Alcuni ce la fanno. Molti invece sono costretti (o si convincono) a tornare indietro. Specialmente quando si trovano intrappolati nell’inferno libico. Allora cercano un’altra strada, quella verso casa. Ad aiutare in questi viaggi all’indietro sono spesso i progetti dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM/OIM) a cui sono a volte gli stessi migranti a rivolgersi.
Ce lo raccontano dalla sede di Accra da dove vengono gestiti programmi di rimpatrio che preferiscono chiamare, appunto, ritorni. Non si tratta infatti dei rimpatri forzati decisi dagli Stati dove sono riusciti ad arrivare i migranti, ma si basano su decisioni personali, individuali. Decisioni di persone che non ce la fanno più a subire abusi, ingiustizie, spesso violenze.
Si chiama Assistance Voluntary Return Reintegration, ed è un programma attivo da molti anni. E in qualche modo dà la misura di quanto le migrazioni “irregolari” siano soggette alla capacità di resistenza dell’individuo, alla fortuna, alle chance che si incontrano durante il percorso. Perché alla fine, per molti, tornare è la scelta migliore.
Soffermiamoci sul Ghana. Ogni anno sono centinaia le persone che ritornano, la maggior parte proviene – per quanto riguarda l’Europa – dalla Germania. Mentre gli ultimi rimpatri dall’Italia risalgono al 2019. Ma il numero più alto fa ritorno dalla Libia. Solo lo scorso anno – ci dice Pooja Bhalla, project manager per l’OIM – sono arrivati tre charters ognuno con circa 150 persone. In questo caso si tratta del Voluntary Humanitarian Returns – ci spiega – e spesso sono i migranti stessi a chiedere assistenza. Sono programmi finanziati dall’EU Trust Fund for Africa, un fondo che ha attirato nel tempo molte critiche. Da strumento di aiuto per approcciare le cause delle migrazioni si è trasformato a strumento di applicazione delle restrittive politiche migratorie.
“La crisi e il conflitto in Libia, le difficoltà in quel Paese, il Covid, tutto questo ha reso sempre più difficile la vita dei migranti che arrivano lì e sono diretti verso l’Europa – afferma Collins Yeboah, Community outreach assistant all’OIM della sede in Ghana – ecco perché sempre più persone prendono la decisione di tornare”. “Sono partiti pensando che le cose sarebbero state più facili – continua Yeboah – ma quando affrontano la realtà realizzano che è meglio cercare un lavoro in Ghana che usare mezzi irregolari di migrazione ed esporsi a innumerevoli difficoltà”. Difficoltà che per molti rappresentano un vero e proprio shock. “Alcuni di loro sono lì da anni – dice il community assistant – alcuni non avevano mai visto un’arma nel loro Paese di origine ma arrivati lì si accorgono che c’è un conflitto. Molti finiscono in centri di detenzione”.
E cosa accade in questi centri di detenzione è cosa nota e ben documentata. Lager, di questo si tratta.
Ma il ritorno non è cosa facile. È un’opzione che deve fare i conti con la percezione del fallimento, affrontare lo stigma da parte della comunità e, con questo, il disagio di un ambiente sociale ed economico che non sembra dare molte prospettive. “È il motivo per cui provvediamo, con un fondo per la reintegrazione, di denaro per pagare il trasporto, di una formazione per aprire un business…” sottolinea Florian Braendli che si occupa di protezione e assistenza ai mgranti. I programmi dell’OIM comprendono anche visite mediche e assistenza psichica laddove sia necessario. È sempre più discusso (e riconosciuto) il rapporto tra migrazioni e disturbi mentali. Sia che arrivino a una destinazione o che ritornino a casa, questi migranti portano i segni fisici e psichici di traumi difficili da gestire.
Le cifre investite per ogni migrante che fa il percorso di ritorno, possono variare dai 1.500 ai 2.000 euro, ma il problema rimane il futuro di queste persone che spesso tornano piegate nel corpo e nello spirito. Partire può essere una decisione individuale, ma spesso nella decisione sono coinvolte la famiglia e la comunità stessa. Famiglie che contano sulle rimesse che arriveranno dall’Europa una volta che il congiunto avrà trovato un lavoro. “In questo caso – continua Yeboah – nonostante possa esserci delusione il ritorno può essere più facile, meglio accolto e spesso facciamo leva sulla comprensione della comunità per evitare atteggiamenti di rifiuto e stigmatizzazione”. Diventa più difficile, invece, per una persona che non può contare sull’appoggio della comunità di appartenenza. In questo caso il “fallimento” va nascosto e la persona stessa si nasconde provando a vivere altrove, a rifarsi una vita dove nessuno lo conosce.
Ma alcuni provano a fare tesoro delle propria esperienza – violenza e sofferenze comprese – e così diventano advocates in quei tanti programmi che mirano a creare informazione consapevolezza sui rischi dell’”emigrazione senza visto” (è così che vogliamo chiamarla, non clandestina) e che comprendono anche training e accompagnamento per imparare un mestiere.
È il caso, ad esempio, di Migrant Watch. I pericoli delle migrazioni irregolari crescono man mano che ci si avvicina all’obiettivo, sottolineano gli esperti dell’OIM di Accra. Comincia spesso con passaparola circa i percorsi, poi si incontrano le varie fasi (a cui è davvero difficile sottrarsi). Il migrante viene intercettato, contrabbandato, a volte rapito e quindi soggetto a richiesta di riscatto ai familiari, trafficato.
“L’industria della migrazione è un booming business – afferma ancora Collins Yeboah – Le persone si affidano a agenzie di reclutamento a chi offre il canale migliore per arrivare in Europa o altrove. Per questo utilizzano persino i media, le radio soprattutto, per pubblicizzare i loro servizi”. Accade per esempio per quello che si rivela poi essere un vero e proprio traffico di esseri umani. Il reclutamento di persone, soprattutto donne, per lavori, perlopiù domestici, in Medio Oriente e nei Paesi del Golfo. Donne che però passano da reclutatori privati e spesso si ritrovano a servire in case dove finiscono per diventare prigioniere e vittime di abusi. E questo, comunque, riguarda la migrazione femminile in genere, qualunque sia il luogo di partenza, da cui a volte si va via per sfuggire proprie a violenza, e quelli di arrivo.
Oltre il 70% delle donne che sono riuscite a tornare hanno raccontato di situazioni di disagio e di perdita di libertà. Ma per quante partono ce ne sono altri che arrivano. Dalla Nigeria, dalla Costa d’Avorio, dal Niger. In questi ultimi due casi sono spesso bambini, trafficati per lavorare nel settore delle miniere, nelle piantagioni di cacao, nell’industria della pesca. Anche per chiedere l’elemosina per strada. Attraversare i confini è semplicissimo. Più difficile è tornare a casa qualora si decidesse di farlo. E anche il traffico per prostituzione ha il suo peso in questo Paese.
Per tornare allo sfruttamento minorile, è difficile trovare la linea di confine tra una cultura che richiede l’aiuto domestico o nel lavoro dei genitori dei bambini dallo sfruttamento. Secondo Braendli il confine sta nel verificare se ai bambini in questione è permesso di frequentare la scuola, come vengono accuditi e se vengono curati in caso di malattia. Tra migranti che tentano la sorte e “aspiranti migranti” che ritornano, rimane comunque aperta una questione, quella dei visti. Perché essere costretti a rischi così forti per tentare una nuova vita?
“La prossima volta sarà con un visto sul mio passaporto, ci ha detto un ragazzo che è tornato in Ghana” ci riferisce Pooja Bhalla. Eppure questi visti sono così difficili da ottenere. Ma l’opinione di Yeboah, che assiste i migranti nelle loro comunità, ci riporta su un altro punto: “Come dicevo, quella della migrazione è un business. Molte persone, per ignoranza o mancanza di informazione si rivolgono a canali non ufficiali. E per uno che ce la fa rimane la speranza per tutti gli altri”.
Molto interessante l’articolo, per me che sono psicoterapeuta e lavoro con rifugiati e vittime di tortura.
Ho fondato Mamre, una fondazione a Torino che si occupa di etnopsichiatria e migrazione.
Mi interesserebbe entrare in contatto con voi.
Grazie per questi articoli di conoscenza e sensibilizzazione.
Francesca Vallarino Gancia