[Traduzione a cura di Giulia Coladangelo dell’articolo originale di Alice Pistolesi e Monica Pelliccia pubblicato su openDemocracy]
Le donne salvadoregne che hanno scontato anni di reclusione in seguito ad aborti spontanei, feti nati morti e altre complicanze, ora stanno lottando per la libertà di altre donne anche loro perseguitate.
Teodora Vázquez ha trascorso dieci anni e sette mesi dietro le sbarre in seguito a un’emergenza ostetrica avvenuta nel 2007. Aveva 22 anni ed era incinta di nove mesi, quando all’improvviso, mentre stava lavorando come addetta alle pulizie in una scuola, ha avvertito le contrazioni. Prima di svenire, ha avuto soltanto il tempo di chiamare un’ambulanza. Quando si è svegliata, il bambino era morto e i medici l’avevano denunciata. È stata condannata a 30 anni per omicidio.
Le leggi antiabortiste dello Stato di El Salvador sono tra le più dure al mondo. L’aborto non soltanto è proibito in tutti i casi, compresi lo stupro, l’incesto e i casi in cui la vita della donna incinta è a rischio, ma è anche punito severamente: fino a otto anni di carcere.
E le donne che subiscono complicanze, come l’aborto spontaneo o il parto di un feto morto, sono punite ancora più duramente: possono essere perseguite per omicidio o per omicidio aggravato e rischiano fino a 50 anni di carcere. Centinaia di donne, la maggior parte delle quali povere, sono state condannate a lunghe pene detentive.
Mentre era in carcere, Vázquez ha deciso che doveva fare qualcosa per evitare ad altre donne lo stesso destino. Nel carcere femminile di Ilopango, a pochi chilometri dalla capitale San Salvador, ha conosciuto Ena Munguía Alvarado, anche lei detenuta per un’emergenza ostetrica.
“Ho deciso che dovevamo far sentire la nostra voce e difenderci. Ho iniziato a informarmi, a leggere e a mettere tutto per iscritto. Lì è iniziata la mia lotta” ricorda Vázquez.
“L’unica scelta era allearsi, fare rumore dall’interno carcere, in modo da dare inizio a una mobilitazione legale e sociale per far uscire di prigione le donne detenute. All’epoca eravamo in 17 [nella stessa situazione]“ aggiunge.
Alvarado, che ora lavora in una mensa scolastica, ha passato nove anni in carcere per tentato omicidio in seguito a un parto prematuro nei bagni pubblici del suo villaggio rurale nel 2009. Ervin Alexander, il suo quinto figlio, è sopravvissuto. Mentre era ancora in via di guarigione in ospedale, “i medici mi dissero che non me ne sarei andata” racconta Alvarado. “Anche se mio figlio era vivo, ho passato più di nove anni in carcere. E sono riuscita a vederlo soltanto quando aveva tre anni”.
Tra il 2000 e il 2019, 181 donne sono state perseguite per emergenza ostetrica. “Finché le leggi non cambieranno, quello che è successo a noi si ripeterà” afferma Vázquez.
La lotta delle donne per la giustizia
Una volta ritornate in libertà, Vázquez e Alvarado hanno fondato l’organizzazione non profit Mujeres Libres El Salvador. Il gruppo offre formazione e sostegno alle donne che, come loro, sono state private della libertà, per favorire il loro reinserimento nella società. La formazione è incentrata sulla crescita personale e affronta problemi legali, diritti umani, questioni di genere e salute sessuale e riproduttiva.
Per Vázquez, l’attivismo è il suo lavoro quotidiano. Quando lei o i suoi colleghi vengono a sapere (tramite i social media o il passaparola) che una donna è stata arrestata per emergenza ostetrica, si mettono al lavoro. La incontrano in carcere e collaborano con gli avvocati che offrono assistenza e rappresentanza legale gratuita.
Anche Zuleyma Beltrán e Katy Araujo fanno parte di Mujeres Libres.
Beltrán, 42 anni, ha partorito al settimo mese di gravidanza nel 1999, ma il bambino non ce l’ha fatta. “Ho avuto forti dolori allo stomaco e mi sono svegliata in ospedale. Mio fratello aveva chiamato l’ambulanza, ma né io né lui sapevamo di questa legge. Di certo non pensavo che sarei finita in carcere” racconta. Condannata a 26 anni, ne ha scontati dieci e mezzo. Ora lavora in un bar e nel tempo libero fa volontariato per Mujeres Libres.
Araujo, 37 anni, era incinta di nove mesi quando nel 2013 ha partorito un feto morto, senza assistenza medica. Allora aveva 28 anni, studiava contabilità all’università ed era la madre single di una bambina di tre anni. Fu condannata a 30 anni di carcere. Oggi, grazie al sostegno del gruppo, Araujo ha ripreso gli studi universitari.
Queste quattro donne non solo lavorano insieme per Mujeres Libres, ma ora vivono anche insieme. A Casa Encuentro, casa rifugio a San Salvador il cui affitto viene pagato con le donazioni fatte al gruppo. Può ospitare fino a 12 donne che sono uscite di prigione ma non ricevono aiuto né dalla famiglia né dallo Stato. Mujeres Libres dà loro un tetto sopra la testa, cibo, sicurezza e sostegno.
La frequentano anche altre donne che hanno avuto esperienze simili e si recano nella capitale per questioni legali o per cercare di ricostruire la propria vita. “Il momento decisivo di questa lotta è quando, dopo aver visto la foto di una donna in prigione, poi la vedo libera” dice Vásquez.
Mujeres Libres sta cercando di far conoscere le loro storie in vari modi: attraverso “Entre Muros“, programma radiofonico trasmesso online il terzo martedì del mese dall’emittente svizzera Radio LoRa; “Fly So Far” (“Nuestra Libertad“), documentario del 2021 sull’esperienza di Vásquez dal carcere all’attivismo; e uno spettacolo teatrale di Tiempos Nuevos Teatro che organizza laboratori artistici per ex detenute.
“L’obiettivo è raggiungere le adolescenti che vivono in villaggi lontani e che, non conoscendo questa legge o non avendo alcuna educazione sessuale, potrebbero diventare vittime di queste ingiustizie” dice Vásquez.
Povertà e discriminazione
Le donne hanno ricordi dolorosi degli anni trascorsi in carcere.
“Sono stata discriminata a causa del mio ‘reato’” dice Araujo, che ha trascorso otto anni e mezzo nel carcere di San Miguel, nella parte orientale del Paese. “Quando sono arrivata, tutti sapevano perché ero lì e mi trattavano male: la polizia aveva messo tutti contro di me. Le altre detenute mi chiamavano ‘assassina di bambini’“.
I fattori chiave sono lo stigma sociale nei confronti delle donne e l’alto tasso di violenza domestica e di genere, con più di tre casi denunciati ogni giorno. “Chi viene criminalizzato per emergenza ostetrica deve combattere contro la società salvadoregna, che è molto patriarcale, conservatrice e classista“ afferma Morena Herrera, filosofa e attivista femminista di El Salvador.
“Sono donne che vivono in povertà e questo comporta discriminazione: si pensa che non vogliano tenere i propri figli perché non possono mantenerli” dice Herrera, che presiede il Gruppo Cittadino per la Depenalizzazione dell’Aborto (Agrupación Ciudadana por la Despenalización del Aborto). “Ma lo stigma è più ampio. Sono ritenute ribelli rispetto all’obbligo della maternità, perché nello Stato di El Salvador, come in molte società, essere donna equivale a essere madre“.
La criminalizzazione opera su più livelli: le donne vengono denunciate da medici e infermieri, ma anche da polizia e giudici.
“In molti casi prevale l’idea che le donne siano colpevoli, anche senza prove evidenti, e così vengono perseguite e condannate” dice Herrera.
Battaglie legali
Anche altri gruppi si battono per ottenere giustizia per le donne salvadoregne. Con il sostegno del Centro per i diritti riproduttivi (CRR, gruppo per i diritti umani che riunisce avvocati a livello mondiale) e una coalizione guidata dall’Agrupación Ciudadana di Herrera, dal 2009 sono state liberate 69 donne. Diverse sono le strategie legali utilizzate.
“Molte non hanno una difesa adeguata” spiega Alejandra Coll, consulente per la difesa presso il CRR. “Il nostro obiettivo principale è modificare la legge, ma vogliamo anche che le donne ingiustamente criminalizzate vengano riconosciute innocenti e scarcerate. Avere la fedina penale pulita le aiuta a trovare un lavoro o un alloggio”.
La coordinatrice del gruppo, Sara García, spiega che Agrupación Ciudadana lavora su tre aree: “la libertà delle donne, il cambiamento della mentalità della società nei confronti dell’aborto e la lotta per cambiare la legge”. Il gruppo collabora anche con il CRR e con altre organizzazioni legali e di difesa dei diritti umani, per portare i casi all’attenzione del sistema giudiziario regionale del continente americano.
Il 23 marzo di quest’anno, gli sforzi hanno dato i loro frutti. La Corte interamericana dei diritti umani ha tenuto la prima udienza del caso noto come Beatriz vs. El Salvador, affrontando così per la prima volta il divieto assoluto di aborto nel continente americano.
A Beatriz (nome di fantasia), giovane donna proveniente da una famiglia rurale indigente di El Salvador, è stato diagnosticato il lupus quando nel 2012 ha dato alla luce un bambino prematuro dopo una gravidanza ad alto rischio. L’anno successivo è rimasta di nuovo incinta e i medici le hanno detto che, per via della sua malattia e del fatto che il feto presentava una malformazione incompatibile con la vita, non era consigliabile portare avanti la gravidanza.
Beatriz ha implorato di poter abortire, ma non le è stato permesso. Solo dopo ampie proteste e una denuncia al sistema giudiziario interamericano, lo Stato ha acconsentito a un parto cesareo, quando ormai la gravidanza era a uno stadio avanzato. Il bambino morì dopo qualche ora dalla nascita e Beatriz, molto indebolita, quattro anni dopo.
La decisione della Corte interamericana, prevista in autunno, potrebbe avere ripercussioni su El Salvador e sull’intera regione.
Ma per la Corte non sarebbe la prima condanna della criminalizzazione delle emergenze ostetriche nello Stato di El Salvador.
Per il caso di Manuela, nel novembre 2021, la Corte ha condannato lo Stato salvadoregno e ha ordinato di garantire il rispetto del diritto fondamentale dei pazienti alla riservatezza e al segreto professionale. Manuela (nome di fantasia), una contadina povera e analfabeta, è stata condannata a 30 anni di carcere per aver perso nel 2008 il bambino che aveva in grembo ed è stata detenuta in condizioni disumane, senza ricevere cure per la sua malattia cronica, cosa che l’ha portata alla morte.
La Corte interamericana ha dichiarato El Salvador “responsabile a livello internazionale” per aver violato il diritto di Manuela alla vita, all’integrità personale, alla privacy, alla salute, alla libertà personale, alle garanzie giudiziarie e all’uguaglianza di fronte alla legge. Ha anche ordinato al Paese di risarcire i due figli di Manuela rimasti orfani e di riformare i protocolli sanitari, per evitare un’ulteriore criminalizzazione delle donne povere che vivono emergenze ostetriche.
Attualmente almeno due donne sono in carcere, mentre altre due stanno affrontando un processo in condizioni simili a quelle subite da Manuela.
Teodora Vásquez, che insieme alle sue compagne non perde la determinazione, dice: “Vogliamo lavorare per superare il trauma del carcere e fare in modo che nessun’altra donna finisca in prigione per un’emergenza ostetrica”.
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