Stupro nei conflitti, le donne come territorio nemico da assediare
Di nefandezze se ne compiono tante nelle guerre, in tutte le guerre. La violenza sessuale che si fa arma potentissima e strategica, facendo dei corpi delle donne (ma non solo) territorio nemico da assediare, è forse la più vigliacca. Sicuramente è la più ignorata, come non valesse tanto quanto gli altri crimini di guerra e contro l’umanità.
Desanges Kabuo, sopravvissuta resiliente che oggi coordina la sezione provinciale del Mouvement national des survivantes en RDCongo nel Sud Kivu ed è assistente psicosociale della Fondazione Panzi a Minova, racconta così a Voci Globali:
“Sono stata violentata due volte. La prima ero stata rapita da un gruppo armato ruandese, a Minova. Sono rimasta nella foresta per sei mesi e sono tornata da lì con una gravidanza, ora ho un figlio di 15 anni frutto di uno di quegli stupri. La seconda volta è stata il 21 novembre 2012, dalle forze armate della Repubblica Democratica del Congo durante gli scontri con il gruppo armato M23″.
“Immaginate, è così che viviamo qui. Giorno e notte. Addormentarsi e svegliarsi per una donna congolese che sta nell’Est è una grazia: nessuna sicurezza, nessuna giustizia. [..] Nessuna donna o ragazza, neppure le bambine e le donne anziane, nessuna viene risparmiata. Il corpo femminile è usato come uno strumento per la guerra. Abbiamo molto dolore nel cuore, e cicatrici“.
La storia di Desanges è la storia di milioni di donne. Nella Repubblica Democratica del Congo che è da più di trent’anni la terra degli stupri, ma non solo. Etiopia, Mali, Myanmar, Siria, Sud Sudan, Nigeria, Somalia, Colombia, Haiti, Ucraina, sono alcuni dei Paesi dove la violenza sessuale è assai diffusa e sistematicamente impiegata come tattica di guerra, tortura e terrorismo, nella quasi completa impunità.
Avremmo voluto parlare al passato di questo ignobile e nascosto modo di far guerra, raccontando e ricordando il genocidio dei Tutsi (ma anche il massacro di tante e tanti Hutu accusati di collaborazionismo) che in Ruanda fece tra 250 e 500 mila stuprate in 100 giorni nel 1994, oltre che un milione di morti almeno. Oppure degli stupri al servizio della pulizia etnica che tra il 1991 e il 1992 colpirono tra 20 e 50 mila donne in Bosnia. O, correndo a ritroso, di come lo Stato del Bangladesh sia nato sullo stupro di centinaia di migliaia di donne bengalesi – stimate tra 200 e 400 mila – internate nei rapes camps delle forze armate pakistane nel 1971. Saremmo potuti andare indietro fino agli albori della storia delle guerre, che gli uomini hanno sempre fatto del corpo delle donne arma e strumento di conquista.
Avremmo voluto farlo, ma dobbiamo parlare di oggi. Perché stupri e altre violenze brutali non sono affatto fuori dalle cronache delle guerre moderne. Anzi. Pensiamo a Daesh che ha fatto delle Yazidi schiave sessuali per i combattenti e bottino di guerra da rivendere sul mercato globale del sesso quando scarseggiavano le risorse. O a Boko Haram, che ha fatto lo stesso con le tantissime giovani rapite tra le scuole e i villaggi di Nigeria.
È un fenomeno di portata enorme. Nel solo 2021 (a quando risalgano gli ultimi dati ufficiali disponibili) l’Ufficio del Rappresentante speciale Onu per le violenze sessuali nei conflitti aveva registrato 3.293 episodi nel mondo. Sono molte di più le vittime che rimangono nell’ombra: le organizzazioni umanitarie sui territori stimano che per ogni stupro denunciato nel contesto di un conflitto armato dobbiamo considerare tra dieci e venti casi non documentati. L’Unicef ha appena contato oltre 16 mila bambine e bambini vittime di violenza sessuale in situazioni di conflitto negli ultimi 18 anni, e le notizie sugli scempi che si stanno consumando sui corpi delle donne sui più caldi fronti di guerra attuali si rincorrono senza sosta.
Non smettono di giungere denunce di orribili stupri e violenze dal conflitto del Sudan che è esploso solo tre mesi fa, per esempio.
Spostandoci in un’altra area del continente africano, in una sola settimana, tra il 7 e il 13 aprile scorsi, Medici senza frontiere ha ricevuto e curato quasi 700 vittime di violenza sessuale intorno a Goma, nella provincia congolese del Nord Kivu. Vale a dire una media di 48 casi al giorno: “per mesi abbiamo trattato un numero elevato di casi, ma mai su scala catastrofica come nelle ultime settimane. Quasi il 60% delle vittime si presenta entro 72 ore dall’attacco, a dimostrazione che si tratta di un’emergenza medica e umanitaria continua“, ha dichiarato Jason Rizzo, Coordinatore MSF per l’emergenza nella Regione.
E poi c’è l’Ucraina. Giusto lo scorso marzo, la Commissione d’inchiesta internazionale indipendente aveva annunciato di aver verificato crimini di guerra di stupro e violenza sessuale commessi dalle forze militari russe “in due situazioni principali: durante le perquisizioni domiciliari e contro le persone segregate” nei territori ucraini occupati, soprattutto nelle fasi iniziali degli assedi delle Regioni di Chernihiv, Kharkiv, Kherson e Kyiv.
Le vittime avevano tra 4 e 82 anni, e tra le pagine del report si legge:
gli stupri sono stati commessi sotto la minaccia delle armi, con estrema brutalità e con atti di tortura, come percosse e strangolamenti. Gli autori a volte hanno minacciato di uccidere la vittima o la sua famiglia, se avesse resistito. In alcuni casi, più di un soldato ha stuprato la stessa vittima, oppure lo stupro di una vittima è stato commesso più volte. In un caso, la vittima era incinta e ha implorato invano i soldati di risparmiarla; ha avuto un aborto spontaneo qualche giorno dopo.
Gli autori, in alcuni episodi, hanno anche giustiziato o torturato mariti o altri parenti maschi delle vittime. I membri della famiglia, compresi i bambini, sono stati costretti a guardare lo stupro dei loro cari.
Negli stessi giorni, anche il Consiglio d’Europa, mentre emetteva sanzioni contro due funzionari di alto grado dell’esercito russo, aveva parlato apertamente di un vero e proprio sistema pianificato di violenze sessuali usate come tattica bellica nel Paese nella piena conoscenza da parte dei comandanti russi rispetto a quanto realizzato dal personale militare, in alcuni casi “le hanno incoraggiate o addirittura ordinate“.
I dati raccolti dal Gruppo di monitoraggio dell’Alto commissario Onu per i diritti umani segnano al 3 giugno appena trascorso già oltre un centinaio di denunce di stupri legati alla guerra di aggressione russa. Ma “dalla nostra esperienza di conflitti in tutto il mondo, sappiamo che la violenza sessuale è la violazione più consistente e massicciamente sottostimata e che i dati disponibili sono solo la punta dell’iceberg“, ha affermato Pramilia Patten, Rappresentante speciale Onu per le violenze sessuali nei conflitti, in occasione dell’ultimo incontro sul tema in Consiglio di Sicurezza.
Stupri, schiavitù sessuale e prostituzione forzata, gravidanze forzate, aborti e sterilizzazioni forzati, matrimoni forzati, tratta di donne a scopo di violenza o sfruttamento sessuale, e le molte altre forme di violenza di pari gravità che rientrano nella definizione di violenza sessuale in conflitto, non appartengono ai conflitti del passato.
Sono crimini largamente perpetrati nelle più recenti situazioni di conflitto e post-conflitto, e ancora sono troppo poco considerati e perseguiti con i sistemi giudiziari e sanitari che si sgretolano nel caos dei conflitti e i tabù e l’insicurezza che mettono a tacere le sopravvissute impedendogli di cercare cure, supporto e giustizia.
Non fa scandalo lo stupro di guerra, è ‘nelle cose della guerra’. A parlare, proprio in questi giorni, del rischio che la violenza sessuale nei conflitti finisca per essere normalizzata “come qualcosa che è destinato ad accadere e non si piò fermare“, è Natalia Kanem, direttrice esecutiva dell’Agenzia Onu per la salute e i diritti sessuali e riproduttivi.
“I conflitti sono in aumento. Vediamo le immagini ovunque. Online e sui giornali. [..] Tuttavia, raramente vediamo una delle forme più orribili di violenza nei conflitti, quella perpetrata sui corpi delle donne“, recita la dichiarazione rilasciata la scorsa settimana che non manca di richiamare che per il diritto internazionale si tratta di crimini di guerra e contro l’umanità.
“Allora perché i progressi per fermarli sono così lenti? Il rapporto più recente del Segretario generale Onu sulla violenza sessuale legata ai conflitti ha rivelato che oltre il 70% delle parti statali e non statali che sono citate sono autori persistenti, che hanno commesso crimini per cinque anni o più. Ogni nuovo conflitto, ora anche in Ucraina e in Sudan, conferma questo circolo vizioso“, è la sua denuncia.
Le “Conflict related sexual violence (CRSV)” segnano le più gravi crisi politiche e di sicurezza del nostro tempo, e crescono alimentate dall’abuso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che in taluni contesti sono sempre più sfruttate per diffondere odio di genere e incitare a una violenza che umilia e destabilizza le comunità prese di mira. La militarizzazione degli spazi pubblici e la proliferazione illecita delle armi fanno il resto.
È questo il quadro della situazione incorniciato dalle parole del Segretario generale Onu Antonio Guterres, che ha concluso il suo messaggio per l’odierna ottava Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sessuale nei conflitti dicendo chiaro che “la violenza sessuale e di genere rappresenta una minaccia reale per la democrazia, indebolendo la partecipazione delle donne e delle ragazze alla società“.
Violenza sessuale in conflitto, infatti, significa danni alla salute fisica, sessuale e riproduttiva a volte irreparabili. Gravidanze o aborti da stupro, trasmissione (non di rado intenzionale) di malattie infettive, in molti casi lesioni tanto gravi da rendere infertili le vittime.
Significa anche ricorso a tutta una serie di meccanismi di coping negativi – come il matrimonio con il proprio stupratore o il matrimonio infantile e forzato – per ripulire il marchio dell’infamia che sempre macchia la vittima e la sua famiglia, e che può costare conseguenze pesantissime sulle reali capacità di sopravvivenza per coloro che restano escluse dalle comunità. E non sono da meno gli impatti sulla salute mentale, che investono le capacità sociali, lavorative, economiche, di libertà e futuro delle sopravvissute.
Le implicazioni dello stupro e della violenza sessuale nei conflitti, insomma, sono tali da poter farsi sentire per generazioni. Interi popoli e Paesi finiscono per esserne ostaggi.
Che ci sia ancora bisogno di una Giornata internazionale dedicata racconta bene quanto il corpo violato delle donne giochi un ruolo ancora centrale nelle dinamiche culturali, politiche e militari della modernità. E di quanto tutto questo non sia più tollerabile, valendo un rischio che non possiamo permetterci sulla pace e la sicurezza internazionale.
È di nuovo nelle parole di Pramilia Patten in Consiglio di Sicurezza che troviamo una chiara lettura della situazione: “purtroppo la mia visita (in Ucraina, ndr.) ha messo in netto rilievo il divario che ancora esiste tra l’aspirazione alla prevenzione espressa da questo Consiglio attraverso il solido quadro normativo che è stato stabilito nell’ultimo decennio, e la realtà sul campo per i più vulnerabili“.
La realtà sul campo è che lo stupro resta ancora un’arma efficace, capace com’è di distruggere la coesione sociale e innescare processi disgregativi che impattano sulle dinamiche di resilienza delle comunità avversarie.
“Ci viene insegnato che educare una donna è educare l’intero Paese, allora io dico che stuprare una donna è stuprare l’intera comunità in cui vive, e l’intero Paese. Una donna stuprata rimane traumatizzata e stigmatizzata, porta addosso dei limiti per la sua vita e anche in ciò che può fare nella e per la sua comunità“, ci dice Desanges Kabuo.
Le donne, spiega, sono trasformate in terreni di battaglia. Attaccate per attaccare con loro il gruppo di appartenenza, che sia sociale, politico, religioso o etnico. Per sradicarlo, e così ridisegnare a proprio piacimento la demografia delle aree contese. O più banalmente per mortificarlo e fiaccarlo, privandolo non solo del territorio, ma anche dell’identità e il futuro che le donne rappresentano per le società.
La violenza sessuale è arma che fa paura, e fa vergogna (che poi significa silenzio, e si sa che ciò che nessuno dice, per nessuno è mai accaduto). Fa “i figli del nemico“, che sono a migliaia persi nel mondo. Stranieri ovunque, a disposizione di chiunque. “Bombe a orologeria“, avverte l’attivista congolese che di uno di quei figli è madre. E nessuno se ne preoccupa.
Per chi la impugna, quell’arma, non c’è punizione. Per chi la subisce, nessuna giustizia.
“Anche se la comunità denuncia non vale niente, perciò la maggior parte della gente preferisce non farlo. La giustizia è corrotta, non ci sono condanne per chi ci stupra. Pensa che la maggior parte delle persone che governano il mio Paese sono stati nostri stupratori e i loro nomi sono ben specificati, per esempio, nel rapporto di mappatura degli esperti delle Nazioni Unite che però rimane in fondo ai cassetti degli uffici invece di stare davanti a tutti i congolesi. Così non possiamo avere giustizia. Il posto dei criminali è la prigione, non al potere. Finché loro rimarranno al potere, saranno sempre un freno. Non c’è pace senza giustizia, e non c’è giustizia senza riparazione”, insiste.
E continua, “spesso mi faccio delle domande, ma non trovo risposte. Penso che se un membro della famiglia dei decisori politici subisse le atrocità che subiamo noi, per loro ci sarebbero pace e giustizia. Ma loro restano in Occidente, al sicuro. Se anche gli occidentali smettessero di mandare armi a gruppi armati che non fanno altro che i propri interessi… invece noi siamo qua a soffrire tutto questo, e la comunità internazionale non fa niente, come se fosse niente“.
Dopo gli stupri, “per trasformare il mio dolore in potere“, Desanges ha vissuto nella Città della Gioia, a Bakavu. Ha conosciuto il premio Nobel per la pace, il dottor Denis Mukwege. E ha scritto (tra le altre cose) la sua “Lettera a mio figlio frutto di stupro“.
Ha imparato ad amare quel figlio che non aveva voluto. E a raccontare per lui la sua verità contro tutti i pregiudizi e la paura che avrebbero potuto inghiottirla, come accade a molte. Ha chiesto scusa tante volte a suo figlio e a se stessa, e da allora lavora con le altre sopravvissute per aiutare chi non ha ancora rotto il silenzio, per aumentare la consapevolezza sulla lotta contro la violenza sessuale in conflitto. E “perché le donne sopravvissute alla violenza ridiano valore a se stesse e ritrovino forza, autonomia e riconoscimento nelle comunità“.
Senza giustizia di transizione, però, le cose non cambieranno. Alle donne, ripete, serve protezione e supporto. Ma servono anche risposte che mettano al centro i loro diritti umani e la loro dignità personale e sociale. E servono adesso, non è più rimandabile uno sforzo globale e serio sulla questione.
Le chiediamo se c’è qualcosa che tiene a dire a nome di tutte le vittime di violenza sessuale in conflitto, in chiusura del nostro incontro.
“Alla comunità internazionale – si raccomanda – Vogliamo un tribunale penale internazionale nel nostro Paese, così che i criminali siano condannati. Abbiamo bisogno di pace, ora. Abbiamo bisogno di giustizia di transizione, di riparazione e della garanzia che tutto questo non si ripeterà. È un nostro diritto. Vogliamo che la comunità internazionale sia coinvolta nella nostra lotta contro l’impunità e la violenza sessuale che esiste in tanti conflitti“.
E poi si rivolge a tutte le sopravvissute come lei: “insieme le nostre voci sono più forti dei silenzi, dobbiamo unirci e chiedere giustizia e riparazione. Dobbiamo rivendicare a gran voce questo nostro diritto, denunciamo!“.