24 Novembre 2024

El Salvador, la terribile legge contro l’aborto viola i diritti umani

[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Juliet S. Sorensen, Alexandra Tarzikhan e Meredith Heim pubblicato su The Conversation]

Nello Stato di El Salvador l’aborto è fuori legge in modo assoluto, anche nei casi di stupro o incesto, e sono previste pene che vanno da 2 a 50 anni di carcere. La legge viene applicata ad ampio raggio tanto che persino le donne che subiscono aborti spontanei o che danno alla luce feti morti possono essere processate per omicidio.

Ora, per la prima volta, un tribunale internazionale dovrà stabilire se queste leggi costituiscono una violazione dei diritti umani delle donne salvadoregne.

Lo scorso 10 e 11 marzo, la Corte interamericana dei diritti umani, un tribunale regionale dell’Organizzazione degli Stati Americani istituito per giudicare le presunte violazioni dei diritti umani nei Paesi membri, ha ascoltato le argomentazioni del caso “famiglia di Manuela contro El Salvador“. Il caso riguarda una donna – all’epoca 33enne e già madre di due bambini – che, a seguito di una caduta nella sua casa nella zona rurale del Paese, ha partorito un feto morto.

Manuela (nome fittizio scelto per proteggere l’identità della sua famiglia), dopo aver perso conoscenza e con un’emorragia in atto, è stata trasportata d’urgenza in ospedale.

Sebbene avesse dichiarato di essere ignara della gravidanza, il personale dell’ospedale ha accusato Manuela di aver provocato l’aborto volontariamente e ha chiamato la polizia. La donna è stata ammanettata al letto d’ospedale, interrogata dai medici e dalla polizia e accusata di omicidio aggravato. Nel 2008, Manuela è stata condannata a 30 anni di carcere.

Più tardi quello stesso anno, gli avvocati della sua famiglia hanno avviato la procedura legale che poi durante il corrente mese di marzo è finita in tribunale con la richiesta di considerarare le azioni penali contro i casi di natimortalità una violazione dei diritti umani.

Leggi pericolose

El Salvador è uno dei tre Paesi dell’America Centrale e una delle 24 nazioni al mondo in cui vige il divieto assoluto di aborto. Abortire è un crimine ma anche le complicanze ostetriche che comportano un aborto spontaneo o il parto di un feto morto vengono spesso considerati omicidi aggravati.

Il personale medico coinvolto nell’esecuzione di un aborto può rischiare dai 6 ai 12 anni di carcere, oltre alla radiazione dall’ordine professionale. Inoltre, i familiari che “sostengono la donna” nella sua intenzione di abortire possono essere puniti con una reclusione da 2 ai 5 anni.

Gli studi condotti in tutta l’America Latina e nel mondo dimostrano che le leggi contro l’aborto non impediscono alle donne di interrompere gravidanze indesiderate o rischiose per la propria vita. Al contrario, le spingono a cercare pratiche di aborto illegali e potenzialmente pericolose, e questo può indurre gli ospedali a negare la prestazione di pratiche salvavita in ambito ginecologico.

Tra il 2000 e il 2017, i Paesi dell’America Latina che vietano in qualsiasi circostanza l’aborto hanno registrato una media di 151 casi di mortalità materna ogni 100.000 nati vivi rispetto ai circa 68 casi di mortalità ogni 100.000 nati vivi in altre nazioni.

Leggi simili possono portare le donne a essere condannate sia per le decisioni che riguardano la sfera riproduttiva sia per le emergenze sanitarie.

Negli ultimi 25 anni, sono state centinaia le donne salvadoregne accusate di aborto o di omicidio aggravato. Secondo il Codice Penale adottato nel 1997, il reato di aborto prevede una reclusione da 2 a 8 anni, mentre nel caso di un omicidio aggravato la pena va da 30 a 50 anni.

Aborto delle donne a El Salvador. TFR Multimedia/Flickr in licenza CC
Aborto delle donne in El Salvador. TFR Multimedia/Flickr in licenza CC

Qualche anno fa, abbiamo analizzato due casi di questo tipo avvenuti nel Paese: i processi penali contro Evelyn Hernandez e “Diana“, entrambe accusate di omicidio aggravato dopo aver dato alla luce feti morti. Dalla nostra analisi, condotta su richiesta della Clooney Foundation for Justice, è emerso che in entrambi i casi sono state registrate notevoli violazioni dei diritti umani, quali discriminazioni di genere, violazioni del diritto alla salute e l’addebitamento improprio dell’onere della prova alle donne accusate.

El Salvador garantisce tutti questi diritti nei trattati internazionali vincolanti ma, dagli studi, è emerso che le autorità li hanno violati in entrambi i processi, quello di Hernandez e quello di Diana.

Violazioni dei diritti

Sulla base dei risultati ottenuti, abbiamo presentato una relazione amicus curiae (“amico della corte”) per il caso di Manuela, che è molto simile ai casi analizzati. In questo modo abbiamo suggerito alla Corte interamericana di ordinare a El Salvador di annullare la sentenza contro Manuela e di riformare il suo Diritto Penale al fine di conformarsi alla Convenzione americana dei diritti umani.

Nel corso dell’udienza dello scorso 10 marzo, tenutasi a distanza a causa del Covid-19, gli avvocati di Manuela hanno affermato che le azioni penali intraprese contro la loro assistita hanno violato numerosi diritti tutelati dalla legge salvadoregna e internazionale.

Secondo gli avvocati della donna, subire un processo per aver dato alla luce un feto morto ha costituito una discriminazione di genere che, oltre a negare a Manuela il diritto alla salute, ha violato il suo diritto ad una vita dignitosa e integra. Inoltre, il Governo l’ha anche privata di altri diritti quali: avere un giusto processo, essere protetta da un trattamento disumano e godere di una certa privacy.

Se i sette giudici della Corte emetteranno una sentenza a favore di Manuela, potranno ordinare a El Salvador di annullare l’ingiusta condanna e riformare il proprio Codice Penale.

Ciò significherebbe la depenalizzazione dell’aborto, almeno in quelle circostanze attenuanti come lo stupro o l’incesto, così come hanno fatto negli ultimi anni diversi Paesi dell’America Latina. Questa riforma potrebbe anche essere volta ad arrestare il flusso di ingiuste condanne per omicidio aggravato contro quelle donne che subiscono complicanze ostetriche.

La sentenza della Corte sarà probabilmente pubblicata nei prossimi mesi.

Legalizzare l'aborto. Martu.vidret/Flickr in licenza CC
Legalizzare l’aborto. Martu.vidret/Flickr in licenza CC

Il potere della Corte

Sebbene la Corte interamericana disponga di un potere limitato nel far rispettare le sue sentenze, El Salvador è legalmente obbligato, così come è accaduto in passato, a far osservare i suoi provvedimenti tra cui quello delle leggi punitive sulla salute riproduttiva.

Nel 2013, la Corte ha ordinato a El Salvador di salvaguardare la vita e la salute di “Beatriz”, una donna affetta da lupus e malattie renali che intendeva abortire un feto che non sarebbe sopravvissuto.

La Corte Suprema salvadoregna ha respinto la richiesta di Beatriz di interrompere la sua gravidanza per salvarsi la vita. Ma quando la Corte interamericana ha espresso il suo disaccordo stabilendo che il diritto alla vita della donna richiedeva un intervento dello Stato, El Salvador ha obbedito. Così il 3 giugno 2013 a Beatriz è stato praticato un cesareo salvavita.

L’attuale presidente di El Salvador, Nayib Bukele, in un dibattito presidenziale del 2018, ha dichiarato di essere favorevole alla legalizzazione dell’aborto nel caso in cui la gravidanza rappresenti una minaccia per la vita della futura madre e ha affermato di essere del tutto contrario alla criminalizzazione delle donne che abortiscono spontaneamente.

“Se una povera donna ha un aborto spontaneo, viene subito sospettata di aver abortito”, ha affermato. “Non possiamo presumere la sua colpevolezza quando ciò di cui una donna ha bisogno è un’assistenza immediata.”

Nonostante le pressioni da parte di gruppi femministi e per i diritti umani, il Governo di Bukele non ha fatto nulla per impedire le condanne per aborto spontaneo o “alleggerire” la legge. Tuttavia, è improbabile che il presidente ignori la sentenza della Corte interamericana.

Qualunque sia l’esito della sentenza di Manuela, arriverà comunque troppo tardi sia per l’accusa sia per la sua famiglia in quanto Manuela è morta per un tumore mentre era in carcere nel 2010. Se la sua condanna sarà annullata, come è stato richiesto, si tratterà di un atto di giustizia postuma.

Luciana Buttini

Laureata in Scienze della Mediazione Linguistica e Specializzata in Lingue per la cooperazione e la collaborazione internazionale, lavora come traduttrice freelance dal francese e dall'inglese in vari ambiti.

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