Yemen, si entra nel quarto anno di una terribile guerra civile
Una “guerra dimenticata”, quella dello Yemen, il paese più povero del Medioriente a sud della Penisola Arabica, ma posto in una posizione strategica perché controlla gran parte dello stretto di Bab el Mandeb, che unisce il Mar Rosso con il Golfo di Aden. Un crocevia commerciale tra il Medio Oriente, la Penisola Araba e il Corno d’Africa.
Qui, nel pressoché totale disinteresse della comunità internazionale, vi è “la più grande carestia che il mondo abbia mai visto in decenni, con una potenzialità di milioni di vittime”, secondo le parole del sottosegretario generale degli affari umanitari e coordinatore degli aiuti per le emergenze della Nazioni Unite, Mark Lowcock.
Continue minacce per la sicurezza e varie epidemie – dal colera alla difterite – hanno prodotto una situazione disperata, con più di 20 milioni di persone bisognose di assistenza, più di due milioni di sfollati e – dati dell’Ufficio Onu per il coordinamento umanitario (Ocha) – circa due milioni di minori che non vanno a scuola e 1,8 milioni sotto i 5 anni malnutriti.
Più di diecimila i morti.
Il 26 marzo si entra nel quarto anno della tremenda guerra civile, scoppiata nel 2015 e apparsa solo saltuariamente sui media. Guerra che vede le forza governative del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, spalleggiate da una coalizione composta da Arabia Saudita, Stati del Golfo, Giordania, Egitto, Marocco, Sudan, con il sostegno di Gran Bretagna e Stati Uniti da un lato; e dall’altro i ribelli houthi, milizia sciita sostenuta dall’Iran.
A iniziare le ostilità, gli houthi, che nel settembre 2014 occuparono Sana’a, capitale dello Yemen, calando dai territori settentrionali del Paese.
Il percorso politico degli houthi era stato agevolato da Ali Abdullah Saleh, lo storico presidente rimasto al governo per trent’anni. Il loro arrivo nei pressi di Aden, sede del governo di Hadi in carica dal 2012, provocò tuttavia la sua violenta repressione ma anche le sue successive, forzate, dimissioni.
Proprio il 26 marzo, la coalizione militare con in testa l’Arabia Saudita aprì dei bombardamenti contro gli houthi per restaurare il governo di Hadi.
Gli Stati Uniti fornirono l’intelligence e il supporto logistico per l’operazione.
La situazione restò però sostanzialmente bloccata, con l’Arabia Saudita e i suoi alleati che controllavano la parte meridionale del Paese, mentre gli houthi il nord e la capitale Sana’a.
Il conflitto negli anni si è andato sempre più complicando anche a seguito dell’intervento di altri Paesi: al fronte interno (che vede un conflitto fra i ribelli sciiti houthi e le forze leali all’ex Presidente Ali Abdullah Saleh, ucciso nel dicembre 2017) ha visto affiancarsi il fronte esterno con la violentissima offensiva saudita.
“In Yemen”- ha scritto Eleonora Ardemagni, Nato Defence College Foundation – “la rivalità fra sauditi e iraniani ha aggrovigliato un conflitto interno complesso: anno dopo anno, Teheran ha aumentato il livello d’interferenza politico-militare nel Paese a sostegno degli houthi, gli insorti sciiti del movimento-milizia settentrionale di Ansarullah. Di fatto, le accuse lanciate da Riyad sin dalla prima ora, ‘l’Iran arma gli houthi’, si sono poi trasformate in una beffarda realtà”.
Non a caso, a proposito del conflitto in Yemen si è parlato di “guerra per procura”: il contrasto fra Arabia Saudita e Iran è nato dalla paura di Riad relativa alla volontà dell’Iran di creare in Yemen una propria milizia.
Del resto sono molto forti gli interessi dell’Arabia Saudita per la posizione strategica dello Yemen.
Come sottolineato dall’esperto di geopolitica Antony H. Cordesman in un’analisi messa a punto nel 2015 per il Center for Strategic and International Studies (CSIS) , l’Arabia Saudita può sfruttare il territorio e i porti yemeniti per creare delle infrastrutture che permetterebbero di non passare per lo Stretto di Hormuz.
Ma nel conflitto yemenita sono state finora altissime le spese dei sauditi, contrariamente ai costi del sostegno agli houthi di Teheran: “L’obiettivo degli iraniani in Yemen è duplice – scrive l’analista – mettere sotto pressione il confine saudita, appoggiando la guerriglia houthi, e logorare Riyad, tenendo i sauditi militarmente e finanziariamente occupati sul fronte (quasi) interno, ovvero distanti da quel Levante arabo (Libano, Siria e Iraq) in cui sono gli iraniani a dare le carte. Non vi sono dubbi: Teheran ha centrato i suoi obiettivi di politica estera, anche qui”.
E poi c’è un terzo attore regionale molto importante: gli Emirati Arabi Uniti.
“Gli obiettivi degli Emirati Arabi in Yemen – scrive la Ardemagni – perseguiti tramite impegno militare di terra, rete di patronage locale, addestramento di forze yemenite e aiuto alla ricostruzione nel sud, erano tre: indebolimento della Fratellanza Musulmana (qui rappresentata dal partito Islah, che raccoglie però anche salafiti), contrasto ad al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) e creazione di un’area di influenza geostrategica nel sud dello Yemen”.
Obiettivi che sono stati tutti e tre raggiunti.
Elena Zacchetti sul Post ricorda anche l’importanza dell’Egitto nelle storie dello Yemen: “La partecipazione dell’Egitto nelle faccende yemenite – scrive – è molto importante anche oggi, perché sta dando una dimensione alla guerra in Yemen che va al di là delle diatribe tra gli stati del Golfo Persico: con la presa del potere di al Sisi, l’Egitto è tornato un solido alleato dell’Arabia Saudita, come non lo era più stato durante la presidenza egiziana di Mohammed Morsi, esponente del movimento politico-religioso dei Fratelli Musulmani”
A fine gennaio, i separatisti del sud dello Yemen hanno preso il controllo di Aden, sottraendolo al controllo delle forze dell’ex presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, alleato di Arabia Saudita ed Emirati Arabi.
“Sulla carta – ha spiegato Cinzia Bianco, analista della Gulf State Analytics e PhD Candidate all’Università di Exeter, la realtà è più complessa – i sudisti hanno fatto una mossa sponsorizzata dagli Emirati, ma contraria ai sauditi, che hanno in Hadi l’alleato chiave all’interno del conflitto, ma forse più che una spaccatura questo può indicare che Riad ha scelto di scaricare l’ex presidente, cambiare la linea, e ascoltare Abu Dhabi”.
Dopo altri tre mesi di guerra, anche l’Onu pare essersi arreso, non essendo riuscito a mettere d’accordo gli attori regionali e internazionali rappresentati da paesi alleati nel Consiglio Onu che non riescono a mascherare la lotta per spartirsi quello che resta delle ricchezze del martoriato Paese.
Il 3 aprile prossimo l’Onu ha convocato una conferenza a Ginevra per discutere unicamente sul modo con cui far fronte alle conseguenze umanitarie della guerra. Ma il suo margine di manovra pare veramente ridotto.
Così come già in Siria, in Iraq, in Libia, anche in Yemen l’ONU mostra di essere un organismo totalmente inutile, senza potere coercitivo effettivo e senza alcun reale impatto politico, totalmente dipendente e in balia delle decisioni degli Stati.
Si è arrivati al paradosso per cui il disastro è stato provocato da quella stessa Arabia Saudita che proprio l’ONU ha messo a capo della Commissione per i Diritti Umani.
In Yemen peraltro si stanno testando nuove armi: Lorenzo Vita su Occhidellaguerra.it racconta di come la guerra in Yemen abbia prodotto un’impennata nell’uso di armi laser, e gli Stati Uniti “confermano che le loro attività s’inseriscono nel quadro di questa sorta di grande (e terribile) addestramento mondiale”.
Inequivocabili le parole del generale Robert Neller, comandante dei marines, davanti ai rappresentanti del Congresso: “Non è solo in mare, quello che sta accadendo al largo delle coste dello Yemen è una sorta di laboratorio a fuoco vivo”.
L’amministrazione Trump non ha fatto che riaffermare la linea di intervento di Obama, appoggiando l’Arabia Saudita in funzione anti-Iran e spendendo ben 115 miliardi di dollari in armamenti comprati da Riyad negli ultimi otto anni.
Un’inchiesta del New York Times ha anche rivelato che fra le armi che l’Occidente vende ai Sauditi per fare strage di civili ci sono anche bombe italiane, serie MK8, identificabili dalle matricole A4447.
Ambigua la posizione della Gran Bretagna: l’Indipendent ha riferito del recente l’incontro a Londra fra Theresa May e il principe saudita Bin Salman. Secondo il quotidiano britannico il Primo Ministro del Regno Unito si sarebbe mostrato preoccupato per la situazione umanitaria in Yemen.
Atteggiamento in contrasto con il fatto – come ha rilevato Michele Crudelini su Occhisullaguerra.it – che a novembre lo stesso quotidiano britannico sottolineasse come la vendita di bombe e missili da parte del Regno Unito ai sauditi fosse aumentata del 500% da quando è iniziato il conflitto in Yemen.
In tre anni di conflitto è cresciuto in maniera vertiginosa anche l’insicurezza del confine saudita-yemenita. Questo mentre l’Iran sta rivestendo un’influenza sempre maggiore nella regione.
L’anniversario dell’inizio del conflitto – 26 marzo 2015 – ci consegna ad oggi un Paese martoriato, dove la risoluzione dello scontro sembra una chimera.
Con i tassi demografici più alti del mondo, e una popolazione formata per la gran parte di persone sotto i 24 anni, lo Yemen sembra tristemente non avere ancora un futuro.