche colombiane per i diritti umani e per il lavoro. Oltre a ciò, Washington è distratta dalle violente crisi in corso in altre aree del pianeta, in particolare in Messico e in America Centrale.
Nonostante tutto, gli Stati Uniti continuano però a svolgere un ruolo determinante. Sempre nel 2011, Washington ha approvato una spesa di 215 milioni di dollari per un nuovo contratto dell’Usaid a favore di un controverso programma di assistenza militare e sviluppo in quattro zone della Colombia, noto come “Consolidation”. Inoltre, gli aiuti statunitensi al sistema giudiziario colombiano, che nel budget 2012 non sono stati eccessivamente ridotti, sono più importanti che mai.
Se le problematiche colombiane sono sostanzialmente connesse ai processi per i diritti umani, alla restituzione delle terre e ai tentativi per contrastare la criminalità organizzata ed eliminare la corruzione, qualsiasi soluzione possibile passa attraverso l’azione della magistratura, fortemente sotto pressione ma ancora indipendente. La capacità della magistratura di fare il proprio lavoro potrebbe determinare la differenza tra un Paese sulla via del declino e un altro a cui fare riferimento tra qualche anno come modello, alla stregua del Brasile. Tutto sommato, il sostegno economico degli Stati Uniti al sistema giudiziario colombiano è denaro ben speso in questo momento, e certamente è molto più importante dei fondi stanziati per una guerra che potrebbe imperversare per almeno altri dieci anni.