Diritti universali 63 anni dopo
Sono 30. Trenta diritti che avrebbero dovuto cambiare la vita degli individui in tutto il mondo. Che avrebbero dovuto migliorare le relazioni tra cittadini e Governi e tra esseri umani appartenenti a culture, aree geografiche, storie diverse. Trenta diritti universali che rendono uguali le persone, ma solo di fronte alla legge poiché basati sul rispetto delle minoranze, delle diversità, delle specificità.
Il 10 dicembre 1948, vedeva la luce la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. All’indomani da una guerra catastrofica e sotto l’effetto dello shock provocato dalla “scoperta” dei campi di sterminio. Le Nazioni Unite, con quell’elenco in trenta punti, diedero un input non solo alla nascita di un sistema di difesa e garanzia del rispetto dei diritti umani, ma anche ad una riflessione sempre attuale, costante. Perché i diritti non basta elencarli e diffonderli. In questi 63 anni è risultato ben chiaro che ciò che più conta – e ciò su cui si deve lavorare – è il cambiamento di mentalità, perché alla fin fine il rispetto dei diritti nasce dal cuore e dalla convinzione più che dall’esortazione o peggio dalla costrizione.
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani favorì l’approfondimento di certi temi sociali, economici e politici, e quindi la nascita di un corpus legislativo che affronta in maniera dettagliata argomenti, categorie di persone e diritti speficici: dalle donne, ai bambini, ai disabili; dalle minoranze indigene alla tratta o alla tortura. Ma pur esistendo oggi Corti speciali – come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la Corte Penale Internazionale – e Tribunali specifici, per giudicare abusi e violazioni, questo non frena violenze, sopraffazioni, soprusi. Ecco perché è importante continuare a diffondere le informazioni, a far conoscere i propri diritti a chi è isolato o discriminato, a far sapere cosa davvero accade nel mondo al di là della facciata. Anche di certi Governi.
Non a caso Human Rights Watch ha intitolato il Report 2011 sui diritti umani ‘A facade of action‘, sottotitolo ‘The Misuse of Dialogue and Cooperation with Rights Abusers‘ (l’uso improprio del dialogo e della cooperazione con coloro che violano i diritti umani). Kenneth Roth, direttore esecutivo della ONG scrive: “Difendere i diritti umani è raramente conveniente e qualche volta può interferire con altri interessi di Governo. Ma se i Governi vogliono perseguire tali interessi invece che i diritti umani, allora dovrebbero almeno avere il coraggio di ammetterlo invece di nascondersi dietro discorsi inconcludenti e richieste di cooperazione che non portano a nessun risultato“.
Tra i “difetti” che HRW imputa alla comunità internazionale nella lotta al sostegno e rispetto dei diritti umani, c’è una “risposta debole e inefficace” alla repressione in corso in vari Paesi in questi mesi; una “debolezza nella leadership” sia dei Governi che delle stesse Nazioni Unite; “l’uso delle emergenze umanitarie” per nascondere o evitare di affrontare abusi da parte di capi Stati o anche la prevaricazione degli interessi degli Stati e dei rapporti tra questi a scapito della salvaguardia del benessere delle popolazioni. Sono riflessioni che fanno capire quanto spesso la rivendicazione dei diritti umani pesi sulle spalle e le lotte delle singole persone, dei singoli cittadini.
È quanto sta accadendo ormai da un anno circa, da quando cioè sono scoppiate le rivolte in Nord Africa e Medio Oriente. I social media hanno aperto una breccia, anzi scavato un tunnel in quelle che erano fino a poco tempo fa le modalità informative. Rendendo in qualche modo attuale e attuabile l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere“. Dopotutto dobbiamo anche a Facebook, Twitter, Youtube se certe notizie sono arrivate (e prima che i mainstream se ne facessero carico). E dobbiamo anche all’evoluzione delle piattaforme di condivisione e geolocalizzazione se oggi possiamo avere in diretta e sotto mano (senza bisogno di ricorrere alla memoria o alla carta stampata) il quadro di quanto sta accadendo nel mondo e che riguarda la lotta e le rivendicazioni di democrazia, libertà, rispetto dei diritti. Anche la fantasia dei designer unita al mestiere del giornalista aiuta a fare ordine nell’ammasso di informazioni degli ultimi mesi. In questo “The path of protest” tute le informazioni principali sono sintetizzate e divise per aree geografiche e date.
E una piattaforma come Global Voices e i suoi Special Coverage con le coperture delle proteste in Egitto, Tunisia, Libia, Marocco, Siria, Yemen, Bahrain, aiutano a restare vigili su quanto è accaduto e accade in quei Paesi.
La consapevolezza e l’informazione sono i due elementi essenziali se si vuole lottare ogni giorno per i diritti umani, non solo i nostri. E non dare niente per scontato, per acquisito. Perché anche in Italia o negli Usa – tanto per citare due realtà – la situazione non è rosea: povertà, disoccupazione, potere incontrollato della finanza stanno riducendo i nostri diritti. E non ce ne accorgiamo. O meglio non riflettiamo a sufficienza di quanto questo sia grave.
Bisogna restare vigili e approfondire. Anche solo la conoscenza è un punto d’inizio verso le azioni future. Poche settimane fa Global Voices ha lanciato un’interessante iniziativa, la registrazione in tutte le lingue del mondo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Si chiama United Sounds. Finora sono 44 le lingue in cui la Dichiarazione è stata letta e registrata. Sono comprese il farsi, l’armeno, l’esperanto, il thai, il sanscrito… Bisogna arrivare a 370. Un modo per dare un significativo contributo al dibattito sui diritti umani.
Infine, le scuole, i giovani. Questo sito, in più lingue, compreso l’italiano, mette a disposizione una serie di strumenti per insegnanti ed educatori da utilizzare per lezioni a tema. Compreso questo video che racconta la “storia dei diritti umani”.
è un momento di difficoltà di lunga durata perchè da tempo l’Europa ed altri Paesi dell’Africa e dell’Asia versano in condizioni economiche di grande precarietà con conseguenze a carico dei cittadini poco sostenibili.Da una parte un capitalismo che da tempo ha trovato ampio spazio nei vari governi ed un succedersi di guerre civili sanguinose sono la giustificazione nell’ombreggiare le conquiste sociali riconosciute in sede di Nazioni Unite.Il percorso dei diritti universali richiede non solo la conoscenza degli stessi in tutti i Paesi dove non opera la conquista ,ma anche una presenza efficace di esperti di questo settore,perchè spesso si è irrisi quando si parla di diritti universali,specie in questi tempi in cui noi cittadini veniamo strumentalizzati per affrontare problemi generati da Governi che hanno operato tenendo presente più il potere che il benessere delle comunità
Ciao Alfredo, e grazie per il tuo commento. Il comunismo è finito, il capitalismo è fallito (o almeno ha mostrato la sua incongruenza: sistema che accresce la ricchezza di pochi, diminuisce il potere d’acquisto di molti), il consumismo stupidamente vince. In tutto questo i diritti umani rischiano di essere parole al vento. Eppure le parole hanno un peso, no? Parlare, conoscere, diffondere sono la nostra arma oggi. Diffondere anche le notizie che ci fanno capire meglio come siamo arrivati a questa crisi economica mondiale (che come anche tu fai in qualche modo notare non colpisce tutti).
Sono in Africa adesso, per cercare di rendere più consistenti le parole. Se hai voglia guarda qui http://ashantide.org/
Ciao!