Mali, la cultura dell’impunità che umilia i diritti e la dignità umana
“È passato un decennio dall’inizio del conflitto in Mali. Le speranze di una rapida risoluzione della crisi non si sono mai concretizzate“. Anzi, “l’insicurezza è aumentata, la situazione umanitaria peggiorata, i bambini hanno smesso di andare a scuola” e “l’instabilità è diventata ormai una costante senza fine”. Tutto questo sta mettendo a serio “rischio il futuro del Paese”.
El-Ghassim Wane – Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite – ha presentato, nel corso del suo recente intervento al Consiglio di Sicurezza ONU, una chiara panoramica della situazione nello Stato africano.
Quello maliano rappresenta uno dei conflitti più complessi e stratificati al mondo. Estremismo jihadista, aspirazioni irredentiste, fragilità istituzionale, odi intracomunitari, criminalità transnazionale, si sono intrecciate dando vita a una fitta trama di lotte per il potere.
In effetti, ricostruire quanto accaduto dal 2012 ad oggi risulta un esercizio tutt’altro che agevole. Provare a riassumere gli eventi più salienti è però un passaggio obbligato per comprendere meglio l’attuale emergenza umanitaria in corso e il generale clima di impunità verso i responsabili di violazioni dei diritti umani.
La crisi interna in Mali – un tempo considerato modello di democrazia in Africa – ha avuto inizio a gennaio 2012 con la ribellione dei Tuareg nelle regioni settentrionali.
Il Paese è precipitato nel caos il 21 marzo dello stesso anno, quando un golpe ha determinato la caduta del presidente Amadou Toumani Toure, consentendo ai Tuareg di conquistare il Nord e ai gruppi islamici, alcuni dei quali legati ad Al Qaeda, di imporre la Sharia.
Nel 2013, di fronte al rischio sempre più concreto di un’avanzata vincente dei ribelli verso la capitale Bamako, la Francia ha avviato un intervento militare (Operazione Serval), che ha permesso alle forze governative di riprendere il controllo di buona parte delle aree centrali.
Nel frattempo, le Nazioni Unite hanno istituito la MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali), a cui è stato attribuito il mandato di sostenere il processo politico di transizione e aiutare la stabilizzazione del Mali. Mentre la Francia, nel 2014, ha messo in campo l’operazione Barkhane “con l’obiettivo di impedire la ricostituzione di un santuario jihadista tra il Sud dell’Algeria e il Nord del Mali“.
L’accordo di Algeri del 2015 ha pacificato il Paese soltanto sulla carta. La presenza militare internazionale e la politica del presidente Ibrahim Boubacar Keïta (eletto nel 2013 e poi di nuovo nel 2018) non sono bastati a ripristinare la sovranità statale sull’intero territorio nazionale. Né ad eliminare le formazioni jihadiste.
I fallimenti militari uniti alla situazione di instabilità generale hanno infine portato ai due recenti colpi di Stato, susseguitesi a distanza di soli 9 mesi l’uno dall’altro.
Il 18 agosto 2020, il presidente Keïta si è dimesso dopo essere stato arrestato da un gruppo di soldati in rivolta, che al contempo si sono autoproclamati “Comitato Nazionale per la Salvezza del Popolo”.
E il 25 maggio scorso, i militari – scontenti del nuovo Governo annunciato dalle autorità di transizione – hanno rimosso con la forza il presidente Bah N’daw e il primo ministro Moctar Ouane.
Subito dopo, il colonnello Asimi Goita, alla guida del golpe, ha affermato di essere intervenuto “per il bene del Paese”, assicurando: “il calendario della transizione sarà rispettato”. E invece, le elezioni che avrebbero dovuto svolgersi entro la fine di questo febbraio sono state rinviate al 2026.
Dal canto suo, la comunità internazionale, da un lato, ha continuato a comminare sanzioni nel tentativo di spingere la giunta a militare ad avviare in modo concreto il processo di transizione democratica, di cui le elezioni rappresentano un punto imprescindibile.
Dall’altro, ha mantenuto alto il proprio impegno per fronteggiare la gravissima crisi umanitaria in atto.
Un atteggiamento per certi versi contradditorio, suscettibile di generare maggiori danni alla popolazione civile.
Non a caso, il 19 gennaio scorso, un gruppo di 14 ONG ha chiesto agli organismi internazionali e agli Stati favorevoli alle nuove sanzioni di “impegnarsi ad applicare esenzioni umanitarie, affinché gli aiuti salvavita possano raggiungere tutti coloro in stato di bisogno”.
Ad avviso dei firmatari dell’appello, tali restrizioni “avranno conseguenze devastanti per il popolo maliano“, che sta già affrontando “la peggiore insicurezza alimentare degli ultimi 10 anni”.
“Le sanzioni non devono impedirci di fornire assistenza essenziale in un Paese dove la siccità, la crescente insicurezza e l’impatto economico del Covid-19 stanno già spingendo milioni di persone oltre il limite”, ha precisato Elena Vicario – direttore del Norwegian Refugee Council in Mali.
Va considerato che il 90% della popolazione rurale vive in aree di conflitto. L’uso di ordigni esplosivi improvvisati, la distruzione di antenne di comunicazione, di ponti e strade, l’accerchiamento di villaggi da parte dei ribelli, le operazioni militari delle forze armate, stanno ostacolando l’accesso ai servizi di base e ai mezzi di sussistenza. Bloccando anche la mobilità del personale umanitario.
In altre parole, l’emergenza umanitaria potrebbe trasformarsi in una vera e propria catastrofe.
Del resto, i numeri parlano chiaro. Secondo le ultime stime: 5,8 milioni di maliani hanno bisogno di assistenza umanitaria; oltre 1,8 milioni di aiuti alimentari. Mentre, quasi 200 mila bambini al di sotto dei 5 anni soffrono di malnutrizione acuta.
Intanto, gli sfollati hanno superato quota 400 mila, un dato quadruplicato rispetto a 2 anni fa. Il 65% di loro è minorenne. E in più della metà dei casi si tratta di donne.
Sul fronte socio-economico, circa 1 milione di persone è diventato indigente. E la Banca Mondiale prevede un aumento del 4,8% del tasso di povertà.
A preoccupare è altresì la progressiva erosione dei diritti umani, in particolare nei territori sottoposti al controllo dei ribelli o dei jihadisti.
Ad onor del vero, la crisi maliana è stata caratterizzata ab initio da un elevato livello di violenza e devastazione messa in atto da tutte le parti coinvolte, a vario titolo, nel confitto. Già nel 2012, erano state denunciate violazioni dei diritti umani, tra cui: arresti arbitrari, esecuzioni extragiudiziali, reclutamento di bambini soldato, violenze sessuali, stupri di gruppo.
La Commissione d’Inchiesta delle Nazioni Unite – nel suo report conclusivo – ha rilevato come tra l’inizio del conflitto e il 2018 siano stati perpetrati, tra l’altro, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
L’arrivo delle truppe francesi non ha certo migliorato la condizione dei civili. Nel corso degli anni, diverse operazioni militari – condotte in palese violazione del diritto internazionale umanitario – sono state giustificate da Parigi sul presupposto della lotta al terrorismo internazionale.
Da ultimo, in ordine cronologico, l’attacco aereo del 3 gennaio 2021 nel villaggio di Bounti contro un presunto raduno di jihadisti, che si è scoperto poi essere in realtà un matrimonio a cui avevano preso parte circa 100 civili. Nel raid sono stati uccisi 19 uomini. Solo 3 – secondo un team investigativo dell’ONU – erano terroristi. La richiesta alle autorità francesi di aprire “un’inchiesta indipendente, credibile, trasparente sul terreno, per esaminare le circostanze dell’attacco e il suo impatto sulla popolazione civile” non ha sortito alcun effetto. Nessuna indagine è stata infatti mai avviata.
Oggi – nonostante la guerra ad alta intensità sia da tempo scemata – dalle poche informazioni reperibili soprattutto da fonti istituzionali emerge un quadro comunque inquietante.
“Come risultato del conflitto e del deterioramento socio-economico aggravato dalla pandemia, stiamo assistendo ad alcune delle più gravi violazioni dei diritti umani nel Sahel“, ha affermato Gillian Triggs, Assistente Alto Commissario per la Protezione dell’UNHCR.
La MINUSMA, nel primo semestre 2021, ha documentato 617 violazioni, di cui: 165 uccisioni e 328 rapimenti, in gran parte opera di gruppi armati e milizie a base comunitaria nel Mali centrale.
Proprio i rapimenti rappresenterebbero, secondo l’OHCHR (UN Human Rights Office), la prova più evidente del deterioramento della situazione dei diritti umani nel Paese.
È quasi superfluo sottolineare che, in questo scenario, bambini e donne sono i soggetti più vulnerabili ed esposti agli abusi.
Il Global Protection Cluster – network di Agenzie ONU e ONG – ha registrato un aumento di traffico, lavoro forzato e reclutamento di minori da parte dei gruppi armati. Non solo, i bambini vengono violentati, uccisi, costretti alla schiavitù sessuale e a matrimoni forzati.
“Quando ho incontrato i bambini maliani sfollati nei campi profughi, erano così traumatizzati da non riuscire nemmeno a raccontare quello che avevano vissuto”, ha spiegato Mariam, giovane membro dell’Advisory Council for Children and Young People del Mali.
Altrettanto critica la condizione delle donne, vittime soprattutto di atti di violenza sessuale, di stupri pubblici e di gruppo.
Inoltre, nelle zone occupate dai ribelli e dai terroristi, si verificano spesso matrimoni forzati per “regolarizzare” previ abusi sessuali o rapimenti. Unioni che finiscono con il ridurre le malcapitate in stato di totale schiavitù.
Quanto avviene non sorprende in alcun modo. In ogni guerra la popolazione civile è bersaglio “privilegiato” di ogni sorta di abuso. E non sorprende neppure che l’impunità – come spesso accade nei contesti conflittuali – regni sovrana e indisturbata.
Nel caso del Mali, le autorità statali, almeno inizialmente, avevano mostrato un certo interesse nel perseguire i responsabili dei crimini di diritto internazionale. Tanto da deferire la propria situazione alla Corte Penale Internazionale (CPI), dove finora, si è tenuto un unico processo che ha portato alla condanna del jihadista Al Mahdi per crimini contro l’umanità.
L’inclinazione verso la giustizia ha però avuto vita davvero breve.
Nel 2019, l’Assemblea legislativa ha approvato la “Loi d’entente nationale“. Sul presupposto di voler guarire le profonde ferite del Paese e del popolo maliano, la Legge prevede l’amnistia per quanti – parafrasando le parole del presidente Keïta – “non hanno le mani sporche di sangue“, ovvero per gli autori di alcuni crimini ritenuti “meno gravi”.
Peccato si tratti di torture, trattamenti inumani e degradanti, sparizioni forzate, rapimenti, che hanno tutta l’aria di essere atti ignobili dotati di una certa “serietà”.
“Una legge che insulta migliaia di vittime. E confligge con gli obblighi internazionali del Mali di investigare e punire i responsabili di siffatti atti”, dichiarava all’epoca Samira Daoud, Direttore di Amnesty International per l’Africa occidentale.
Della stessa opinione l’Associazione maliana dei procuratori, che aveva invitato – senza alcun successo – i pubblici ministeri a non applicare la nuova normativa nelle aule di tribunale.
La stessa, in effetti, legittima de jure una sorta di immunità per i responsabili di crimini. Peraltro, attraverso un meccanismo abbastanza semplice che non contempla neppure il confronto tra vittima e carnefice.
Il presunto reo, invero, deve solo raccontare la propria versione dei fatti innanzi alle autorità competenti ed essere disposto a deporre le armi. Dato l’elevato livello di corruzione tra le autorità di polizia e i magistrati, si può ben immaginare l’esito dei procedimenti di amnistia.
La Loi d’entente nationale ha di fatto posto le basi per il perpetuarsi del ciclo di violenze e abusi. Infatti, è ormai diffusa la convinzione di poterla fare franca pur perpetrando reati “importanti”.
In buona sostanza, la lotta contro l’impunità, ha smesso, ben presto, di essere una priorità per le istituzioni maliane. E tuttora continua a mancare la volontà politica per invertire la rotta.
In tal senso, si sono espressi i più rilevanti organismi internazionali. “L’assenza di sanzioni contro gli responsabili di gravi violazioni dei diritti umani” spinge a pensare che “le autorità maliane tollerino o addirittura incoraggino tali pratiche“, si legge – ad esempio – nel report della già menzionata Commissione d’Inchiesta ONU.
La lentezza cronica con cui vengono condotte le inchieste e l’inerzia del “Polo Giudiziario Specializzato” (PJS) contribuiscono a corroborare questa idea.
“In Mali, tantissime indagini sono ancora in corso. Quando si decideranno a chiuderle? È questa la vera domanda da porre alle istituzioni“. A lanciare la provocazione è Drissa Traoré, Coordinatore nazionale dell’Association Malienne des Droits de l’Homme (AMDH).
L’ONG insieme a Fédération internationale pour les droits humains (FIDH) Avocats sans frontières Canada e Amnesty International ha avviato, a febbraio dello scorso anno, un progetto volto a promuovere la fine dell’impunità nello Stato africano, dando anche supporto legale alle vittime.
L’accesso alla giustizia maliana, d’altronde, risulta essere oltremodo complicato per una serie di fattori che vanno dalla diffusa corruzione alla mancanza di indipendenza del sistema giudiziario, passando per la disorganizzazione dei tribunali penali, l’assenza di risorse economiche, personale qualificato e misure concrete per proteggere vittime, testimoni, difensori dei diritti umani.
In Mali, la pace e la riconciliazione nazionale sono ancora una lontana chimera. E rimane un miraggio la possibilità per le tante vittime di gravi violazioni dei diritti umani di ottenere giustizia. Niente di nuovo sotto il sole.
Il Paese africano non fa purtroppo eccezione. Come in altri Stati dello stesso continente, in Siria, Yemen, Afghanistan – solo per citare alcuni esempi – la sete di potere sta prevalendo sui diritti e sulla dignità della persona umana.