La morte della reporter di Al Jazeera Shireen Abu Akleh e più recentemente quella di Ghufran Harun Warasneh hanno riportato la causa palestinese all’interno del dibattito pubblico mondiale. Entrambe le giornaliste sono state colpite nello svolgimento della propria professione. Ghufran Harun Warasneh ha perso la vita mentre si stava recando al lavoro, mentre la giornalista palestinese con doppia cittadinanza americana, Shireen Abu Akleh, era impegnata a coprire le operazioni militari in corso all’interno della città di Jenin in Cisgiordania.
I raid che continuano a colpire Jenin sono legati agli attentati che hanno sconvolto la città di Tel Aviv ad aprile e infine lo scorso 5 maggio. L’uccisione da parte delle Forze di Difesa Israeliane delle giornaliste ha riacceso il dibattito sulla politica di occupazione e segregazione portata avanti da Israele.
Mentre va avanti, senza sosta e vergogna, l’ondata di demolizioni nella Cisgiordania occupata.
Ma ricostruiamo un po’ di storia. A partire dalla Guerra dei Sei Giorni, si è protratta l’espansione e la costruzione di insediamenti destinati ai coloni israeliani al di là della Linea Verde, ossia la linea di armistizio riconosciuta internazionalmente dal 1949.
Nonostante gli Accordi di Oslo del 1993 e la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel territorio cisgiordano e nella Striscia di Gaza, le condizioni di vita dei cittadini palestinesi sono drasticamente peggiorate negli ultimi vent’anni. La situazione attuale mostra l’esistenza di un chiaro regime di apartheid nei confronti dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. La vita quotidiana è segnata dalla difficoltà di accesso a quasi tutti i diritti basilari: all’educazione, al mercato del lavoro e alla libera circolazione sul territorio. Persino il diritto alla sicurezza alimentare e l’accesso all’acqua potabile sono fuori dalla portata della popolazione palestinese, sottoposta a una continua violazione dei propri diritti per mano dell’occupazione israeliana.
Di seguito abbiamo raccolto la testimonianza del giovane attivista palestinese Sami Hussein Huraini, attivo nell’associazione Youth of Sumud (“Gioventù della Resilienza”). Youth of Sumud è attiva sul territorio a sud di Hebron fin dalla sua fondazione nel 2017. Gli attivisti che la compongono organizzano workshop e campi di volontariato nel territorio vicino a Masafer-Yatta. Identificata come Area C sulla base degli Accordi di Oslo l’area è sottoposta a una forte pressione militare israeliana, nonché a una costante tensione con i coloni israeliani degli insediamenti illegali circostanti.
Sami, qual è lo scopo del progetto Youth of Sumud?
“Youth of Sumud è nata dalla volontà di un gruppo di giovani attivisti di contrastare l’apartheid israeliano attraverso la non-violenza, la disobbedienza civile e la militanza politica. Il cuore dell’associazione è il nostro villaggio internazionale di Sarura. L’area è stata designata come zona di addestramento dalle Forze di Difesa Israeliane impedendo qualsiasi possibilità di costruire edifici o infrastrutture in un territorio fino a quel momento abitato da palestinesi. La popolazione locale è stata costretta ad abbandonare le proprie case a causa della pressione dei militari e dei soprusi da parte degli stessi coloni israeliani provenienti dall’insediamento di Ma’on e da altri avamposti.
La nostra associazione è tornata a dare vita ai luoghi abbandonati: abbiamo piantato alberi, ampliato le cave nell’area dove dormiamo ogni notte per evitare che l’area venga nuovamente sgomberata. Organizziamo seminari e progetti dove ospitiamo associazioni e persone da tutto il mondo che vogliono condividere con noi la loro esperienza e vedere con i propri occhi cosa succede in Palestina”.
Quali sono le principali difficoltà che la popolazione palestinese affronta nella vita quotidiana?
“Vivere sotto occupazione significa lottare costantemente per rivendicare i propri diritti di base. L’essere considerati area C non ci permette di ottenere permessi per costruire abitazioni, infrastrutture basilari come strade, acquedotti e allacci per la corrente elettrica. Il villaggio di at-Tuwani dove vivo con la mia famiglia, dopo lo smantellamento dei villaggi circostanti negli anni Novanta, ha ottenuto i permessi dall’IDF per approvare un proprio Piano regolatore agli inizi degli anni Duemila. Oggi, dopo più di vent’anni l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha ribaltato questa decisione dichiarandolo illegale. Il villaggio è ora sotto la costante minaccia di essere smantellato dall’esercito. I raid notturni dell’IDF possono verificarsi anche più volte a settimana. La scorsa settimana è toccato alla mia famiglia essere perquisita nel cuore della notte”.
In che modo l’occupazione israeliana influisce sull’accesso all’educazione?
“Le scuole come tutti i nostri edifici subiscono demolizioni e vengono dichiarate illegali. Per i ragazzi è estremamente difficile mantenere una giusta costanza nel seguire le lezioni. Ogni giorno sono costretti ad attraversare i check-point dell’esercito e gli insediamenti dei coloni. Spesso vengono vessati o tenuti in stato di fermo per molto tempo, perdendo così ore di lezione. Youth of Sumud si occupa anche di accompagnare gli studenti a scuola proprio per cercare di limitare i danni di questa condizione disumana. Per quanto riguarda l’accesso all’Università non tutte le famiglie possono permettersi di garantire un’educazione superiore ai propri figli.
Nonostante le borse di studio offerte dalle Università palestinesi e dalla cooperazione internazionale, portare a termine il nostro percorso educativo e allo stesso tempo sopravvivere all’apartheid israeliano è una sfida che ci consuma”.
Quali sono le prospettive lavorative della gioventù palestinese?
“Il diritto al lavoro senza discriminazioni e restrizioni è completamente negato dall’occupazione. Gran parte delle famiglie trae il proprio sostentamento da piccole attività e dalla nostra terra. Le prospettive di impiego per i più giovani sono sempre minori e la pressione israeliana non fa che peggiorare la situazione. Molti tentano di trovare un lavoro attraversando i controlli per entrare nella Palestina storica pre-1948, ma i rischi sono elevati e lo sfruttamento della manodopera palestinese è una realtà conclamata. L’impegno degli attivisti è rendere sostenibile la vita sul nostro territorio, cosicché le nuove generazioni possano restare e non essere costrette a cercare sicurezza altrove”.
Qual è il vostro rapporto con i gruppi di difesa dei diritti umani israeliani? Condividono la vostra lotta?
“Abbiamo uno stretto rapporto con molte realtà israeliane anti-sioniste che ci appoggiano partecipando con noi a molti progetti e collaboriamo frequentemente con B’Tselem. Insieme agli attivisti israeliani siamo riusciti a radunare circa cinquemila persone ad una manifestazione, è stato un bellissimo segnale. La politica israeliana è molto complessa ed è difficile far cambiare idea alle persone che vedono i palestinesi come nemici. Tuttavia, il lavoro che stiamo facendo con gli attivisti israeliani è sintomo che qualcosa sta cambiando. Abbiamo l’occasione di avere maggiore voce per la nostra causa”.
Come si è evoluta l’occupazione in questi anni? Quali sono le differenze col passato?
“L’occupazione militare si è trasformata in un vero e proprio regime di apartheid. I raid e le perquisizioni sono cresciuti negli ultimi anni fino a divenire insostenibili. La comunità internazionale è paralizzata di fronte a Israele. In questi anni non ha elaborato nessuna risposta all’aumento delle atrocità perpetrate dall’esercito israeliano e dalla politica di ampliamento delle colonie. Per contro, noi giovani attivisti abbiamo nuovi mezzi per comunicare e condividere con tutto il mondo la nostra lotta. Grazie ai social e ai contatti che siamo riusciti a instaurare con giovani da tutto il mondo, abbiamo la possibilità di far sentire la nostra voce e di richiamare l’attenzione sulla Palestina”.
Qual è la tua speranza per il futuro?
“Che il regime di apartheid crolli. Sebbene il nostro attivismo richieda sempre più energie e forza di volontà, siamo disposti a dedicare la nostra vita al futuro. Vogliamo che le nuove generazioni possano godere della libertà che a noi è preclusa. La cosa più difficile è non perdere la speranza e la fiducia nel domani. È proprio su questo che si basa la segregazione israeliana: deprimere la popolazione e non lasciare nessuna speranza di miglioramento. Noi però faremo tutto il possibile per impedirlo”.