Sud del mondo: conflitti, terrorismo islamico e diseguaglianze
[Traduzione a cura di Gaia Resta dall’articolo originale di Paul Rogers pubblicato su openDemocracy]
In un mio recente articolo avevo segnalato la minaccia sempre maggiore costituita dall’inasprimento dei conflitti guidati da al-Qaida, Isis e gruppi da essi derivati, particolarmente nell’Africa sub-sahariana. Nelle settimane successive, un orribile esempio di ciò si è verificato nella parte settentrionale del Mozambico, attirando finalmente l’attenzione dei media internazionali sulle rivolte in atto da quattro anni e a lungo ignorate.
Al-Shabaab, un gruppo affiliato all’Isis, è riuscito a conquistare la città di Palma nella provincia di Cabo Delgado nel corso di un attacco iniziato il 24 marzo scorso che ha causato la fuga di migliaia di persone.
Palma è una città a Nord del Paese, con una popolazione di 75.000 cittadini, situata a 20 chilometri dal confine con la Tanzania. Nonostante l’ampia estensione geografica, la città è stata conquistata soltanto da 100 ribelli in una serie di attacchi brutali. Il Governo, con sede a Maputo, si è affrettato a riconquistare la città e a dichiarare vittoria, anche se sembra più probabile che i rivoltosi si siano semplicemente dileguati dopo aver raggiunto l’obiettivo di dimostrare il loro crescente potere.
Questa sanguinosa vittoria contraddice le affermazioni secondo cui “la guerra al terrore” sia nelle sue fasi finali e, curiosamente, ricorda molto gli eventi che quasi quattro anni fa ebbero luogo nella città di Marawi nelle Filippine meridionali. In quell’occasione, i paramilitari affiliati all’Isis presero il controllo della città per quattro mesi, nello stesso momento in cui l’organizzazione veniva schiacciata dalla guerra senza quartiere e via aerea condotta dagli Stati Uniti in Iraq e in Siria.
Estrema violenza
L’Isis è salito alla ribalta agli inizi del 2014, come formazione creatasi dai resti di al-Qaida in Iraq (AQI), e ha immediatamente dimostrato la sua immensa forza. A luglio dello stesso anno, aveva preso il controllo di un’area estesa quanto il Regno Unito che comprendeva gran parte della Siria e dell’Iraq meridionali, dove abitavano circa sei milioni di persone.
I suoi metodi erano spesso violenti fino all’eccesso, specialmente contro gli yazidi nel nord dell’Iraq. Temendo per Baghdad, gli Stati Uniti reagirono dando inizio a un’intensa guerra aerea. Alla fine dell’anno si era costituita la coalizione di Francia, Regno Unito, Australia e alcune autorità regionali; il risultato furono centinaia di raid aerei al mese con l’impiego di migliaia di missili e bombe di precisione.
La guerra durò quattro anni e il numero di guerriglieri dell’Isis uccisi fu particolarmente alto, superando i 60.000; ma la gran parte degli scontri era cessata già verso la metà del 2017. In quello stesso periodo, a Marawi nelle Filippine – a 8.000 chilometri a Est di distanza – cominciavano ad accadere eventi fuori dall’ordinario, che contraddicevano la fine dell’Isis.
La rivolta a Marawi si sviluppò a partire da un movimento paramilitare islamico che rivendicava l’autonomia dell’isola di Mindanao, non riuscì a ottenerla e passò alla linea dura, ispirandosi in parte alla recente ascesa dell’Isis. Il Governo a Manila non prese seriamente in considerazione le minacce di violenza fino a quando il gruppo militante Abu Sayyaf prese il controllo di parte della città nel maggio 2017 nel corso di una rivolta che sarebbe durata quattro mesi.
Come riportato nella mia rubrica di settembre per openDemocracy, il loro attacco “avrebbe potuto essere un gesto programmato per durare solo qualche settimana. Invece, per i militari è stato più facile del previsto conquistare gran parte della città, in quanto l’esercito filippino – più abituato alla controguerriglia in zone rurali – si è dimostrato incapace nei combattimenti urbani contro certi ribelli pronti a morire per la causa“.
Gli Stati Uniti inviarono reparti speciali e aerei da ricognizione, ma la previsione iniziale di poter liberare la città fu smentita dai fatti e l’esercito ripiegò sull’impiego pesante di attacchi aerei e artiglieria. Così come la sicurezza iniziale che gli islamici sarebbero presto stati uccisi o messi in fuga si dimostrò infondata. Come specificato nella mia rubrica di settembre per openDemocracy: “Soltanto adesso, quattro mesi dopo l’inizio del conflitto, emergono segnali della fuga da Marawi di coloro che non sono rimasti uccisi“.
“Il prezzo pagato è altissimo. In una città di 200.000 residenti – che ha assunto le sembianze di un paesaggio lunare a causa dei bombardamenti quasi giornalieri da parte delle forze governative – molti civili sono stati uccisi, molti di più sono rimasti feriti e gli sfollati ammontano a 400.000”.
L’attacco più recente sferrato a Cabo Delgado è stato di minore entità e durata rispetto a quello di Marawi, ma si è verificato in un momento in cui l’impatto crescente dell’Isis in numerose zone dell’Africa sub-sahariana è motivo di preoccupazione generale, non ultimo all’interno delle Nazioni Unite. Difatti, una valutazione dell’ONU pubblicata ad agosto dell’anno scorso menzionava 100 milioni di dollari in fondi di guerra dell’Isis. Inoltre, numerosi segnali indicano una escalation delle attività del movimento in Africa, dal Sahel al Mozambico fino alla Repubblica Democratica del Cong. Questa escalation è per l’Isis motivo di celebrazione; diversamente, in Iraq e in Siria la presenza del movimento è sempre più debole.
I gioielli della propaganda
Se consideriamo una prospettiva più ampia, risuklta chiaro che l’Isis e i movimenti paramilitari di estremisti musulmani a esso simili non sono spariti. Inoltre, ci sono ampie prove del fatto che la loro abilità di reclutamento è potenziata dalla dilagante marginalizzazione di diversi milioni di giovani nei Paesi del Sud del mondo, le cui circostanze li rendono terreno fertile per i movimenti di culto violenti.
Cabo Delgado, una provincia trascurata e marginalizzata dal punto di vista economico, è a maggioranza musulmana sebbene l’Islam sia una religione di minoranza a livello nazionale. Quest’area è ora al centro dell’attenzione in quanto fonte di potenziale ricchezza per via delle nuove riserve di gas e la recente scoperta di alcuni tra i più ricchi giacimenti di rubini. Inoltre, è fin troppo semplice per i propagandisti dell’Isis – con l’esperienza pregressa in Mozambico, Nigeria e altrove – insistere sui ben pochi benefici che arriveranno alla popolazione generale, per non parlare di coloro che sono più marginalizzati.
L’abbondanza di gas nella provincia di Cabo Delgado costituisce un esempio specifico ma il problema prioritario in gran parte del Sud del mondo è il funesto andamento della pandemia da Covid-19 che esaspera le differenze socio-economiche già esistenti. A un anno dall’inizio della pandemia, Forbes ha riportato un incremento a livello mondiale del numero di miliardari, che è passato da 660 dell’anno scorso a 2.755. Nell’annuale lista dei più ricchi del mondo pubblicata questa settimana, il patrimonio dei miliardari ai primi posti della classifica risulta essere aumentato da 8 a 13,1 triliardi di dollari nell’ultimo anno. Con le parole di Randall Lane, responsabile dei contenuti per Forbes: “chi era molto, molto ricco è diventato molto, molto più ricco”.
Nello stesso periodo di tempo, il numero di persone in condizioni di estrema povertà è aumentato di 150 milioni: il maggiore incremento da vent’anni a questa parte. Il Guardian ha commentato: “Le fila dei super-ricchi si sono ingrossate mentre il coronavirus minacciava la vita di milioni di persone nel mondo e i mercati azionari raggiungevano ogni giorno nuovi picchi”.
L’incremento della ricchezza dei più ricchi è un’ottima notizia per qualsiasi propagandista a favore della rivolta paramilitare che si rispetti. Al momento questa affermazione potrebbe riguardare soprattutto i movimenti islamici, ma non vi è alcuna garanzia che in futuro si limiti a loro. Rischiamo seriamente di entrare in un’epoca di insurrezioni radicate nelle rivolte che avvengono ai margini, esasperate dagli effetti delle pandemie.