Ha appena iniziato a compiere i suoi primi passi la quarta generazione dell’Era atomica. Il tabù nucleare è crollato. Il conflitto d’Ucraina si combatte ormai a sciabolate atomiche tra i potenti della Terra. Per tutti, tra un annuncio e la sua smentita, l’ipotesi nucleare è sul tavolo del grande gioco geopolitico internazionale. Giocano tutti. La Federazione Russa e la Nato in prima linea, certo. Ma anche la Corea del Nord fa la sua mossa con i test missilistici a mostrare i muscoli a Corea del Sud e USA di rimando. E la Cina fa il gioco del silenzio mentre ingrossa i suoi arsenali, sviluppa la triade, e si prepara a rivendicare il ruolo da terzo polo nel sistema nucleare mondiale.
Sono passati tre quarti di secolo da quando The Little Boy e The Fat Man cadevano su Hiroshima e Nagasaki e dichiaravano la capacità distruttiva totale della specie umana: all’ombra del fungo atomico restavano oltre 200 mila persone uccise, un incalcolabile numero di ereditieri degli effetti termici e radioattivi per i mesi e gli anni a seguire, e un nuovo assetto globale – che abbiamo imparato a chiamare Guerra Fredda – consacrato alla politica della potenza per il tramite della corsa agli armamenti di distruzione di massa, e all’affermazione della superiorità ideologica anche a costo della fine della civiltà umana.
Era l’ottobre del 1962 quando il Sabato nero della Crisi dei missili di Cuba segnava nelle parole dello storico Arthur Schlesinger “il momento più pericoloso nella storia dell’umanità“. Ed erano trentasette anni fa quando, di fronte agli studi che teorizzavano l’inverno e la fame nucleare quali matematiche conseguenze di una guerra combattuta con le armi totali, Michail Gorbačëv e Ronald Reagan imboccavano la strada per la riduzione degli arsenali atomici (erano ormai oltre 70mila le testate a disposizione delle due superpotenze) nella convinzione che “una guerra nucleare non può essere vinta, e dunque non deve mai essere combattuta“.
Dobbiamo soffrire una grave perdita di memoria collettiva se ancora circa 13 mila ordigni nucleari sono in giro per il mondo (posseduti ancora per il 93% da Russia e Stati Uniti, dislocati anche sul territorio italiano tra le basi aeree di Aviano e Ghedi). Se la minaccia atomica è ancora l’arma che decide le crisi globali, e batte 100 secondi alla mezzanotte l’Orologio dell’Apocalisse del Bullettin of Atomic Scientists dell’Università di Chicago che da settantatré anni guarda allo stato degli affari mondiali e tiene il tempo per il collasso dell’umanità.
“Ci siamo trasformati da tempo in una specie potenzialmente suicida: affidare ad armi di distruzione di massa come le armi nucleari il mantenimento della pace – una pace fondata sul terrore della distruzione reciproca garantita – è stata una scelta miope e in mala fede. E imperdonabile dopo Hiroshima e Nagasaki“, dice a Voci Globali la direttrice del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace (CISP) dell’Università di Pisa, la professoressa Enza Pellecchia.
“Gli eventi di questi mesi, il progressivo indebolimento del tabù nucleare, il passaggio dalla deterrenza alla minaccia d’uso delle armi nucleari dimostrano quanto sia menzognera e fallace la narrativa della deterrenza, che oltre tutto non contempla il rischio della guerra nucleare non intenzionale o delle esplosioni per malfunzionamento o per errore“, ci spiega la giurista a capo della Rete delle Università italiane per la Pace (RUniPace).
“Siamo sull’orlo del baratro per responsabilità delle potenze nucleari e dei loro alleati che non hanno voluto intraprendere un percorso serio di smantellamento totale degli arsenali nucleari che l’ art. 6 del Trattato di non proliferazione (TPN) indicava come naturale sviluppo“, sostiene.
Alla domanda su quale sia il peso specifico del vento atomico che soffia ancora sul mondo e sull’Europa, l’esperta risponde: “la minaccia d’uso delle armi nucleari è un modo di usare le armi nucleari, non a caso si tratta di una condotta vietata dal Trattato per la messa al bando delle armi nucleari (TPWN). Anche se si trattasse solo di retorica politica, sarebbe ed è inaccettabile: vivere sotto minaccia non è senza conseguenze – in termini di angoscia, paura, condizionamento delle decisioni, impatto sull’autodeterminazione individuale e collettiva – se guardiamo dal lato di chi subisce la minaccia. E non è solo retorica dal lato di chi formula la minaccia, perché formulare quella minaccia significa essere disposti ad annichilire la vita di milioni di persone, distruggere l’ambiente, lasciare in eredità alle generazioni successive malformazioni, povertà e cambiamento climatico“.
Pellecchia tiene a che sia chiaro: inaccettabile e intollerabile sono giudizi da riferire al paradigma della deterrenza in quanto tale. Non riguarda solo Putin. Non riguarda solo le ultime settimane.
“Noi viviamo da secoli in una cultura che dice ‘se vuoi la pace, prepara la guerra. E possibilmente dotati di armi più numerose e più potenti di quelle del tuo nemico’. Non c’è deterrenza vera se la minaccia non è così credibile da essere presa sul serio, e per essere credibili sostanzialmente ci si dichiara pronti a coltivare l’opzione ‘distruzione totale del nemico’. Dobbiamo reagire come cittadini e cittadine dicendo con chiarezza NO ALLE ARMI NUCLEARI“, ammonisce dichiarando il suo manifesto per un disarmo da costruire sulla nuova prospettiva, forse l’unica e l’ultima possibile, del “se vuoi la pace, prepara la pace“.
L’autrice del volume Per un mondo libero dalle armi nucleari pone l’accento sull’urgenza di azioni radicali individuali e di comunità perché si scongiuri l’olocausto nucleare riportando il fuoco su quanto di fondamentale rischia di perdersi di vista nel gran discutersi di bluff e di dottrine strategiche. Che le armi nucleari sono innanzitutto una questione umanitaria, e la minaccia nucleare è una minaccia alla sicurezza umana.
Di umanitario, nel caso per follia, avaria o errore una guerra nucleare dovesse mai esplodere, non resterebbe nemmeno il soccorso. Fosse anche (soltanto) un conflitto localizzato. È chiaro per la Croce Rossa Internazionale e la Mezzaluna Rossa Internazionale che nessun sistema sanitario, nessun governo, nessuna organizzazione umanitaria al mondo sarebbe in grado di rispondere ai bisogni di assistenza immediati e di lungo termine che rimarrebbero sul terreno di uno scontro nucleare. Ai sopravvissuti non resterebbe al mondo un posto in cui nascondersi, per parafrasare il titolo del più recente rapporto della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (Ican).
Tanto non basta per ribaltare la logica “aberrante ai principi di umanità e ai dettami della coscienza pubblica” che regge il sistema nucleare, e considerare piuttosto l’imperativo morale e umanitario della scelta non armata?
La firma della professoressa della pace si legge anche a margine della lunga e allarmante dichiarazione rilasciata lo scorso ottobre dal Gruppo di lavoro per la Sicurezza internazionale e il controllo degli armamenti (SICA) dell’Accademia dei Lincei. Un avvertimento sugli “scenari altamente inquietanti” sollevati da ” la sola menzione del possibile impiego di armi nucleari tattiche“. E un appello non solo alla ripresa immediata dei negoziati sul disarmo nucleare, ma anche a una forte presa di responsabilità nella comunicazione politica e scientifica internazionale perché non si normalizzi la minaccia nucleare e si evitino “pericolosi effetti di assuefazione dell’opinione pubblica“.
Il professor Roberto Antonelli, presidente dell’Accademia dei Lincei, la più antica accademia scientifica al mondo, chiarisce così a Voci Globali la posizione della commissione di esperti: “anche solo il parlare con tanta frequenza e facilità di un possibile uso di armi nucleari è segno della pericolosità della situazione, poiché induce a pensare alle armi nucleari come a una delle tante forme di utilizzazione delle armi. Non è così: con le armi atomiche si realizzerebbe un salto radicale negli scontri tra potenze, al di là del quale c’è il nulla“.
Mettendo al centro l’auspicio perché dialogo, ragionevolezza e diritto prevalgano “nell’interesse dell’umanità“, il filologo precisa: “se si utilizzassero armi nucleari, in qualunque forma, si tratterebbe effettivamente dell’annientamento dell’intera specie umana. È proprio questa sicura fine che viene utilizzata come minaccia definitiva per risolvere a proprio vantaggio una guerra in cui il Paese aggressore si trova in difficoltà: una forma di ricatto da tavolo da poker in una tragedia di dimensioni globali. Ma la detonazione di un’arma nucleare potrebbe innescare quasi automaticamente una reazione a catena dopo la quale non vi sarebbe più nulla da salvare. Non confondiamo il tavolo da poker con la vita reale!“.
Insomma, un’arma nucleare è un’arma nucleare. Distruttiva, disumana, sempre sproporzionata e indiscriminata, e per il lascito radioattivo alle generazioni a venire diversa da qualsiasi altra arma. Di umanità sotto scacco e di futuro del sistema umano globale abbiamo parlato con Daniele Santi, presidente di Senzatomica, partner italiano di Ican – Premio nobel per la pace nel 2017.
Gli chiediamo quale impatto concreto avrebbe la detonazione di un ordigno atomico sul mondo come lo conosciamo oggi. Per risponderci richiama il nostro sguardo su una fotografia degli Hibakusha, i sopravvissuti ai bombardamenti atomici: “Vediamo ancora le conseguenze delle radiazioni nelle seconde, terze, addirittura quarte generazioni, che hanno ereditato malattie genetiche che portano sofferenze inenarrabili“.
E poi cita uno studio dell’Università di Princeton con la previsione di 90 milioni di morti in meno di un’ora e conseguenze catastrofiche anche per le persone che vivono dall’altra parte del globo nei giro di pochi mesi nell’ipotesi che una guerra nucleare scoppi in Europa per l’escalation della guerra convenzionale tra Stati Uniti e Russia.
Il Plan A (che gli scienziati della Princeton Science and Global Security non abbiano previsto un Plan B basterebbe già a rendere l’idea di cosa sarebbe un ipotetico futuro atomico) è il dipinto di un quadro apocalittico per il pianeta intero, avverte Santi: “A livello climatico, la nube di polveri radioattive schermerebbe i raggi solari e causerebbe un abbassamento delle temperature (l’inverno nucleare) tale da rendere impossibile la crescita di piantagioni, l’allevamento e la pesca, generando una carestia che influenzerebbe tutta la popolazione mondiale“.
Il presidente di Senzatomica, che insieme alla Rete italiana pace e disarmo (RIPD) ha lanciato la mobilitazione “Italia, ripensaci” per sostenere la ratifica del TPNW anche da parte del nostro Paese a significare il rifiuto che il conflitto atomico rimanga una possibilità, ci racconta anche lui di una minaccia lunga 75 anni e da sempre reale che deve essere “una questione urgente per tutte le persone“.
E chiosa: “È fondamentale che la comunità internazionale direzioni i suoi sforzi adottando una visione che non si limita alla cessazione di atti ostili, ma che è orientata a salvare vite. Questa potrebbe essere la base utile per individuare un rimedio in grado di trasformare radicalmente la società. Come viene sottolineato nell’Agenda sul disarmo delle Nazioni Unite, bisogna perseguire tre tipi disarmo: il disarmo per salvare l’umanità, il disarmo che salva vite umane, e il disarmo per le generazioni future.
Il dibattito sulla sicurezza, in cui tanto peso viene attribuito alle questioni di sovranità nazionale, deve prendere in considerazione fattori come l’ambiente, lo sviluppo socioeconomico, l’economia globale, la sicurezza alimentare, la salute, il benessere delle generazioni attuali e future, i diritti umani e la parità di genere. Il dibattito sul disarmo nucleare deve essere basato sulla consapevolezza che non si può raggiungere una vera sicurezza a meno che ognuno di questi temi interconnessi non venga adeguatamente affrontato“.
Ad offrire a Voci Globali una lettura delle dinamiche geopolitiche che muovono la questione nucleare è il giornalista Ugo Tramballi, editorialista di affari internazionali e autore del blog SlowNews di Sole24Ore, nonché membro dell’Istituto affari internazionali (IAI).
“Sono curioso di vedere a fine gennaio a quanti secondi dall’Armageddon si fermerà il Doomsday Clock. È una misura relativa, ma molto efficace. Insieme al centro studi sul disarmo, fu creato – in qualche modo per redimersi – dagli stessi scienziati che parteciparono al progetto Manhattan: quello che costruì la bomba da 20 Kilotoni di TNT scagliata su Hiroshima“, apre la nostra chiacchierata.
Mentre si dice dubbioso su quanto siamo realmente vicini a una guerra nucleare considerando che “Putin sa che se usasse l’atomica sull’Ucraina perderebbe anche la necessaria amicizia della Cina“, Tramballi non manca di evidenziare che “l’atomica non è solo retorica negoziale: è una potente arma della politica. Nella geopolitica globale chi ha un programma militare conta di più di chi non lo ha. Il mondo in cui viviamo continua a essere quello hobbesiano del Leviatano“.
Il Senior advisor dell’Istituto per gli affari di politica internazionale (ISPI) fotografa per noi la complessità dell’armeria nucleare globale, per potenze e modalità di lancio. L’ormai nota bomba tattica, di teatro o da campo di battaglia: da uno a 50 Kilotoni buoni a distruggere da una brigata corazzata a una zona abitata di circa due miglia quadrate. L’ordigno strategico che può radere al suolo intere metropoli. E poi le armi non nucleari ipersoniche in sperimentazione in molti Paesi, Cina e Russia in testa, egualmente devastanti ma senza fallout (la ricaduta radioattiva).
E decifra così il messaggio che arriva dal “club dei nove” – che include anche Gran Bretagna, Francia, India, Pakistan e Israele: “in sostanza, si sta erodendo quel tabù che politicamente, psicologicamente e moralmente rendeva impossibile l’uso dell’arma di distruzione di massa“.
Se si parla di deterrenza, l’esperto incalza: “Non è un caso che per definire la mutua distruzione garantita gli americani abbiano usato l’acronimo MAD, cioè pazzo in inglese. Se io lancio le mie testate contro il mio nemico, prima di essere distrutto quello lancerà le sue e mi distruggerà. In effetti per gran parte della Guerra Fredda gli arsenali atomici, che arrivarono fino a 80 mila testate, ebbero un paradossale ma importante effetto pacificatore. Tuttavia allora c’erano solo due superpotenze: oggi il nucleare è più diffuso. Poi ci sono anche le bombe tattiche che in teoria esulano dal terrore dell’Armageddon. In realtà, se qualcuno le usasse, anche le meno potenti, aprirebbe un’escalation difficile da fermare”.
E sulla smilitarizzazione nucleare ci lascia un’ultima considerazione su cui riflettere: “era più facile da raggiungere fra due superpotenze. Oggi gli attori sono molti di più e con diverse preoccupazioni e ambizioni” – dice riferendosi alla posizione di Pechino, lontana da sempre da ogni negoziato sulla riduzione degli arsenali nucleari – “Appena Joe Biden è diventato presidente ha rinnovato con Vladimir Putin il New Start Treaty sulle armi strategiche, l’unico rimasto ancora in vigore nella nutrita schiera di accordi di questi decenni. Era una buona notizia. Ma il trattato prevede che le parti facciano reciproche ispezioni, diano le informazioni che la controparte richiede. In sostanza che fra USA e Russia ci sia una mutua fiducia perché il trattato funzioni. Pensa che nel mezzo del conflitto ucraino esista ancora un po’ di quella fiducia? Io non credo“.
In chiusura della nostra intervista la professoressa Pellecchia ci riporta al 1955 e alla scelta pacifista per l’umanità che il Manifesto Russell – Einstein chiedeva a tutti i Governi del mondo.
“Non parliamo, in questa occasione, come appartenenti a questa o a quella nazione, continente o credo, bensì come esseri umani, membri del genere umano la cui stessa sopravvivenza è ora in pericolo. Noi vi chiediamo, se vi riesce, di mettere da parte le vostre opinioni e di ragionare semplicemente in quanto membri di una specie biologica la cui evoluzione è stata sorprendente e la cui scomparsa nessuno di noi può desiderare. Gli uomini sono tutti in pericolo, e solo se tale pericolo viene compreso, vi è la speranza che, tutti insieme, lo si possa scongiurare.
Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. […] La domanda che dobbiamo porci è: Quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti? Questo dunque è il problema che vi poniamo, un problema grave, terrificante, da cui non si può sfuggire: metteremo fine al genere umano, o l’umanità saprà rinunciare alla guerra? […] Ci attende, se lo vogliamo, un futuro di continuo progresso in termini di felicità, conoscenza e saggezza. Vogliamo invece scegliere la morte solo perché non siamo capaci di dimenticare le nostre contese? Ci appelliamo, in quanto esseri umani, ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità, e dimenticate il resto“.
Sessantacinque anni dopo, con 2mila testate nucleari in massima allerta, quella chiamata alla coscienza di un’appartenenza umana comune sta per scadere. Un minuto e 40 secondi alla mezzanotte. Risponderemo in tempo? Tic, tac.