Religione, patriarcato, leggi punitive e morale di ispirazione coloniale. E quindi pregiudizi, qualche volta violenze. Sicuramente una lotta continua per affermare il diritto alla propria esistenza, ai propri spazi, alle proprie scelte. Sembra una corsa ad ostacoli quella affrontata ogni giorno in Ghana da omosessuali, trans e queer. In una società strutturata per rispondere a certi canoni di sessualità e di famiglia che tengono assolutamente fuori, come disturbanti e “ispirate dal demonio”, altre forme di espressione sessuale e affettiva.
Eppure, in questa società fortemente omofobica i movimenti LGBT+ stanno crescendo e sviluppandosi in modo straordinario. Ad oggi sono circa una ventina i gruppi costituitisi a partire dai primi anni del nuovo secolo. E alcuni sono anche registrati come ONG. La regola però è una, evitare le parole gay, lesbica, omosessuale. La strategia è stata, dal 2000 ad oggi, quella di creare associazioni il cui obiettivo dichiarato era il benessere e la salute (compresa quella sessuale e riferita ai rapporti msm – men sex men). Ma fuori da concetti come relazioni amorose o peggio di famiglie costituite da persone dello stesso sesso.
Che le cose però stiano cambiando si comprende proprio dall’ultimo nato in ordine di tempo, il movimento LGBT+ Rights Ghana che opera con programmi e incontri all’interno delle comunità e si presenta sui social senza nascondersi. Nell’attesa – non scontata – di essere ammesso nei registri nazionali di associazioni e ONG. Hanno già una sede di 5 stanze: allegra, colorata e arredata grazie ai contributi di associazioni sorelle all’estero ma anche dell’Unione Europea e di Ambasciate locali, come quella australiana, che sostengono gli attivisti e le loro iniziative anche attraverso contributi concreti, come tavoli, sedie e armadi.
E c’è anche un’altra strada percorsa dal movimento LGBT ghanese, ed è quella dell’espressione artistica. Ad inaugurarla è stata nel 2016 Drama Queens. Si tratta di un’organizzazione che produce spettacoli, workshop e che sostiene il mondo dell’arte nel Paese, dall’audiovisivo alla poesia alle perfomance live. Persone coraggiose, vista e considerata l’atmosfera di disagio, odio e in alcuni casi aggressività che circonda ogni situazione o discorso che ha a che fare con l’omosessualità. Una forte contraddizione in un Paese che viene riconosciuto come rispettoso dei principi democratici e delle libertà dei suoi cittadini.
Eppure a queste libertà, garantite dalla Costituzione, corrisponde anche una legge evidentemente discriminatoria e che entra nell’ambito delle scelte individuali. Si trova nel Criminal Offence Act del 1960 e parla di “unnatural carnal knowledge” (conoscenza carnale innaturale). Nonostante lo Stato non infligga da tempo pene detentive (fino a 3 anni di prigione) a chi “viene scoperto in flagranza” non ha neanche mai accettato i suggerimenti delle agenzie che si occupano di diritti umani di cancellare tale norma dal Codice.
E non mancano, spesso tenute nascoste, a volte documentate, storie terribili di abusi, violenze e abbandoni, anche nei famigerati prayer camps dove attraverso una preghiera esaltata si vuole guarire tutto: dall’omosessualità alla follia. La speranza degli attivisti è che il Governo prenda altre strade anziché lasciare spazio alle invettive in Parlamento (non frequenti ma accadono) o che le vittime coltivino la paura ed evitino quindi di rivolgersi alle forze dell’ordine nel caso di violenze. Per non parlare dei pulpiti in cui pastori zelanti gridano all’abominio e allo scandalo ogni volta che ne hanno l’occasione. Atteggiamenti che alimentano il pregiudizio, l’odio e spesso l’aggressività nei confronti di chi è apertamente omosessuale o anche solo sospettato di esserlo. Quella in corso comunque è una battaglia intersezionale, che dunque riguarda le donne, lo stato sociale, le relazioni di genere, il rapporto tra leggi e gruppi sociali.
Femminista, fondatrice di Drama Queens, impegnata da anni sullo sradicamento della cultura dello stupro – a cui ha dedicato i suoi studi universitari – e sul consenso sessuale
“Preferisco parlare del mio attivismo nel campo dei diritti umani ma non della mia sessualità, questa riguarda solo me. Per essere un’attivista per i diritti LGBT+ non devo necessariamente essere tale. Quello che posso dire è che dalla nascita di Drama Queens ho acquisito più sicurezza, più consapevolezza di chi sono e delle decisioni che prendo. Il fulcro del nostro lavoro all’inizio è stato il tema del consenso sessuale, argomento molto forte in una società che considera la donna in qualche modo sottomessa e l’atto sessuale un’espressione del desiderio dell’uomo che, soprattutto in ambito matrimoniale, non può essere discusso. In seguito abbiamo cominciato a occuparci dei diritti degli LGBT+ e delle loro libertà. E lo abbiamo fatto mettendo in scena un lavoro che raccontava storie vere.
Affrontare la questione del consenso ci ha consentito di parlare anche dei diversi tipi di sessualità, è stata una progressione naturale, anche perché la cultura dello stupro è persino nelle relazioni omosessuali e su questo tema volevamo quindi arrivare a chiunque. È un argomento che un po’ tutti, a cominciare dalle istituzioni, vogliono negare. Tornando al tema dell’omosessualità, anche solo parlarne in Ghana è un tabù. Vedi, anche mentre parlo con te, qui in un luogo pubblico, abbasso la voce quando pronuncio certi termini. Si pensa che l’omosessualità non riguardi l’Africa, la sua cultura, la sua storia. Quindi è demonizzata, e la religione ha un forte ruolo in questo continuo processo di demonizzazione. Con Drama Queens abbiamo scelto il linguaggio dell’arte che aiuta a parlare in modo differente di certi argomenti, aiuta a creare empatia, ad andare al cuore delle persone che dopo aver assistito alle performance cominciano ad interrogarsi. A volte cambiano idea, altre volte no, ma di sicuro nasce una maggiore consapevolezza.
Il nostro lavoro più importante è stato Just like us, portato in scena nel 2018 in varie sedi teatrali e culturali. Si tratta di una serie di monologhi. Il pubblico è invitato a passare da una stanza ad un’altra e in ogni stanza c’è un attore o un’attrice che racconta una una storia vera. Poi si apre una conversazione con il pubblico ed è questa conversazione che aiuta a rimuovere i pregiudizi. C’è stato anche chi è diventato a sua volta attivista dopo aver assistito a queste performance. Di solito abbiamo un’audience giovane che va dai 18 ai 35 anni. Ci piacerebbe portare il lavoro nelle scuole, ma è molto difficile. Se un genitore sapesse che un preside ha consentito di parlare di omosessualità in classe sarebbe davvero un problema. Però abbiamo da tempo un programma alle superiori sul tema del consenso, e così parlare di sessualità in generale ci permette di parlare in modo creativo di altro. Il tema del consenso ci sta molto a cuore, perché ovviamente permette di lavorare sulla rimozione degli stereotipi di genere.
Il Ghana, dicevo, è un Paese dove la religione predomina su tutto e c’è una forte e diffusa omofobia. La gente non fa altro che usare la storia di Sodoma e Gomorra per giustificare il proprio atteggiamento. Oggi, però, specialmente sui social media, la gente mostra più consapevolezza, più apertura e ti accorgi anche che la società sta cambiando. È un processo in corso. Quando ero piccola esistevano già gruppi LGBT, ma non si chiamavano così. Erano molto coraggiosi, ma si restava nascosti. Direi che Drama Queens è stata una forza trainante, uno spazio potente per uscire allo scoperto.
Come femministe il rapporto con le istituzioni è assai difficile, direi inesistente, puoi sperare nel sostegno solo se passi da una certa terminologia, come “women empowerment”. Impossibile parlare di queer activism e diritti dei gay. Sono tanti i motivi che rendono difficili questi discorsi, la cultura patriarcale e la religione cristiana che la comprende, sono i principali. Il problema poi è come cresciamo ed educhiamo i nostri figli. Abbiamo comunque la fortuna di essere sostenuti da varie organizzazioni, cito Frida, che aiuta organizzazioni femministe come la nostra. Ma ce ne sono molte altre. E persino donne delle nostre comunità, che però – per ovvie ragioni – preferiscono restare anonime. Cosa spero per il futuro? Che Drama Queens diventi un serbatoio per futuri leader del Paese. Leader con una mentalità diversa, nuova, rispettosa di tutti.”
Ha fondato ed è direttore di PORSH (Priorities on Rights and Sexual Health), una tra le prime organizzazioni a occuparsi della tutela della salute di persone affette da HIV, artista e performer teatrale
“Ho cominciato a fare attivismo nel 2002, all’epoca ero studente di teatro e arte all’Università. Quando assistevo a episodi di bullismo nei confronti di ragazzi con modi effeminati non riuscivo a stare zitto, lo trovavo ingiusto, prendevo sempre le loro difese e riportavo questi atti alle autorità universitarie. Ci sono stati casi di sospensioni, lettere di scuse e promesse di un comportamento confacente. Ci sono Università in Ghana che hanno una buona policy sulla discriminazione di genere. Ovviamente sapevo già di essere gay. Non avevo molti problemi perché non era evidente che fossi omosessuale. Ad aprirmi la strada verso un certo tipo di attivismo è stato l’incontro con USAID Ghana. Sono stato coinvolto in una serie di ricerche sulla diffusione dell’HIV nel Paese.
Quando il progetto si è concluso ho registrato PORSH, che è una ONG. Nell’atto di registrazione non era dichiarato che avrei promosso i diritti dei gay, ma solo i diritti umani in generale con un focus sulla salute sessuale. Sono tante le cose di cui ci occupiamo, dall’educazione sessuale all’importanza dell’uso del condom, dalla consapevolezza sull’orientamento sessuale ai casi di ricatto sessuale e di molestie. Non tutti riescono a portare avanti una denuncia e ottenere giustizia, soprattutto se non si hanno i mezzi economici, la forza psicologica e un network che ti sostiene. Noi cerchiamo di dare assistenza e consigli.
Per un omosessuale la vita in questo Paese non è facile, specialmente se non stai dentro certe “prescrizioni di genere” e ruoli. Nella mia famiglia non mi hanno mai chiesto niente. Se dovessero farlo non so cosa risponderei e non sono sicuro che siano affari loro. Alcuni dei miei amici lo sanno e lo accettano. Il maggior ostacolo in Ghana è la cristianità, che incide moltissimo sull’omofobia. Ce ne rendiamo conto quando avviamo dibattiti e chiediamo la ragione dell’avversione verso i gay: le persone non hanno altri argomenti al di fuori della Bibbia. Ci sono molti casi di aggressioni. I giovani, che spesso non usano le stesse accortezze che usavamo noi, cadono spesso in tranelli, vale a dire incontri che si trasformano in violenze. Ti porto l’esempio di un ragazzo – rapito per giorni e rilasciato solo dopo il pagamento di un riscatto dopo aver mostrato video che lo ritraevano in atteggiamenti sessuali – che si è ritrovato poi in prigione. Ne è uscito dopo un anno, positivo all’HIV.
Una nota a favore è il rapporto che negli anni abbiamo instaurato con alcuni ospedali e soprattutto il personale, in alcuni casi competente e sensibile alle nostre questioni. Importante, negli anni, si è rivelato il training fatto a infermieri e personale della polizia. Ma proprio in questo senso c’è ancora moltissimo da fare. A volte sono le stesse forze dell’ordine a umiliare e maltrattare i giovani omosessuali che quindi hanno paura di chiedere protezione. Altra cosa importante è la sensibilizzazione all’uso del preservativo. Molti giovani non lo usano e la percentuale di positivi all’HIV è alta. Qui in Ghana, comunque, è preferibile con le istituzioni metterla in termini di salute e di prevenzione, è difficile avviare discorsi che riguardano la coppia omosessuale in quanto tale e basata sull’amore reciproco. Per quello, per arrivare al cuore, usiamo l’arte. Anche la prima organizzazione nata in Ghana – CEPEHRG (Centro per l’educazione popolare e i diritti umani in Ghana) ha cominciato appunto con l’educazione, l’arte, il teatro. Ora ci sono una ventina di organizzazioni dedicate alle questioni LGBT+.
Attivismo per me è advocacy e una lotta costante perché è difficile cambiare la mentalità delle persone. La vera sfida ora è cambiare la legge. Una legge che proviene dal padrone coloniale e che viene usata per stigmatizzare e imprigionare la gente. Il primo impegno di ogni attivista qui in Ghana oggi è questo: decriminalizzare l’omosessualità. Ci vuole tanto networking. Abbiamo qualche amico all’interno del Parlamento anche se non ci sostengono apertamente. E comunque quelli omofobici hanno perso il loro posto proprio per i commenti che hanno fatto. Anche noi votiamo.”
Ha fondato ed è direttore di LGBT+ Rights Ghana. Promotore di iniziative, tiene collegamenti con organizzazioni all’estero. Ha fondato Ghana Pride Style. Lavora anche come modello.
“Scoprire che sono gay è stato per me un percorso interessante. Sono ghanese e quindi cresciuto in una società dominata dalla religione. Quando ero un giovane studente anche io partecipavo alle Sunday schools ed è lì che ho cominciato a sentire che l’omosessualità è demoniaca, sconveniente, che porta all’inferno e tutta questa serie di cose. Crescendo ho cominciato a sentire attrazione per persone del mio stesso sesso e così è cominciato in me un conflitto. Cercavo di sopprimere con tutte le mie forze i miei sentimenti, non volevo permettere nemmeno al mio pensiero di andare verso quella direzione e pregavo affinché la mia sessualità non si facesse sentire.
Un giorno, all’Università, uno dei professori disse: quando non sapete o non siete sicuri di qualcosa dovete informarvi, fare ricerche, scoprire chi prima di voi ha trovato soluzioni alle vostre curiosità. È così che sono andato su Internet e ho digitato gay. Mi si è aperto un mondo. Ho cominciato a leggere storie, articoli, guardare film. Mi sono confrontato con una realtà che avevo sempre negato a me stesso. Così ho cominciato ad accettarmi, a sentirmi libero, ho cercato organizzazioni in Ghana e ho cominciato a riflettere al modo di agire per cambiare la percezione che la società ha dei gay. Sapevo che sarebbe stata una sfida.
L’organizzazione che ho fondato non è ancora registrata, non è semplice, ci sono molti ostacoli, ma di sicuro c’era bisogno di una piattaforma dove le persone potessero facilmente raggiungersi e avere informazioni sul movimento LGBT in Ghana. Siamo su Facebook e Instagram. L’obiettivo era darci visibilità, all’inizio eravamo un gruppetto, ora siamo in tanti. La maggior parte vive la sua sessualità di nascosto, preferisce non esporsi. La nostra società è molto ostile nei nostri confronti, ecco perché è necessario stare attenti.
Se qualcuno sa che sei gay, lesbica, bisessuale le porte si chiudono, i membri della tua stessa famiglia si mettono contro ed è difficile trovare un lavoro. Io stesso non ho fatto coming out in famiglia, però quando mio fratello mi ha chiesto se ero gay, gli ho detto sì, non devo scusarmi per questo. Ma questo è successo quando ero già indipendente economicamente. Da allora comunque sono diventato anche più sicuro nel parlare di queste questioni e quando cammino per le strade non ho paura di essere riconosciuto come gay. Certo qualcuno può dirmi parole offensive ma io mi batto per il rispetto.
Sono fortunato perché non mi sono mai accaduti episodi di violenza, ma sui social media ci sono persone verbalmente violente e offensive. Penso, comunque, che le cose stiano cambiando. Quando ho aperto la pagina Facebook la gente era davvero intollerante, era un continuo insulto, ora è come se si fossero abituati. Ma ci sono anche molti casi di violenza fisica. Sul nostro sito c’è una sezione dedicata a questi episodi. Se possiamo forniamo assistenza – psicologica o legale – ma è davvero difficile portare davanti a un giudice questi casi, sia per mancanza di mezzi economici, sia per timore di esporsi. Ma siamo tutti cittadini di questo Paese e meritiamo gli stessi diritti di cui godono gli altri.
Le organizzazioni nate prima della nostra hanno dovuto registrarsi come organizzazioni che si occupano di salute e diritti legati alla salute, ma noi vogliamo essere chiari e visibili, cerchiamo riconoscimento. Non ci nascondiamo, le nostre attività sono sui nostri social. Oggi si è più liberi di affermare la propria sessualità ma questo non vuol dire che me ne posso andare in giro mano nella mano con il mio fidanzato o scambiarmi effusioni. Ora stiamo puntando molto sulla comunicazione, non possiamo permettere ai media di parlare di questioni che riguardano i gay al nostro posto. Non possiamo contare sugli altri per parlare delle questioni che ci riguardano e se non ci viene dato spazio siamo noi che dobbiamo crearlo.”
Direttrice di One Muslim Woman, direttrice esecutiva di One Love Sisters Ghana e responsabile dei programmi per il Ghana di Interfaith Diversity Network of West Africa
“Ho scoperto la mia sessualità quando ero alle superiori e ho cercato di restarmene in silenzio, di non mostrare apertamente la mia natura. La lotta più grande era con la mia religione. Ho cercato un equilibrio tra la mia natura e la mia fede. Quello che vedevo in moschea, da una parte gli uomini, da un’altra le donne, non mi convinceva. Né questo dover restare sempre dietro ed essere soggette a questa pressione per il matrimonio. Un giorno mentre andavo in moschea qualcuno mi ha chiamato lesbica. Da allora non ci sono andata più.
In Ghana le persone LGBTIQ subiscono discriminazioni in ogni aspetto della loro vita. Gli può essere negato l’accesso al lavoro ma anche alla scuola, che puoi abbandonare perché non ti senti accettato. La cosa più dolorosa è che spesso vengono cacciate di casa. Nel mio caso lo sa mia sorella, e mia madre deve aver capito ma visto che la sostengo economicamente, più dei fratelli maschi, allora lascia correre e non mi fa più discorsi sul matrimonio.
Come musulmana e queer che proviene da un background conservatore e rispettoso delle tradizioni, mi è servito molto tempo per cominciare ad esprimermi, a trovare uno spazio per me. Ora la lotta per i diritti degli LGBT+ è la mia missione. Promuovere una diversa visione e approccio nei confronti dei musulmani che vivono una condizione sessuale “differente” è quello che faccio ogni giorno attraverso le organizzazioni che rappresento. Organizziamo dibattiti e varie iniziative nelle comunità, anche rurali, per educare al rispetto e al superamento della marginalizzazione, degli stereotipi e dei pregiudizi di genere. Dopotutto la sessualità occupa una minima percentuale della vita, perché bisogna essere giudicati per quella?
Quello che vogliamo è creare un ambiente inclusivo in cui le donne non siano dominate dall’uomo e il cui solo scopo nella vita sia sposarsi e fare figli. Lottiamo contro l’opinione che se la donna è troppo istruita si allontana dalla religione e cerca di contestare le norme, il marito, o gli uomini in genere. Io stessa sono vissuta in un ambiente dove i maschi avevano un ruolo dominante e le donne erano sottomesse. Quando andiamo nelle comunità non affrontiamo direttamente l’argomento omosessualità, ma parliamo di diritti, di questione legate alla salute e di come proteggersi dagli abusi. Altro problema molto serio, di cui non si parla molto, è la violenza fisica nelle coppie LGBT+.
Il fatto è che la nostra è una cultura patriarcale e quindi ci sono atteggiamenti che vengono introiettati fin da bambini e così certi meccanismi si ripropongono anche all’interno di una coppia omosessuale o trans quando c’è qualcuno che si sente il maschio, il dominante, il capofamiglia e allora succede che si sviluppi violenza come nelle famiglie “normali”. Aggiungo solo che gli LGBT di religione musulmana in Ghana sono tanti, più di quanto si immagini, ma molti per paura si nascondono.”
Femminista, vice direttrice di Drama Queens
“Fin dall’inizio con Drama Queens abbiamo lavorato utilizzando una lente femminista e inclusiva. Quindi questioni di genere ma anche panafricanismo e diritti LGBTIQ. È difficile fare coming out in Ghana, c’è la paura di essere giudicati, che lo si vada a raccontare in giro o peggio alla famiglia. Così capita che le persone neghino, anche l’evidenza. Io faccio attivismo da 5 anni perché vorrei che tutti avessero gli stessi diritti, fossero liberi con il loro corpo e liberi dal giudizio e dall’odio.
È l’arte il principale mezzo attraverso cui facciamo attivismo, ovviamente parliamo di cose che mettono le persone a disagio, ma poi c’è sempre qualcuno che si mostra più interessato degli altri e su cui si possono costruire dialoghi ulteriori. Abbiamo cominciato con il tema del consenso sessuale, ma è stato difficile cominciare a parlare di LGBTQ, avevamo paura per la nostra sicurezza e molte di noi hanno ricevuto minacce, anche di morte. C’era chi veniva ai nostri incontri per dirci che saremmo andate all’inferno.
Continuiamo ad aver paura, ma dobbiamo fare quello che facciamo, è un lavoro che porta dei frutti. Ricordo che ad un nostro spettacolo un ragazzo mi ha avvicinato e mi ha chiesto: “Perché parlate di queste cose? È contro la religione cristiana”. Gli ho risposto: “parliamo di storie vere, di violenze, di discriminazioni. Si tratta di essere umani come te. Anch’io sono cristiana e Cristo parla di amore. Perché dovrei odiare qualcuno solo perché è diverso?”. Se ne è andato convinto che l’omofobia non ha senso. Ora continua a venire ai nostri eventi e porta anche degli amici. Purtroppo nella religione ci sono tante contraddizioni e “peccati” che sembrano più gravi degli altri. Ma è la società che decide questa scala di valori, questa selezione nel giudizio e nell’odio. Invece amore e gentilezza non sono selettivi. La storia dell’adultera nel Vangelo riflette la società ghanese, pronta a gettare la pietra ma non a guardare se stessa. Però, ripeto, qualcosa sta cambiando. Noi siamo qui per questo.”