Razzismo istituzionale, quelle leggi che rifiutano e discriminano

Il dibattito pubblico italiano non sembra interessarsi troppo a un fenomeno ormai da anni ben radicato nella nostra società: il cosiddetto razzismo istituzionale o razzismo sistemico.

Il razzismo è un fenomeno multiforme che mira alla criminalizzazione delle differenze, e quando questo si unisce ad una qualsivoglia forma di potere, sfocia in quello che viene denominato razzismo istituzionale. Dal punto di vista teorico, si tratta di un concetto ancora in fase di elaborazione in Italia, per questo motivo non può essere racchiuso all’interno di confini ben definiti.

Il termine nasce negli anni Sessanta negli Stati Uniti, dagli studiosi e autori del libro-manifesto del “Black Power” Stokely Carmichael e Charles Hamilton, e indica quelle politiche, norme e prassi amministrative che perpetuano, rinforzano o producono una disuguaglianza e il malessere sociale di minoranze svantaggiate.

La forza del razzismo istituzionale sta nell’essere difficilmente percepibile e dunque condannabile. È una forma di razzismo subdola che ha la capacità di mimetizzarsi e di esprimersi attraverso un linguaggio criptico ed è usata da alcuni gruppi politici per stabilizzare e mantenere nel tempo il proprio primato, grazie all’appoggio del popolo che, con il voto, contribuisce a perpetuare una politica razzista.

Il razzismo istituzionale italiano può avere due livelli, uno nazionale e uno locale.

Dal punto di vista nazionale, la discriminazione perpetrata nei confronti di minoranze etniche e/o sociali avviene tramite leggi e decreti-legge nazionali, e da parte di ministri a volte muniti solo di cattive parole.

Nella maggior parte dei casi, il razzismo istituzionale è legato alle politiche migratorie, dato che l’Italia negli ultimi anni si è caratterizzata come un Paese di forte immigrazione: quando si parla di migranti infatti si tende sempre a utilizzare un approccio discriminante, che è stato negli anni legalizzato e normalizzato. La gravità del razzismo istituzionale italiano può essere dunque misurata con l’analisi degli effetti prodotti dalle varie politiche migratorie sui diritti degli stranieri, che sono stati erosi anno dopo anno.

Manifestazione di migranti a Treviso, Wikimedia Commons in licenza Creative Commons

Facendo un excursus sui provvedimenti discriminatori italiani più plateali legati al tema dell’immigrazione, non possiamo che partire dalla Legge n. 40 Turco-Napolitano del 1998 che rappresenta il punto di partenza della politica sull’immigrazione del nostro Paese. Inizia così una produzione normativa inefficiente, che invece di regolamentare i flussi migratori, va a consolidare una visione discriminatoria del migrante.

Viene infatti istituita la cosiddetta detenzione amministrativa con la creazione dei CPTA (centri di permanenza temporanea e assistenza) che servivano per identificare i migranti, ma che in realtà andavano a detenere in maniera arbitraria degli esseri umani senza alcuna violazione palese di norme.

Con la Legge n. 189 Bossi-Fini del 2002 si continua a perpetrare un altro atteggiamento discriminatorio nei confronti dei migranti. Da questo momento in poi il destino del migrante verrà connesso allo status di lavoratore: senza un contratto di lavoro non si potrà infatti accedere nel Paese. Una legge pensata per il controllo e il contrasto dell’immigrazione irregolare, si trasforma invece in un meccanismo discriminatorio.

Un altro mezzo di cui si serve il razzismo istituzionale è la decretazione d’urgenza. Negli ultimi anni nel nostro Paese c’è stato un abuso dell’utilizzo dei decreti legge per la trattazione di temi quali immigrazione e accoglienza.

Per definizione il decreto legge deve essere adottato in casi straordinari di necessità e urgenza da parte del Governo, e il suo utilizzo nell’ambito dell’immigrazione ha alterato la percezione della realtà dell’opinione pubblica, che si è sentita in estremo pericolo e dunque ben disposta ad accettare provvedimenti lesivi dei diritti degli stranieri.

È avvenuto ciò con la Legge n. 46 detta Minniti-Orlando e la Legge n. 48 detta Minniti. Queste misure, prima presentate come decreti e poi convertite in leggi, miravano essenzialmente ad accelerare le procedure per l’esame dei ricorsi sulle domande d’asilo e ad aumentare il tasso delle espulsioni dei migranti irregolari.

I punti principali del decreto erano essenzialmente quattro: l’abolizione del secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo che hanno fatto ricorso contro un diniego, l’abolizione dell’udienza, l’estensione della rete dei centri di detenzione per i migranti irregolari e l’introduzione del lavoro volontario per i migranti.

Viene così esasperato il carattere repressivo-razzista-sicuritario, a tal punto da costituire una violazione della Costituzione italiana e della Convenzione europea sui diritti dell’uomo.

Tra gli esempi più eclatanti di razzismo istituzionale italiano troviamo il Decreto sicurezza e il Decreto sicurezza bis, emanati dall’allora ministro degli Interni Matteo Salvini, che esplicitamente incorniciano un pensiero razzista sotto forma di legge e lo “normalizzano”.

I decreti Salvini comprimono i diritti della popolazione straniera, diffondono un immotivato allarmismo e vanno a rinforzare un’immagine negativa e stereotipata del migrante. I decreti “sicurezza” vanno infatti a criminalizzare i migranti, considerati banalmente tutti irregolari e dunque criminali, icone di ogni male, portatori di malattie, terrorismo e disagio.

Il tema dell’invasione riecheggia sui social, in tv e sui giornali, andando ad amplificare il clima d’odio già presente in Italia.

Dal punto di vista locale, invece il razzismo istituzionale si manifesta attraverso regolamenti, ordinanze e provvedimenti di amministratori locali esplicitamente o velatamente xenofobi. Uno degli ambiti in cui si registrano la maggior parte delle discriminazioni è quello dell’accesso al welfare.

Una delle regioni che in questi ultimi anni è stata maggiormente colpita dal razzismo istituzionale è la Lombardia, che ha compromesso i diritti di una delle categorie più indifese: i bambini. Vari comuni lombardi hanno infatti imposto requisiti di italianità per l’ottenimento di una delle prestazioni sociali più erogate negli ultimi anni.

Per fare un esempio, il Consiglio comunale di Lodi nel 2017 ha emanato una delibera per modificare una serie di articoli dell’allora vigente regolamento per l’accesso alle prestazioni sociali agevolate: in particolare si andavano a modificare le regole per beneficiare delle tariffe agevolate per la mensa scolastica e lo scuolabus.

Infatti con l’entrata in vigore di questa delibera, alle famiglie straniere veniva richiesto, oltre all’ISEE, di presentare delle certificazioni in più per dimostrare di non avere possedimenti nei propri Paesi d’origine. Si tratta qui di una discriminazione su base etnica, che tra i vari effetti negativi ha avuto quello di far sentire esclusi dalla comunità-scuola tanti bambini.

Neanche l’arrivo di una pandemia mondiale come il Covid-19 ha impedito al razzismo istituzionale di farsi avanti. Ci sono infatti amministrazioni comunali che hanno adottato criteri discriminatori per l’assegnazione del denaro stanziato dal Governo sotto forma di buoni spesa.

Il sindaco di Ferrara, Alan Fabbri, ha infatti fissato dei requisiti su base etnica per l’accesso agli aiuti in questione. Il “Prima gli italiani!” riecheggia ancora una volta. Così facendo Fabbri viola il principio di uguaglianza dei cittadini, imponendo, per l’ottenimento degli aiuti, il possesso della cittadinanza italiana o di quella di un Paese membro dell’Unione Europea, o il permesso di soggiorno per gli stranieri extra UE. La cosa che sconvolge è che la delibera prevedeva esplicitamente l’ordine di priorità a favore degli italiani.

È innegabile in questo caso la condotta discriminatoria assunta, che non ha fatto altro che alimentare una guerra tra poveri e comprimere i diritti di minoranze svantaggiate.

Cartellone esibito durante una marcia contro il razzismo in Nuova Zelanda, Wikimedia Commons in licenza Creative Commons

È dunque ormai palese che il razzismo istituzionale ci tocca da vicino e che bisogna affrontare il tema per cercare di combattere i suoi effetti dannosi, e ampiamente visibili, sulla nostra società.

Antonella Di Matteo

Attivista per i diritti umani, Youth Worker, appassionata di Africa e migrazioni. Laureata alla magistrale in Diritti Umani e Cooperazione allo Sviluppo a Perugia. Si occupa di europrogettazione. Volontaria per SCI Catalunya grazie al programma degli European Solidarity Corps.

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