Venti di secessione in Africa, il caso Camerun e l’Ambazonia
Anche l’Africa ha le sue tensioni separatiste. Una di queste è quella che riguarda il Camerun, ovvero la République du Cameroun per dirla con la definizione francese. Perché il problema è fondamentalmente legato alla lingua. Gli anglofoni contro i francofoni. Opposizione che è naturalmente molto più che una questione puramente linguistica e che affonda le sue radici nelle spartizioni coloniali.
Dapprima territorio tedesco, in base a quanto stabilito nella Conferenza di Berlino del 1884-85, dopo il Primo conflitto mondiale il possedimento coloniale venne ripartito tra le vincitrici Francia e Inghilterra. A deciderlo fu la Società delle Nazioni, sostituita dopo la Seconda guerra mondiale dall’ONU.
La fine del colonialismo portò poi all’unificazione della parte francese e di quella inglese. Unificazione che però partiva su basi poco comuni, non solo dal punto di vista linguistico, ma evidentemente culturale. Questo paper – in inglese – a cura del Dipartimento di Storia dell’Università di Yaoundé – può aiutare a tracciare le motivazioni storiche di quanto sta accadendo da un anno a questa parte nel Paese.
Giusto un anno fa, ottobre 2016, la popolazione anglofona – o parte di essa – ha avviato una serie di proteste e scioperi il cui obiettivo è uno soltanto: l’indipendenza. Il nuovo, auspicato Stato, ha anche già un nome, Ambazonia, una bandiera, un inno nazionale, un sito Internet ufficiale e un leader, Sisiku Ayuk Tabe, al momento in esilio. In questo video si rivolge alla popolazione di Ambazonia.
Al di là di quello che alcuni potrebbero definire mancanza di realismo e di visione politica, la situazione è allarmante. Da un anno una serie di scioperi hanno bloccato molti servizi pubblici e le scuole anglofone sono chiuse, le proteste in strada sono all’ordine del giorno e la repressione del presidente Paul Biya è stata implacabile.
Fin dal principio nessuna forma di dissenso è stata consentita e nel mirino sono finiti, naturalmente anche Internet, i social media e persino le comunicazioni attraverso Whatsapp per impedire, pare, i legami e i passaggi di notizie tra i cittadini e l’esterno, in special modo con la diaspora. Inoltre sono vietate riunioni di più di 4 persone, anche se – evidentemente – tale disposizione non ha fermato i manifestanti. Difficile sapere con precisione quante siano state finora le vittime e anche pochi giorni fa altre morti hanno segnato le manifestazioni di piazza.
I camerunensi anglofoni rappresentano solo il 20% di una popolazione pari a circa 23 milioni di abitanti, e vivono soprattutto nel Sud e Nord Ovest del Paese al confine con la Nigeria a cui si sentono più vicini per cultura e storia. La protesta a cui partecipano tra l’altro studenti, avvocati, insegnanti, nasce dalla volontà di dire basta a quello che è considerato lo strapotere della parte francofona del Paese, protesta che naturalmente prende di mira anche il presidente, Paul Biya, al potere da 35 anni. Una discriminazione – lamentano i camerunensi anglofoni – che va avanti ormai da 56 anni, anno dell’unificazione, e che si manifesta in ogni settore: dalla politica all’educazione alle opportunità lavorative.
Il 1 ottobre scorso, giorno in cui si celebra l’anniversario dell’indipendenza della parte anglofona del Camerun dalla colonia britannica e l’unificazione con l’ex colonia francese, “gli abitanti di Ambazonia” hanno dichiarato la loro indipendenza e libertà. Un gesto simbolico, naturalmente, che però non è piaciuto al governo centrale di Yaoundé. La situazione rischia di incidere sulle elezioni che dovrebbero svolgersi nel 2018 e anche tra i leader e teorici del movimento separatista c’è differenza di opinioni tra chi vorrebbe il ritorno al modello federalista in vigore dal 1961 al 1984, quando Biya abolì il sistema federale a favore di un Camerun unificato e chi invece chiede una divisione del Paese. Ipotesi entrambe rifiutate in toto dal governo a maggioranza francofona.
Negli ultimi mesi il presidente ha fatto una serie di concessioni e ha liberato decine di attivisti, ma – secondo molti – queste decisioni sono poche e soprattutto arrivano troppo tardi. Del resto la popolazione anglofona ritiene da tempo di essere marginalizzata sia politicamente che economicamente e la situazione è andata ben oltre probabilmente per poter essere risolta con atti che non abbiano una portata ampia nel tempo e sostanziale nei contenuti.
Stupisce il silenzio dell’Unione africana, che avrebbe – a detta degli esperti – almeno due opzioni, le sanzioni e il ritiro dal gruppo dei Paesi aderenti all’UA. Due giorni fa la Commissione per i diritti umani della Nazioni Unite ha rilasciato un comunicato in cui si esprime preoccupazione per le violenze del governo e si afferma “ai cittadini dovrebbe essere consentito di esercitare il diritto a riunioni pacifiche e ad esercitare la propria libertà di espressione, anche attraverso l’accesso – senza interruzioni – a Internet”
Ed è di poche ore fa l’annuncio alla candidatura alle presidenziali di un avvocato camerunense anglofono noto per la sua lotta alla corruzione, il 65enne Me Akere Muna. “Dobbiamo andare verso una nuova Repubblica, che sarà fondata sul buon governo e sullo Stato di diritto“. Nessun accenno alla questione separatista, ma ha promesso che in suo eventuale governo non ci sarà “alcuna tolleranza per la corruzione, il tribalismo, il nepotismo e i favoritismi“.
Intanto, a parte il movimento secessionista il Camerun sta vivendo da tempo una crisi interna legata alla sicurezza dovuta alla presenza di frange di Boko Haram e di migliaia di rifugiati che dalla jNigeria scappano dalle incursioni e dalle violenze del gruppo estremista. A questi si uniscono i disperati della guerra del Centrafrica che, anch’essi hanno cercato protezione nel Paese confinante.
Dal 2014 sarebbero già 233.000 i rifugiati provenienti dalla Repubblica Centrafricana. Si parla di 90.000, per quanto riguarda i nigeriani – anche se è impossibile sapere il numero esatto – di cui oltre la metà “ospitati” nel campo profughi di Minawao all’estremo Nord del Camerun al confine con la Nigeria, una delle aree più deprivate del Paese. Aperto nel 2013 il campo risulta oggi troppo affollato e ci sono insufficienze gravi sia dal punto di vista sanitario che alimentare, come riportato dall’agenzia delle Nazioni Unite. Il 61% degli ospiti di Manawao ha meno di 18 anni ma pare che nessuno abbia accesso alla scuola o a centri di formazione.
A questi si aggiungono gli sfollati interni, 236.000 persone, cittadini camerunensi che sono fuggiti dalle aggressioni di Boko Haram nel Nord del Paese. Una situazione esplosiva tanto che il presidente Biya ha più volte sottolineato il rischio – o la certezza – che i campi possano trasformarsi nel ricettacolo di adepti al gruppo terroristico. Si tratta – comunque sia – di una crisi umanitaria silenziosa che si sta incancrenendo sotto gli occhi quasi indifferenti della comunità internazionale. L’UNHCR ha tra l’altro denunciato le azioni di rimpatrio forzato, contrario alle Convenzioni di Ginevra, dei rifugiati nigeriani.
Il Governo del Camerun avrebbe però negato dichiarando che i rimpatri sarebbe stati volontari. Altra accusa rivolta al presidente Biya è quella di lasciar praticare la tortura nei confronti di chi è sospettato di essere vicino o affiliato ai terroristi. A fornire le prove sarebbero i documenti e le testimonianze prodotte da Amnesty International e racchiuse in un Rapporto diffuso recentemente che parla di camere di tortura, violazione dei diritti umani e crimini di guerra nella lotta al terrorismo di Boko Haram.
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