Montenegro, tornano alla ribalta tensioni etniche e identitarie
Il piccolo Stato del Montenegro, stretto tra Serbia, Bosnia-Erzegovina, Kosovo e Albania, con sbocco sull’Adriatico “rubato” ai serbi dall’indipendenza nel 2006, racconta molto della penisola balcanica.
Un territorio ancora oggi tormentato, quello che fu la Federazione di Jugoslavia, nel quale si trovano tutti i nodi irrisolti dell’etnonazionalismo che ha prima frantumato, poi gettato nella violenza più brutale i Paesi balcanici.
I rigurgiti identitari su base etnica e nazionalista sono tornati a farsi sentire proprio sul finire del 2020, quando i montenegrini si sono riversati nelle piazze della capitale Podgorica, protestando contro il Governo da poco eletto. Il motivo della rabbia era il tentativo dell’esecutivo al potere di cambiare una controversa legge sulla religione che aveva già alimentato le tensioni sulle complesse relazioni del Paese con la Serbia, appena un anno prima.
Nello specifico, sotto i riflettori è tornata la legge approvata nel 2019 dal Governo del Partito Democratico dei Socialisti, poi sconfitto alle elezioni del 2020. Secondo tali disposizioni, gli enti religiosi devono presentare prove tangibili di essere proprietari di beni, edifici, terreni già prima del 1918, anno in cui il Montenegro entrò a far parte del Regno di Serbi, Croati, Sloveni. In caso contrario, le proprietà tornano sotto il controllo dello Stato.
La legge si è subito trasformata in motivo di rivalsa etnica, riportando alla luce divisioni nazionaliste sempre pronte a riesplodere in questa regione europea. In quella prima ondata di proteste del dicembre 2019, la Chiesa Ortodossa Serba ha guidato le accese manifestazioni contro il Governo socialista montenegrino. Con i sacerdoti in prima linea nelle strade di Podgorica e di altre città della nazione, sconfindando anche nelle piazze della Serbia, l’istituzione ecclesiastica ha radunato fedeli e cittadini di nazionalità serba, che sono almeno il 29% della poplazione montenegrina, gridando allo scandalo per le nuove disposizioni.
La Chiesa Ortodossa resta uno degli ultimi baluardi dell’influenza – anche politica – dei serbi nel piccolo Stato e il tentativo dei socialisti di minare il proprio potere attraverso la questione delle proprietà è stato subito tradotto in opportunità per limitare la loro ingombrante presenza sul territorio nazionale. Il Governo ha voluto sancire l’istituzione di una Chiesa indipendente per riaffermare la sovranità montenegrina.
Il tema, ovviamente, intreccia aspetti ben più complessi della semplice credenza religiosa. Il Governo socialista non ha esitato a dichiarare la legge necessaria anche per rafforzare l’indipendenza del Montenegro dalla Serbia avvenuta nel 2006 e, secondo alcuni funzionari, mal digerita nei palazzi di potere di Belgrado.
D’altronde, il ricordo del nazionalismo serbo di Milosevic è più vivo che mai nella regione e ha ancora la capacità di scatenare paure e rabbia tra i montenegrini, alla ricerca di una identità nazionale propria. Quando il dibattito parlamentare si è acceso nel 2019 intorno alla legge sulla religione, Andrija Mandic, il leader del partito dei serbi in Montenegro, Fronte Democratico, ha minacciato il Governo e le forze in suo appoggio di “dissotterrare le armi sepolte“, un riferimento ai massacri di musulmani avvenuti in Jugoslavia nel XX secolo.
Questo excursus su fatti solo apparentemente passati è necessario per capire quanto accaduto di recente nel Paese. A fine dicembre 2020 sono scoppiate nuove proteste, con le stesse radici di quelle di un anno prima, ma con bersagli inversi. Il nuovo Governo insediatosi il 4 dicembre scorso, filo-serbo e strettamente allineato con gli ambienti ecclesiastici, ha infatti proposto la revisione della contestata legge sulla religione. Lo scopo è garantire che le proprietà di beni e terreni rimangano nelle mani della Chiesa Ortodossa Serba.
I manifestanti hanno quindi accusato l’esecutivo di voler cancellare lo Stato e l’identità nazionale montenegrina. Al grido di “Questa non è la Serbia” e “Tradimento“, la folla ha sfidato i divieti legati alla pandemia per radunarsi fuori dal Parlamento non appena è stato annunciato il dibattitto sulla modifica delle disposizioni.
Di nuovo, il Paese è piombato nelle divisioni di stampo etno-nazionalistico, alimentando rivendicazioni identitarie di un gruppo contro l’altro, ben sfruttate dai politici di turno al potere. Il Montenegro, infatti, sembra essere intrappolato in quel passato irrisolto di tutta la penisola balcanica, dove gli orrori delle guerre degli anni ’90, sui quali domina il genocidio di Srebrenica, bloccano qualsiasi processo sano e maturo di costruzione nazionale.
Le ultime elezioni politiche in Montenegro ne sono una prova. Nel voto del 30 agosto scorso, il Partito Democratico dei Socialisti (DPS), ha perso un’elezione controversa dopo essere stato al potere per 30 anni. Tre coalizioni di opposizione – Peace is Our Nation, Black on White coalition e For the Future of Montenegro – si sono assicurate 41 seggi parlamentari su 81 in totale e hanno formato un nuovo esecutivo.
La sconfitta del DPS, guidata dal presidente Milo Djukanovic, in carica da quando aveva 29 anni, è stata da molti considerata una svolta positiva per il Paese, considerando la deriva autoritaria e corrotta dei socialisti al potere per così tanto tempo. Ma non sono mancate osservazioni critiche e preoccupate sul nuovo Governo, da poco ufficializzato dal Parlamento, che per alcuni rappresenta uno sviluppo pericoloso per il Montenegro. Non tanto per la figura del primo ministro Zdravko Krivokapić, professore universitario. Quanto, piuttosto, per la composizione della maggioranza, palesemente sbilanciata verso Belgrado e Mosca.
Il partito pro-serbo e pro-russo For the Future of Montenegro è balzato sotto i riflettori. Il suo ruolo durante la campagna elettorale è stato determinante per arrivare alla vittoria, riuscendo a mobilitare i cittadini nel nome dell’etnonazionalismo, infuocato anche dalla rabbia per la citata legge sulla religione contro la Chiesa serba.
I 27 seggi conquistati sono stati salutati con entusiasmo in gran parte della comunità serba nel Paese e sono stati celebrati anche nella Republika Srpska, l’entità a guida serba in Bosnia ed Erzegovina e in Serbia. Nel frattempo, le minoranze musulmane in Montenegro, che costituiscono circa il 20% della popolazione, si sono sentite minacciate. Nella città di Pljevlja, un edificio della comunità islamica è stato attaccato e gli abitanti bosniaci sono stati aggrediti verbalmente e fisicamente non appena sono stati resi noti i risultati elettorali.
Secondo alcune testimonianze delle aggressioni, il richiamo ai giorni bui degli anni ’90 in cui la Serbia nazionalista cercò di reprimere brutalmente i musulmani di Bosnia e Kosovo è stato palese. Un residente a Pljevlja, Emir Pilav, ha detto che i nazionalisti serbi urlavano “Turchi, spostatevi da qui“. La parola turco ha connotazioni dispregiativa e viene usata spesso per descrivere i musulmani in generale. Questo sentimento sarebbe radicato in quello che lo storico americano Michael Sells ha chiamato “cristoslavismo“, una peculiare ed esplosiva miscela di cristianesimo ortodosso e nazionalismo slavo meridionale, che etichetta i musulmani nella regione balcanica come traditori.
L’auspicio del primo ministro, proclamato il 4 dicembre sembra piuttosto difficile da realizzare in questo contesto. Le parole di insediamento di Krivokapic sono state: “Questo è il Governo di tutti noi, questo è il nostro Montenegro, cerchiamo di non dividerci ancora, lavoriamo tutti insieme a costruire un futuro migliore”.
Tuttavia, le proteste di fine dicembre 2020 hanno allontanato l’obiettivo di unità nazionale. Non è solo la contrapposizione tra montenegrini e serbi a scuotere il neo Governo. Il deputato Ibrahimovic del partito bosniaco ha incalzato l’esecutivo appena insediato affinché lavori per una risoluzione parlamentare in cui venga finalmente riconosciuto il genocidio di Srebrenica. Sarebbe un passo cruciale per la stabilità e l’unità montenegrina. Ma anche questo terreno è molto scivoloso. I leader dei partiti pro-Serbia in Montenegro hanno costantemente rifiutato di accettare questa definizione sui fatti orribili di Sbebrenica, affermando che è stato commesso un crimine di guerra, ma non un genocidio.
Il Partito bosniaco ha vinto tre seggi alle elezioni di agosto, ma ha rifiutato di aderire all’alleanza di Governo a causa del disaccordo con alcuni partiti filo-serbi, come il Fronte Democratico, che in passato hanno fatto dichiarazioni nazionaliste preoccupanti contro le minoranze di etnia albanese e bosniaca del Montenegro.
Non solo, il timore è che con i pro-serbi al comando l’agenda politica nazionale possa essere stravolta. Il Fronte Democratico, ora al Governo, si è sempre opposto alla linea europeista e filo-occidentale di Milo Djukanovic: l’ingresso nella NATO del 2017 è stato mal visto, così come il riconoscimento del Kosovo, che Belgrado rivendica ancora come un proprio territorio. L’avvicinamento all’Europa e il distacco marcato dalla Russia, inoltre, hanno addirittura causato un processo contro un presunto tentativo di colpo di Stato da parte di Mosca per rovesciare il socialista Djukanovic nel 2016.
In questa cornice tutto rischia di esplodere in rivendicazioni etniche nel piccolo Stato sull’Adriatico. Con una popolazione di appena 625.000 abitanti, dove il 45% si identifica come montenegrino, il 30% come serbo, l’8,6% come bosniaco e il 4,5% come albanese, anche il censimento 2021 sta mettendo in allarme. Gruppi della società civile e analisti hanno avvisato: quello che dovrebbe essere una utile indagine demografica rischia di diventare un pericoloso strumento di potere. Nel mirino sono tre richieste poste alla popolazione: affiliazione religiosa, identità nazionale e lingua. Quesiti non compresi tra gli standard europei, ma che probabilmente non verranno affatto eliminati nel questionario e provocheranno l’ennessima battaglia per il dominio etnonazionalistico. Il presidente della Serbia Aleksandar Vučić , per esempio, ha già fatto sapere che terrà d’occhio il censimento per monitorare che il numero dei serbi in Montenegro non diminuisca (mantenendo così inalterata la sua influenza sul Paese).