23 Novembre 2024

Afghanistan, il patriarcato e la rivoluzione solitaria delle donne

Non sono trascorsi ancora diciotto mesi da quando la bandiera del nuovo Emirato islamico è tornata a sventolare su Kabul, e per le strade d’Afghanistan è quasi un miraggio scorgere un volto di donna. La ragione è presto detta. Sono tornati i taliban, il patriarcato è di nuovo regime.

Foto di USAID, da PIXNIO in licenza CC

Le donne sono sempre state vulnerabili in Afghanistan a causa di una società conservatrice e patriarcale, ma negli ultimi vent’anni la situazione era molto migliorata. Le donne potevano parlare dei loro diritti e difendersi da sole, e avevano libero accesso all’istruzione e al lavoro. Il precedente Governo ha dato molte opportunità alle donne di partecipare alla vita politica e servire il Paese in modi diversi. Si poteva vedere una presenza importante delle donne in società, ad ogni livello. Dal 15 agosto 2021, tutto è drammaticamente cambiato“, racconta a Voci Globali Sediqa Darwishi, direttrice ad interim di Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan (HAWCA), tra le più accreditate organizzazioni non governative afghane impegnate nel sostegno a donne e bambine residenti sul territorio e a quelle rifugiate in Pakistan.

Le fa eco Shahrbanu Haidari, presidente dell’Associazione di solidarietà Donne per le Donne (ASDD), che in pochi mesi è assurta a punto di riferimento per le donne della diaspora afghana nel nostro Paese e fa da sponda per quelle rimaste in patria:

Tutto quello che avevamo conquistato con fatica negli ultimi vent’anni, ogni traguardo è andato in frantumi. Ogni giorno i talebani emanano un nuovo ordine per privare le donne dei loro diritti fondamentali, è un crimine contro l’umanità. All’ombra del regime, le prospettive di futuro per le donne non fanno che peggiorare. Quello a cui stiamo assistendo è solo l’inizio di un processo di distruzione e decadenza. Decreto dopo decreto, la vita sta diventando insopportabile per le donne afghane. La fantasia di creare una società esclusivamente degli uomini e per gli uomini non è mai stata tanto vicina alla realtà“, dice l’ex professoressa universitaria a Kabul oggi rifugiata in Italia.

Il divieto di richiedere le cure dei medici uomini è solo l’ultimo dei colpi inferti ai diritti umani delle donne afghane, e varrà la vita a tante se non si formerà immediatamente una nuova classe di dottoresse.

Poco prima era arrivata l’interdizione al lavoro nelle Organizzazioni non governative locali e internazionali, che ha costretto molti gruppi – e persino le Nazioni Unite – a sospendere programmi di assistenza umanitaria che sono vitali su un territorio che è martoriato da una crisi sociale e alimentare senza precedenti.

Antonella Garofalo, portavoce del Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane (CISDA), attivo dal 1999 nella promozione di progetti di solidarietà a favore delle donne afghane, ci aiuta a ricostruire le tappe di quella che è la drammatica corsa a ritroso delle lancette della storia dei diritti femminili nel Paese.

Era iniziata all’indomani della presa della capitale, con l’annuncio dell’adozione di una politica “temporanea” di confinamento per ragioni di sicurezza. “Chiediamo loro di restare a casa fino a quando la situazione non sarà tornata alla normalità. I nostri soldati non sono addestrati a rispettarle. Dio non voglia che le maltrattino o le molestino“, ripeteva in conferenza stampa il volto per le comunicazioni dei talebani, Zabiullah Mujahid.

Oggi, per le donne afghane è già quel 1996 che fu del mullah Omar, padre del movimento politico-religioso che tiene il Paese sotto il giogo della più rigida e oscurantista interpretazione della Sharia, la legge islamica.

Le donne sono ormai bandite da ogni spazio pubblico, da quasi tutti i luoghi di lavoro, dalle scuole, dalle università. Solo all’ombra del mahram (il tutore maschio) e ben nascoste al burqa sono autorizzate a mostrarsi in società. Niente sport, né viaggi, né passeggiate al parco o giornate al luna park. Ad alcun uomo che non sia mahram hanno il permesso di parlare o stringere la mano. Che la loro voce non si senta per radio, e la loro immagine non appaia in tv e sui cartelloni pubblicitari, sulle vetrine dei negozi, sulle copertine di libri e giornali, sulle pareti di casa.

Che non ridano ad alta voce, e non indossino tacchi perché nessun uomo possa sentire il rumore dei loro passi. Gli è vietato usare cosmetici e profumi, vestire colori “sessualmente attraenti” e scoprire le caviglie, andare in bicicletta, affacciarsi ai balconi.

Nella terra dei pasthun si fa più lungo e soffocante ogni giorno l’elenco dei divieti di genere imposti dall’esecutivo del primo ministro de facto Mohammad Hassan Akhund. Con il ristabilito ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio a fare da guardia alla “moralità pubblica“, l’autoproclamato Emirato condanna le “sue” donne a una morte al rallentatore, per citare il titolo della più recente pubblicazione di Amnesty International sulla questione femminile nel crocevia d’Asia, dove ogni sistema di protezione per le sopravvissute alle violenze domestiche è smantellato e gli arresti per “crimini morali” colpiscono anche le bambine.

Tutto questo accade in un Paese che non ha mai smesso di essere in guerra, ci ricorda Garofalo puntando il faro sulle notizie di attentati contro scuole, moschee e altri luoghi frequentati da civili inermi che giungono sempre più numerose dalla regione e “disvelano il vero volto della dittatura talebana“.

Le regole imposte dai talebani riscrivono la vita quotidiana del popolo afghano, cancellano diritti e libertà, condannano milioni di ragazze alla sottomissione e all’isolamento, e impediscono alla metà della popolazione di partecipare alla crescita del Paese mentre una situazione umanitaria peggiore non potrebbe immaginarsi“, dichiara la volontaria della rete italiana che lavora a stretto contatto con le organizzazioni locali.

E continua, “sappiamo che la maggior parte delle famiglie ha perso gli uomini in guerra negli ultimi quarant’anni, e sono state le donne a lavorare per mantenere le famiglie. Ora tutto è andato perso, sono prigioniere nelle loro case, ed è un disastro che non lascia intravedere luci di speranza: questo è già il secondo inverno senza energia elettrica, non c’è abbastanza cibo per la popolazione, e sono sempre di più i casi di chi vende le proprie figlie, spose bambine per 50 dollari (dati Unicef), o organi del proprio corpo“.

Sotto la guida suprema Hibatullah Akhundzada, per gli ex studenti coranici l’obiettivo di cancellare le donne dalla società afghana vale tutto, dunque. Anche il collasso della nazione.

Foto di Marco Verch Professional Photographer, da Flickr, in licenza CC

In nessun altro Paese le donne e le ragazze sono scomparse così rapidamente da tutte le sfere della vita pubblica, né sono così compromesse in ogni aspetto della loro vita“, si legge sull’ultimo rapporto delle Nazioni Unite a firma del Relatore speciale per i diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett.

Non molto tempo prima di essere uccisa nella sua casa di Kabul, lo scorso 15 gennaio, l’ex parlamentare afghana Mursal Nabizada, tuonava “è come se fossero sepolte vive“. Con buona pace delle promesse di moderazione e progressismo che i talebani agitavano a imbonirsi l’Occidente all’alba della nuova era integralista.

Dal processo di Doha, le donne afghane hanno avvertito tante volte di non credere al cambiamento dei talebani. Ma nessuno ha ascoltato la nostra voce, e ora la storia si ripete“, commenta Haidari scagliandosi contro l’accordo firmato dagli Stati Uniti “senza che il popolo afghano ne conoscesse le condizioni” e da cui la più grave crisi dei diritti femminili del pianeta ha mosso i suoi primi passi. E tiene che sia chiaro: “sono quegli stessi settemila prigionieri talebani rilasciati dalle carceri afghane con il beneplacito del Governo statunitense che oggi perseguitano le donne per le strade dell’Afghanistan“.

Darwishi rimanda al mittente le manifestazioni di solidarietà che ora muovono dalla comunità internazionale. “Non si sono mai preoccupati delle donne afghane e dei loro diritti. Sono sempre stati interessati solo ai propri obiettivi, altrimenti l’Afghanistan non sarebbe mai stato riconsegnato ai talebani. Nessuno poteva fidarsi delle loro rassicurazioni, ricordiamo bene il passato Governo talebano, quello che hanno fatto all’Afghanistan. Dopo il collasso, tutti dichiarano il proprio sostegno. Ma sono solo parole, nei fatti non c’è nessuna dimostrazione che si voglia davvero fare qualcosa per il popolo afghano, per le donne soprattutto“, la sua accusa.

Patriarcato e diritti delle donne non possono sedere allo stesso tavolo, lo ribadiscono tante volte le donne che abbiamo incontrato. Che non ci si dica stupiti se ora, ripreso il potere, l’amministrazione talebana fa dell’Afghanistan l’unico Paese al mondo che non riconosce alle bambine e alle ragazze il diritto umano allo studio, attirandosi anche le critiche dei leader del mondo musulmano.

È la coordinatrice di HAWCA a spiegarci “i talebani riconoscono le donne come esseri umani, ma utili sono a servire in casa e partorire figli. Temono le donne istruite, perché conosceranno e rivendicheranno i loro diritti, prima o dopo lavoreranno e saranno indipendenti, e saranno capaci di costruire un futuro libero per se stesse. È quello che i talebani non vogliono“.

Nessuna giustificazione religiosa, assicura la leader di ASDD che bolla il divieto di istruzione e tutte le altre restrizioni come una tattica politica e uno strumento di repressione, l’unico a disposizione di “un gruppo ideologico, violento e terroristico fondato sul patriarcato, che nulla potrebbe contro le donne istruite“.

E rincara: “i talebani si considerano superiori e pretendono di governare, ma sono ignoranti e analfabeti. Temono le donne, la conoscenza e la consapevolezza delle donne, perché sono potere contro di loro“.

La professoressa si dice convinta che sia proprio il lavoro fatto sull’istruzione negli ultimi vent’anni a dare oggi alle donne afghane il coraggio di sfidare il regime e lottare per i propri diritti, nonostante per questo rischino di essere arrestate, torturate, uccise. Contro le politiche arretrate e misogine dei talebani, contro le violenze e le brutalità delle milizie “che sono riprodotte e aumentano anche nelle relazioni private e familiari“, sono infatti tante le manifestazioni di protesta in tutto il Paese, dalle grandi città alle province più conservatrici dove la presenza dei talebani è profondamente radicata.

Le donne afghane combattono in prima linea. Non le ferma neanche l’inasprimento delle misure di sicurezza che nelle ultime settimane rende più difficile scendere in piazza: “si sono ritirate dalle strade, ma la loro lotta è ancora più dura. Non hanno alcuna intenzione di tacere“, avverte Haidari mentre racconta di come la voce delle dissidenti corra ora per le case, sui social network e sui media, da Kabul a Oslo.

E poi osserva: “non lo stanno facendo solo per i propri diritti, ma per tutti i diritti umani che gli ordini e i comportamenti dei talebani stanno violando. E anche per i diritti delle donne di tutto il mondo. I talebani sono un gruppo terroristico diventato modello di misoginia e se rafforzeranno le loro radici in Afghanistan cercheranno sicuramente di esportare le loro idee e opinioni in altri Paesi. È questo che le donne afghane stanno combattendo“.

Foto gentilmente concessa da Associazione di Solidarietà Donne per le Donne

Quella d’Afghanistan è una resistenza instancabile, tutta al femminile. I conduttori dei principali canali d’informazione che indossano maschere in onda in solidarietà alle colleghe cui era stato ordinato di coprire il volto e danno il via alla campagna virale #FreeHerFace. I professori dimissionari (ormai oltre 60) e gli studenti che a Kandahar e Nangarhar che si rifiutano di dare gli esami contro il divieto di istruzione universitaria per le donne delle Paese. Sono gesti importanti ma di pochi, denuncia la numero uno di HAWCA, “in realtà le donne afghane ancora combattono da sole per la libertà. Non è che gli uomini supportino le decisioni del Governo contro le donne, ma non stanno facendo molto per stare al nostro fianco“.

Pesa l’assenza degli uomini, che “forse pensano ancora che i loro interessi non siano in pericolo, e che quindi non ci sia bisogno di combattere contro i talebani e correre così grossi rischi. Le donne saranno sole al fronte finché gli uomini non comprenderanno appieno che negare i diritti umani a metà della popolazione minaccia l’intera società“, riflette l’attivista di ASDD. E se ne rammarica, perché, se le proteste solitarie delle donne sono ancora un baluardo contro la legittimazione dei talebani, “pensiamo a cosa potrebbe succedere se anche gli uomini fossero coinvolti“.

Pesa l’assenza della comunità internazionale. “Chiediamo ai popoli del mondo di non dimenticare l’Afghanistan, in particolare le donne afghane. Per favore, alzate la vostra voce per noi. Fate pressione perché non si inviino fondi al governo talebano, questo potrebbe far sì che revochino le loro decisioni“, insiste Darwishi segnalando che nell’ultimo anno e mezzo sono arrivati nel Paese più di 1,5 miliardi di dollari a titolo di aiuti umanitari.

E dalle parole di un’attivista della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA), una delle più antiche associazioni femministe afghane, richiamate a Voci Globali dalla referente di CISDA, si leva un appello ai media occidentali perché non spengano i riflettori sull’Afghanistan. Diano eco adeguata alle testimonianze di abusi che tramite i social riescono ad uscire dal Paese, e che ai talebani, che “vogliono avere buoni rapporti con gli Usa e gli altri governi per avere il loro sostegno finanziario“, fanno tanta paura.

I talebani vogliono convincere il mondo che sono cambiati, che adesso sono diversi. Ovviamente non è così. La loro mentalità profondamente misogina e fondamentalista è sempre la stessa, come il loro modo violento e tirannico di imporre le loro regole. [..] Se dovessero essere riconosciuti da altre nazioni estere, mostrerebbero i loro vero volto e anche i più elementari diritti umani sparirebbero nel silenzio“, chiosa.

Era il 15 agosto 2021. Crollava la Repubblica d’Afghanistan, riconsegnata al buio dell’estremismo. Si posavano quel giorno le prime pietre del progetto di annientamento dei diritti e delle libertà delle donne afghane che i talebani, sempre talebani, non avevano mai immaginato di abbandonare. Diciotto mesi dopo, è apartheid di genere sotto al sole d’Oriente.

È notizia degli ultimi giorni l’apertura dei talebani, o almeno di una parte del gruppo, a ridiscutere la questione dei diritti femminili. Ancora una promessa. Chissà che la marcia indietro stavolta non tardi più del solito ad arrivare. Almeno fino a che le  democrazie occidentali non torneranno alla loro consueta, attenta indifferenza.

Clara Geraci

Siciliana, classe 1993. Laureata in Giurisprudenza, ha recentemente conseguito il Diploma LL.M. in Transnational Crime and Justice all’Istituto di Ricerca delle Nazioni Unite. Si occupa di diritto internazionale, diritti umani, e migrazioni. Riassume le ragioni del suo impegno richiamando Angela Davis: “Devi comportarti come se fosse possibile cambiare radicalmente il mondo, e devi farlo costantemente”.

One thought on “Afghanistan, il patriarcato e la rivoluzione solitaria delle donne

  • È orribile quello che accade oggi in Afghanistan

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