Hate speech, tra vuoto giuridico e impegno della società civile
L’hate speech costituisce di per sé un attacco alla tolleranza, all’inclusione, alla diversità e all’essenza stessa di norme e principi sui diritti umani. Più in generale, mina la coesione sociale, erode i valori condivisi e può gettare le basi della violenza, ostacolando la pace, la stabilità, lo sviluppo sostenibile e il rispetto dei diritti fondamentali
Con queste parole, Antonio Guterres, Segretario Generale ONU, ha lanciato, lo scorso anno, la “Strategia e il Piano di Azione contro l’Hate Speech“. Una serie di linee-guida tese a consentire alle Nazione Unite il contrasto ai discorsi d’odio, in mancanza di norme internazionali.
La storia ha più volte mostrato come instillare odio attraverso le parole possa determinare conseguenze devastanti per intere comunità. L’aggressività verbale ha rappresentato, in diverse circostanze, l’anticamera della violenza fisica – basti pensare all’Olocausto e ai crimini perpetrati in Ruanda, Bosnia, Cambogia, Myanmar. Ciononostante, ad oggi nessuna Convenzione internazionale contempla in modo esplicito l'”hate speech”, che viene richiamato solo in riferimento ad altri diritti tutelati o crimini vietati.
A titolo esemplificativo, si può citare la Convenzione contro il genocidio, che all’art. 3, lett. c), sancisce la punizione dell'”incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio”.
Video tratto dal canale YouTube delle Nazioni Unite
La difficoltà di dar vita a uno strumento giuridico unitario disciplinante la materia deriva dall’assenza di consenso circa il significato del termine “discorso d’odio”. In buona sostanza, non esiste una definizione universalmente accettata poiché non è semplice tracciare una netta linea di demarcazione tra un’aspra critica e l’odio vero e proprio.
A tal proposito, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella sentenza Handyside vs UK, ha precisato che “la libertà di espressione (…) è applicabile non solo alle ‘informazioni’ o alle ‘idee’ accolte favorevolmente o considerate innocue” ma altresì “a quelle che offendono, sconvolgono, disturbano lo Stato o qualsiasi settore della sua popolazione”.
Pertanto, regolamentare l’hate speech potrebbe tradursi in un’eccessiva contrazione della libertà di espressione, pur non costituendo questa per sua natura un diritto assoluto. Fissare limiti stringenti alla libera manifestazione delle opinioni andrebbe a inficiare il pluralismo e l’essenza stessa delle società democratiche.
C’è anche da dire che, in alcuni casi, la violenza orale può risultare funzionale agli interessi stessi dei gruppi di potere, i quali la utilizzano per attaccare nemici politici, dissidenti, critici.
Non a caso, negli ordinamenti giuridici statali, di solito, il “discorso d’odio” non è previsto come reato a sé stante. Ma viene sanzionato all’interno di altre fattispecie criminose e, solo nella misura in cui si manifesta con estrema gravità ovvero assume la connotazione di “incitamento alla violenza” nonché “alle discriminazioni” contro una persona o un gruppo.
Se prendiamo in considerazione l’Italia, il discorso d’odio è stato inserito nell’ampio quadro della lotta al razzismo prima e all’antisemitismo poi. Il primo richiamo normativo, seppur non espresso, si rintraccia infatti nella L. 654 del 1975 (modificata con la Legge Mancino del 1993 e con la Legge n. 85/2006), con cui è stata ratificata la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale.
L’art. 3 punisce “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale” oppure “istiga a commettere o commette atti di violenza (…) nei confronti di persone” in ragione della loro appartenenza a un gruppo nazionale, etnico o razziale. Nel 2016, è stato introdotto un nuovo comma al suddetto articolo, che criminalizza il negazionismo della Shoah.
Il vuoto normativo tanto a livello internazionale che nazionale, al di là degli aspetti tecnici e teorici, comporta una serie di problematiche di ordine sostanziale.
Anzitutto, non ci sono dati uniformi per far luce sulla reale portata del fenomeno, che è comunque globale. I vari report delle organizzazioni internazionali parlano soltanto di una pratica in costante aumento.
In secondo luogo, non è chiaro chi siano i principali destinatari dei messaggi d’odio. Quali categorie, cioè, necessitano di maggiore protezione. A riguardo, l’osservatorio Balcani e Caucaso evidenzia: “per molti decenni, l’attenzione si è concentrata in particolare sull’odio razziale, sull’antisemitismo e sul negazionismo“. Agli inizi del nuovo millennio “la sensibilità sul tema è cresciuta fino a comprendere le minoranze religiose (anzitutto musulmane)”. Mentre, “donne, persone LGBT, disabili, anziani sono considerate potenziali bersagli dei discorsi d’odio solo da poco tempo”.
Infine, appare assai difficoltoso elaborare risposte valide ed efficaci attraverso le quali contenere i “discorsi d’odio”, soprattutto all’interno dello spazio digitale come rilevato anche dall’UNESCO.
In ambito europeo – è noto – per far fronte a queste criticità, la Commissione Europea, nel 2016, ha firmato con quattro aziende IT (Facebook, Twitter, Google e Microsoft), un “codice di condotta“. Grazie all’accordo, le Web Company si sono impegnate a rimuovere i contenuti d’odio illegali entro 24 ore dalla ricezione di una segnalazione.
Le segnalazioni, però, sono frutto del “lavoro” degli utenti di buona volontà e delle associazioni a tutela dei diritti umani. La società civile si trova quindi, come spesso accade, a colmare dei vuoti istituzionali. A supplire al ruolo degli Stati nei processi di inclusione nonché di educazione al rispetto delle diversità e dei diritti fondamentali dell’individuo.
Ed è proprio in questo contesto che si colloca un’interessante iniziativa realizzata dalla Sezione italiana di Amnesty International. Nel 2017, AI Italia ha istituito una Task Force Hate Speech (TFHS). Voci Globali ha intervistato la dottoressa Maria Rosa Sora – membro del coordinamento della TFHS – per capire le modalità operative e i risultati finora raggiunti dagli attivisti dell’ONG.
Dottoressa Sora, come nasce l’idea di una Task Force e quali sono gli obiettivi che la stessa si è posta nell’ottica del contrasto ai “discorsi d’odio” online?
Il punto di partenza è rappresentato dalle tragedie del mare. Dal 2015, il tema dei migranti nel Mediterraneo inizia a suscitare un’ondata di odio social tra i lettori delle testate giornalistiche online. I commenti violenti e intolleranti si moltiplicano fino a colpire anche altre minoranze. Amnesty International si rende conto che la Rete si sta trasformando in una vera e propria arena, nella quale i toni esasperati vengono utilizzati per diffondere contenuti spesso infondati. La Sezione italiana dell’ONG, sviluppa quindi l’idea di creare una Task Force. Si tratta di una forma di attivismo diversificato e complementare rispetto a quello territoriale, poiché volto a coinvolgere più persone possibili, dando loro l’opportunità di attivarsi con noi.
La TFHS monitora le pagine social delle maggiori testate nazionali, focalizzandosi sulle conversazioni frutto della lettura degli articoli, quindi sui commenti dei lettori.
L’intento è diffondere una narrazione dei diritti umani, che tenga conto di dati corretti nonché di fonti attendibili e accreditate. L’obiettivo primario è quello di abbassare i toni per rendere pacato il dialogo. Ci rivolgiamo anche alla platea della “maggiorana silenziosa”, costituita da utenti social che non intervengono in certi dibattiti proprio per il timore di essere aggrediti verbalmente.
Mancando una definizione univoca di “hate speech”, sulla base di quali parametri di riferimento opera la Task Force?
La Task Force Hate Speech si attiva per contrastare ogni espressione di odio e intolleranza verso i cosiddetti “gruppi fragili”, i cui diritti umani vengono messi in discussione. Parliamo di commenti la cui origine deve essere ricercata nella paura di confrontarsi con ciò che è diverso da sé. Non a caso, si basano sullo stereotipo negativo e sul pregiudizio. La disinformazione e l’incapacità di uscire dalla propria prospettiva ristretta giocano un ruolo determinante in queste conversazioni. Il passo dal discorso al crimine di odio può essere spesso breve. Noi cerchiamo di combattere questa potenziale escalation.
Dopo oltre due anni di attività, siete riusciti a disegnare l’identikit di un tipico “hater”?
L’hater, per quanto ci riguarda, è prima di tutto una persona. Per evitare, quindi, di cadere noi stessi in banali stereotipi, tendiamo a considerare il nostro interlocutore in termini di essere umano con una propria storia alle spalle. E non come rappresentante di una categoria specifica. Di conseguenza, non utilizziamo nei suoi confronti epiteti divisivi e polarizzanti. Ma restiamo centrati sull’argomento di conversazione. Certo, in alcuni casi, l’interlocutore è troppo arrabbiato, polemico e del tutto incapace di aprirsi al dialogo. In altri casi, ci troviamo addirittura di fronte a troll – magari con profilo fake – il cui fine è solo disturbare la discussione con modalità provocatorie, prepotenti, irruenti.
Può dirci, in ragione dell’esperienza maturata dalla Task Force, chi sono le principali “vittime” dei commenti d’odio nel panorama social italiano?
In base alla nostra esperienza, la maggior parte dei discorsi d’odio sono rivolti contro migranti, rom, donne, musulmani, ebrei e persone LGBT. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla crescente criminalizzazione della solidarietà. Pertanto, abbiamo scelto di attivarci anche a tutela delle ONG, divenute “vittime” di odio social a causa del loro impegno nei soccorsi in mare e dei migranti in generale. “Bruciamoli tutti”, “riapriamo i forni”, “basterebbe un missile e il problema è risolto”, sono solo alcuni esempi di ciò che ogni giorno leggiamo.
È cambiato il modo di “odiare” durante la pandemia da Covid-19? In altri termini, la violenza verbale ha assunto una nuova connotazione sia riguardo ai destinatari dell’hate speech che agli attivisti impegnati nel contrasto allo stesso?
Intanto, va detto che abbiamo attivato un monitoraggio #coronavirus proprio al fine di verificare eventuali nuovi destinatari di discorsi d’odio. Al momento, essendo ancora in corso l’attività, non abbiamo dati precisi da fornire. Senz’altro, va rilevato che in questa fase i virologi intervistati vengono tacciati pesantemente di ignoranza e incapacità. La scienza risente di un crollo di autorevolezza, che sui social è ancora più fragoroso che nei media tradizionali.
Rispetto ai “soliti” gruppi oggetto di hate speech di cui abbiamo appena discusso, in realtà si è inizialmente registrata una netta diminuzione della violenza verbale nei loro confronti. Questo perché l’attenzione della stampa è stata soprattuto rivolta all’emergenza da Covid-19. Non va dimenticato – almeno per quanto riguarda l’ambito di intervento della TFHS – che i giornali costituiscono la principale fonte da cui originano taluni dibattiti. La narrazione giornalistica di un certo stampo orienta il pensiero degli utenti social. Se diminuiscono gli articoli su temi suscettibili di produrre nei lettori reazioni razziste, sessiste, xenofobiche, islamofobiche, omofobiche, si riducono anche i commenti di odio.
Gli stessi migranti, destinatari “privilegiati” dell’hate speech social, hanno potuto tirare un sospiro di sollievo almeno fino alla nota vicenda della nave Alan Kurdi.
La decisione di Roma di dichiarare l’Italia “porto non sicuro” e il conseguente dibattito sul destino dei 146 migranti a bordo della nave Alan Kurdi ha suscitato una nuova ondata di odio social?
Si è tornati, per così dire, alla consueta routine. I mass media si sono occupati della questione e i commenti d’odio sono riapparsi. Ovviamente gli haters non hanno criticato lo specifico provvedimento ministeriale, considerando che si muove in una direzione condivisa. Hanno contestato, più in generale, la posizione del Governo, ritenuta finora troppo “accogliente”. E hanno indirizzato l'”odio” verso i migranti che, adesso più che mai, dovrebbero restare “a casa loro”.
Non è però mutata la natura e il contenuto dei commenti. Il linguaggio offensivo, oltraggioso, provocatorio, svilente mantiene lo stesso livello di aggressività pre-coronavirus. È solo cambiato l’oggetto del contendere. Mi spiego meglio: nel periodo precedente al Covid-19, l’assunto del “prima gli italiani” atteneva soprattutto al diritto al lavoro e alla sicurezza. Ora, invece, riguarda il diritto alla salute.
Restando su tematiche attuali. L’attesissima notizia della liberazione di Silvia Romano è stata accompagnata da un’ondata di commenti social poco lusinghieri (per usare un eufemismo) nei suoi confronti. Crede che ciò sia dipeso dal fatto che è una donna o una volontaria, per di più convertita all’Islam? Oppure entrambi gli elementi hanno giocato un ruolo importante?
Gli ultimi giorni sono stati molto “caldi” per la nostra Task Force Hate Speech. Il caso di Silvia Romano ha suscitato rabbia e intolleranza, che si sono manifestate in maniera trasversale. Ha toccato, infatti, diversi temi: dalle ONG, all’islamofobia fino alla questione donne. Tuttavia, è proprio in quest’ultimo aspetto che abbiamo ravvisato la maggiore criticità.
L’esposizione mediatica e la marea di insulti – diventati anche minacce di violenza, tanto da indurre le autorità preposte a chiudere i profili social di Silvia – rivelano un accanimento che non ha paragoni con situazioni similari relative a soggetti maschili. Mentre risvegliano preoccupanti analogie con altri casi riguardanti donne, e non per forza volontarie o cooperanti. Mi riferisco ai rapimenti di Simona Toretta, Simona Pari, Giuliana Sgrena. Ma anche a contesti differenti, dove è semplicemente l’aspetto di una donna a essere messo in discussione. L’esempio più ravvicinato nel tempo è quello delle gravi offese online alla giornalista Giovanna Botteri. L’hate speech di stampo sessista, del resto, si basa proprio sull’idea che la donna in quanto tale è inappropriata in molte circostanze. E colpisce il fatto che spesso siano proprio le donne a “odiare” le donne.