Immigrazione, uno sguardo storico per spiegare l’intolleranza

[Traduzione a cura di Carolina Carta dall’articolo originale pubblicato su openDemocracy.
Felicita Tramontana intervista Leo Lucassen, docente alla Leiden University e Direttore dell’Istituto di Storia Sociale in Olanda (IISH).
]

Profughi della Vlora in banchina a Bari, 8 agosto 1991. Wikicommons / Luca Turi.

Felicita Tramontana (FT): Al giorno d’oggi, il problema dell’immigrazione è al primo posto nell’ordine del giorno della politica, i Governi europei sentono incombente l’esigenza di ridurre gli ingressi dei richiedenti asilo e i termini “migranti” e “rifugiati” straripano dalle cronache televisive e dai nostri social network. In quanto esperto di storia dell’immigrazione, quali aspetti dell’attuale dibattito l’hanno colpita di più?

Leo Lucassen (LL): Ciò che più impressiona è l’allarmismo che fa leva su dilaganti timori apocalittici, all’interno del dibattito sia pubblico che politico. Quello che molte persone non capiscono è che, se si compara il numero dei rifugiati che arrivano nei Paesi dell’Unione Europea dal 2010 in poi con quelli degli anni Novanta, le cifre di allora erano sensibilmente più consistenti rispetto a quelle odierne.

Lo stesso discorso vale per la provenienza dei richiedenti asilo. Alcuni sostengono che nel 1999 i rifugiati arrivassero dall’Europa, ad esempio dalla Jugoslavia. Questo è vero soltanto in parte: all’epoca, infatti, i rifugiati arrivavano perlopiù dalle stesse regioni di adesso, ovvero dai territori del Medio Oriente — non dalla Siria che era in pace, ma dall’Iran, dall’Iraq e dall’Afghanistan — oltre che dal Corno d’Africa: allora era la Somalia, oggi è l’Eritrea.

In terza istanza, se si guarda a come si sono integrati i rifugiati che sono arrivati negli anni Novanta – dall’Olanda arrivano studi dettagliati derivati dall’aver seguito le vicende delle persone coinvolte per lunghi periodi – si capisce che queste persone non costituiscono un problema nella nostra società. E viste le circostanze, si sono integrati abbastanza bene.

In quanto storico, tutto ciò fa sì che mi domandi – e mi ritrovo spesso a rifletterci su – che cosa è cambiato?

Se non sono i numeri, se non è il luogo d’origine, se non si tratta di non aver ancora “digerito” questi rifugiati dagli anni Novanta, come possiamo spiegarci i toni allarmistici del dibattito politico in corso sul tema dei rifugiati?

I Paesi che li accoglievano non erano certo entusiasti all’idea di ricevere rifugiati già allora ma, diversamente da oggi, il loro arrivo non si trasformava in una grave questione politica

Ci sono alcuni fattori che è necessario tenere in considerazione per spiegare questo cambiamento. Naturalmente bisogna pensare all’11 settembre e alla tendenza ad associare l’Islam e i musulmani al terrore, fatto che preoccupa le persone. Prima dell’attentato alle Torri Gemelle, l’Islam non costituiva un tema dominante, e nemmeno era stato strumentalizzato a fini elettorali, perlomeno non nella politica olandese. Il cambiamento non si era verificato neanche in Germania, ad esempio, che registrava numeri molto più alti negli anni Novanta rispetto ad oggi. L’11 settembre ha perciò segnato una svolta, insieme ai successivi avvenimenti di Londra, Madrid, Bruxelles, Nizza e Parigi, che hanno acuito il sentimento di islamofobia.

Questo è senz’altro un aspetto fondamentale del cambio di rotta: questa paura è stata fomentata dal rafforzamento dei partiti populisti che negli anni Novanta quasi non esistevano. Naturalmente c’era già il vecchio “Front National” di Le Pen, che era tuttavia una realtà marginale. Adesso i partiti radicali di destra si sono diffusi anche in altri Paesi, come nei Paesi Bassi, ma anche in Danimarca, e “Front National” di Marine Le Pen si è rafforzato progressivamente, attirando un numero di voti considerevole nelle scorse elezioni presidenziali francesi. Questi partiti sono molto bravi nel destare le paure e nell’usare i rifugiati come capro espiatorio di ogni male della società, fornendo risposte facili e dirette ai cittadini disoccupati, che magari hanno perso il diritto alla pensione sociale, o che sono semplicemente spaventati dagli effetti della globalizzazione.

Un terzo elemento di novità è quello dei social network. Le piattaforme sociali possono essere usate per smuovere sia il timore che la solidarietà, ma ciò che vediamo, tutto ciò che sappiamo, è che in realtà facilitano la circolazione su larga scala di ogni tipo di fake news sui rifugiati e sui musulmani. Questi social conducono a un flusso di informazioni decontestualizzato che prende di mira diversi segmenti della popolazione. Secondo la mia opinione, vent’anni fa le persone condividevano notizie più “normali” e oggettive, diversamente da quel che succede ai giorni nostri. Sebbene tutti noi abbiamo sempre vissuto in campane di vetro, tirate su dalla politica o dalla religione, oggigiorno queste gabbie sono diventate sempre più opprimenti e politicizzate. Il ruolo dei social media all’interno di questa trasformazione è stato quindi fondamentale.

Il quarto fattore è che le migrazioni sono diventate molto più visibili. E non è il caso soltanto dei richiedenti asilo ma anche di coloro che si recano in Europa, specialmente dall’Africa sub-sahariana. Tale visibilità è una conseguenza del fatto che i migranti sono perlopiù costretti a intraprendere viaggi irregolari e pericolosi, specialmente in barca, attraverso il Mediterraneo.

Questa componente non era totalmente assente negli anni Novanta; da italiana sicuramente ricorderà delle imbarcazioni provenienti dall’Albania in quegli anni. Tuttavia il fenomeno era limitato principalmente al Mar Adriatico. Già allora si verificavano le morti di confine e le persone annegavano nel Mediterraneo, ma il fenomeno è divenuto rilevante soltanto dopo il 2010.

La ragione principale è la modifica attuata dall’Unione Europea nella politica dei visti. Per la prima volta, nel 1993, venne introdotta una regolamentazione UE che rese obbligatorio il visto sul passaporto per poter entrare regolarmente in un qualsiasi Paese dell’Unione. All’inizio questa normativa sortì effetti minimi in termini di visibilità poiché c’erano diverse vie alternative per entrare in Europa. La “cortina di ferro” dell’Europa orientale aveva appena ceduto ed era perciò molto semplice oltrepassare i confini ad Est, in Turchia, Bulgaria e Polonia. Per questo motivo la maggior parte degli ingressi irregolari negli anni Novanta avvenne via terra e fu solo in maniera graduale che aumentò il numero di persone che si spostavano in barca.

Nei primi anni Duemila il numero di arrivi diminuì in seguito alla stabilizzazione di Iran e Afghanistan, specialmente con l’entrata in gioco delle forze statunitensi. Inizialmente questo diede adito a un sentimento di speranza. Ma, naturalmente, sappiamo tutti che a lungo termine il processo ha provocato l’implosione dell’Iraq. Sebbene i numeri fossero esigui, all’inizio chi arrivava tendeva già a dipendere dai trafficanti dei barconi, con il risultato di un aumento delle morti in transito già all’inizio degli anni 2000.

Poi, nel 2011, i numeri aumentarono nuovamente e divenne molto più complicato valicare i confini di terra, circostanza che portò ad una massiccia corsa all’uso delle barche, in particolar modo dalla Turchia alle isole greche nel Mediterraneo orientale. Questo ha fatto sì che gli arrivi siano più plateali e anche molto più drammatici, alimentando la percezione generale di una migrazione fuori controllo e di milioni di persone sul punto di varcare le soglie dell’Unione Europea. Sappiamo che non è così: ma anche questo costituisce una discrepanza con con gli anni Novanta.

C’è poi un quinto fattore che ha un impatto considerevole sul dibattito contemporaneo, ovvero essenzialmente il modo in cui le polemiche sui rifugiati vengono confuse con le polemiche sull’integrazione di lavoratori stranieri, specialmente dall’Algeria alla Francia, dal Marocco ai Paesi Bassi e al Belgio, dalla Turchia alla Germania, eccetera.

In quanto storico dell’immigrazione, mi sento di dire che è importante evidenziare le conseguenze in materia di riunificazione familiare di tali gruppi. In principio questi lavoratori partivano con l’intenzione di restare soltanto per un breve periodo. Tuttavia, dal 1973 in poi, a causa dello shock dei prezzi del petrolio e dell’inizio della recessione, tutti i Paesi che avevano accolto i lavoratori ospiti decisero di porre fine a questi programmi [di accoglienza, NdT] e di chiudere le frontiere.

Questo ebbe però l’effetto opposto, poiché trasmise il messaggio che, qualora i lavoratori avessero lasciato il Paese ospitante, non avrebbero più potuto farvi ritorno. Iniziarono perciò a sfruttare diritti sociali e legali (welfare state, riunificazione residenziale e familiare), che loro stessi avevano costruito, per portare con sé il proprio nucleo familiare.

A posteriori, osserviamo che portare con sé i membri della propria famiglia al fine di trasferirsi in pianta stabile ebbe luogo in un momento poco propizio, come si discute in un recente articolo del Journal of Modern History. Il momento era sbagliato poiché coincideva proprio con l’inizio della recessione e queste persone lavoravano in settori come quello tessile e dei metalli, che chiusero i battenti a causa della competizione globale con il Sud e l’Est asiatico. L’immediata conseguenza fu il massiccio insediamento di persone che erano state selezionate per la loro bassa qualifica, molte delle quali avevano perso il lavoro poco dopo l’arrivo delle proprie famiglie.

Potevano pertanto permettersi di vivere soltanto nelle aree più arretrate delle città europee, incluse le “banlieues” di Parigi e Lione. Era questo il momento in cui il processo di integrazione avrebbe dovuto iniziare, ma — col senno di poi — possiamo concludere che questa situazione era destinata a generare una serie infinita di problemi sociali (e culturali). Tutto ciò era inevitabile. Quest’inaspettato flusso di immigrazione condusse a ciò che si può definire una sorta di “trauma dei lavoratori ospiti” nelle menti dei politici, dei governanti, ma anche di parte della popolazione.

Scaturì inoltre in un’immediata associazione dell’immigrazione con problemi culturali e sociali, specialmente – lo spieghiamo nell’articolo “The Strange Death of Dutch Tolerance” (“La strana morte della tolleranza olandese”, NdT) – dopo il “caso Rushdie” quando, in Olanda e in altri Paesi europei, la pubblicazione e la diffusione del romanzo di Salman RushdieI versi satanici” (1988) sfociò in proteste da parte dei cittadini musulmani che chiedevano la messa al bando del libro.

Divenne evidente che una parte di questi lavoratori ospiti e i loro figli iniziavano a sviluppare sentimenti di intolleranza verso la libertà di stampa, i diritti delle donne e gli omosessuali. Non sono problemi insormontabili, e non sono da associare esclusivamente ai migranti. Sono state invece dipinte come questioni relative alla natura dell’Islam e degli immigrati, che non erano ancora visti come il resto della popolazione nativa.

Gli attriti e i problemi reali, così come l’immaginario anti-immigrati, rivestono un ruolo importante nell’attuale dibattito sui richiedenti asilo. E ciò è spiacevole perché, come dimostrano studi sui richiedenti asilo degli anni Novanta, i lavoratori ospiti appartengono a diversi gruppi, specialmente quando si tratta del capitale umano e delle pratiche religiose. Inoltre, molti discendenti dei lavoratori musulmani sono molto meglio integrati di quanto si creda.

Nell’insieme, questi fattori hanno condotto a forti tensioni generate da un mix tossico di elementi, diversamente dagli anni Novanta. E questo mix è ciò che principalmente causa il panico che vediamo in molte persone quando si parla di rifugiati.

Si può annoverare tra quelli già elencati anche un sesto fattore: la paura del Terzo Mondo che arriva da noi, causato dal profondo divario tra ricchi e poveri, ma anche dal cambiamento climatico, spesso menzionato come qualcosa che costringe milioni e milioni di persone dell’Africa o dell’Asia meridionale a riversarsi in Europa.

Questo elemento, per giunta, porta alla diffusa credenza che, sebbene la gente pensi che i rifugiati vadano aiutati, debbano però essere fermati prima che l’Europa venga inondata.

FT: Attraverso i secoli, gli stessi europei sono stati migranti che si muovevano all’interno del continente o, ad esempio, verso l’America o l’Australia. A dispetto di questo, come può spiegare la totale assenza di consapevolezza storica che sembra caratterizzare la società europea?

LL: Questo è vero ed è in parte spiegato dall’ideologia dello Stato-nazione che abbiamo ereditato dal diciannovesimo secolo e che è profondamente radicato nel nostro DNA culturale. Secondo tale ideologia nazionalista, gli abitanti di uno Stato-nazione dovrebbero, in teoria, condividere lo stesso linguaggio, la stessa religione ed essere etnicamente omogenei. L’ideologia che sta alla base dello Stato-nazione presuppone a grandi linee che la maggior parte della popolazione non si sposti e che l’immigrazione costituisca un problema. Ne consegue che, in un mondo ideale, le persone stiano ferme in un posto e che se qualche straniero si trasferisce da un altro Paese debba essere integrato il prima possibile.

Una delle conseguenze di questa ideologia è che non vi è una reale consapevolezza della diversità delle popolazioni “native”. Nella maggior parte dei Paesi basta tornare indietro di una, due, o tre generazioni per trovare una vasta fetta di popolazione con un passato di immigrazione. Nei Paesi Bassi, se si guarda alle generazioni precedenti, il 90% della popolazione ha alle spalle una storia di immigrazione. In altri Paesi la percentuale è un po’ più bassa, come nel caso del Regno Unito (fatta eccezione per gli immigrati del diciannovesimo secolo). Ma ciò che è interessante riguardo al Regno Unito è che molti britannici divennero migranti all’interno del loro stesso impero coloniale. Sono coloro a cui mi riferisco con il nome di “migranti organizzati”, dal momento che erano spinti a migrare dalle organizzazioni di cui facevano parte — ad esempio l’esercito, le compagnie commerciali, il governo o le chiese. Ad esempio, l’autista del taxi britannico che mi ha portato qui dall’aeroporto, è stato in Corea e in Egitto con l’esercito.

FT: E questo non riaccende la questione sul vero significato di “migrazione” nel dibattito contemporaneo?

LL: Certamente. Uno dei principali problemi riguardanti il dibattito sulle migrazioni è che adotta una visione miope e limitata. Ciò che voglio dire è che, per i più, i “migranti” sono uomini e donne che provengono da diversi Paesi e diverse culture e che si stabiliscono in maniera permanente nonostante le loro modeste competenze. Questa è anche la ragione per cui abbiamo sviluppato categorie come “expats” e “migranti occidentali”, in modo tale da escluderle dai migranti “reali” (e presumibilmente problematici). Di conseguenza, raramente ci soffermiamo sull’immigrazione in quanto tale: spesso non ci accorgiamo nemmeno del fluire di una parte consistente della reale immigrazione, e questo alimenta il perpetuarsi del concetto di “immigrazione come problema”.

FT: In questo contesto, può una conoscenza del passato chiarire e ampliare la nostra idea di “migrazione”?

LL: Negli ultimi 10-15 anni, insieme a mio fratello Jan — anche lui storico — abbiamo sviluppato un approccio ispirato a nuovi concetti nella Storia mondiale. Insieme abbiamo introdotto una tipologia di immigrazione molto diversa, che non è dominata dalla definizione di Stato-nazione, ma contempla anche movimenti interni e temporanei.

L’approccio teorico che abbiamo adottato— che abbiamo chiamato “migrazione cross-culturale” — è imperniata sull’idea che i confini nazionali non costituiscano l’unico valico culturale. Se si va indietro nel tempo, per esempio nell’Europa dell’Età Moderna, i confini politici erano molto meno importanti. Un altro genere di confine era considerato importante dal punto di vista culturale.

Distinguiamo perciò quattro tipi di migrazione: uno è la migrazione dalle campagne alle città, poiché costituiscono due realtà molto diverse tra loro. Le differenze tra vivere in villaggi vicini anziché nelle città avrebbe potuto essere un vantaggio, nonostante il breve viaggio dall’uno all’altro. Spostarsi in città significava lasciarsi alle spalle una società faccia-a-faccia e dominata dalle famiglie ed entrare a far parte di in luogo molto più anonimo e guidato dalle istituzioni.

Il secondo confine è oltrepassato da persone che si muovono da un ambiente ecologico molto diverso, da una terra all’altra, specialmente come parte di una relazione di tipo coloniale. Un terzo tipo è rappresentato dalle migrazioni stagionali. Per lungo tempo, nel pieno del diciannovesimo secolo, molte persone intraprendevano un pellegrinaggio annuale da regioni autarchiche, come le montagne e le isole, verso zone altamente commercializzate, tornando a casa arricchiti da molte nuove idee ed eventualmente capitali. Infine, la quarta categoria è rappresentata da quelli che ho definito migranti organizzati”.

Semplificando, per spiegare cos’è l’immigrazione e quali sono i sui suoi effetti sulla società, dobbiamo adottare una prospettiva molto più ampia e non ricreare l’ottusa definizione di immigrazione suggerita dall’ideologia dello Stato-nazione, un’ideologia che ovviamente si riflette anche nelle statistiche.

FT: Nel suo articolo “The Strange Death of Dutch Tolerance” esplora le ragioni alla base del mutato atteggiamento degli olandesi verso l’immigrazione, sostenendo che la tempistica di tale mutamento (2000) è dovuta al disfacimento del concetto di “politicamente corretto” legato alla rivoluzione etica degli anni Sessanta e Settanta, e ai sensi di colpa a seguito della deportazione degli Ebrei. Questi fattori hanno plasmato il dibattito politico dei decenni precedenti. Ma i Paesi Bassi non sono i soli a vivere questo nuovo sentimento nei confronti dell’immigrazione negli ultimi vent’anni. Mi riferisco in particolare alla Danimarca, sebbene anche in altri Paesi del Nord Europa sia stato intrapreso lo stesso percorso. Pensa che si giungerà a considerare come un’aberrazione un’attitudine tollerante e costruttiva verso l’immigrazione, come quella che ha caratterizzato gli ultimi tre decenni?

LL: E’ difficile da dire, siamo nel bel mezzo di questa fase e per un’appropriata analisi storica c’è bisogno di più tempo. Comunque sì, al momento è così che appare.

Tuttavia, ci sono anche forze contrastanti. Se si considerano i Paesi Bassi, ad esempio, il partito populista di Geert Wilders – PVV, Partij voor de Vrijheid, Partito per la libertà, NdT] – coinvolge soltanto il 16% dell’elettorato ancora oggi. E in Francia, Macron dimostra che puoi avere successo anche con un’agenda politica europeista. Penso che non dovremmo sottovalutare la resistenza della società e il desiderio di molte persone di un messaggio più ottimistico.

Non è perciò inconcepibile che negli anni a venire potremo vedere le forze opposte prendere il sopravvento. Persino in Germania l’AFD [Alternative für Deutschland] non va tanto bene, nonostante il fatto che viviamo in un periodo caratterizzato dal terrorismo islamico.

Come si svilupperanno le cose dipenderà principalmente da quanto i politici saranno in grado e avranno la volontà di mobilitare l’elettorato in maniera diversa e mandare un messaggio più positivo e inclusivo. Si vedrà, in ogni caso non me la sento di essere eccessivamente pessimista.

FT: In fin dei conti, Trump e Brexit potrebbero avere un effetto positivo sulla politica europea, se non altro aiutando lo sviluppo di queste “forze contrastanti”?

LL: Da questo punto di vista l’elezione di Donald Trump ha avuto anche effetti postivi dal momento che dimostra a molti europei che cosa significa mandare al governo populisti estremi! Potrebbe addirittura aver contribuito alla sconfitta del partito populista nei Paesi Bassi durante le elezioni degli scorsi mesi. Per quanto riguarda la Brexit invece, non è chiaro quale saranno i suoi effetti a lungo termine.

Carolina Carta

Carolina Carta ha recentemente acquisito il Master in Giornalismo all’Università di Groningen (Olanda) e ha da poco concluso un tirocinio presso Voci Globali. Con le radici in Sardegna ma lo sguardo sul mondo, ha deciso di dare una svolta alla sua carriera accademica e professionale attraverso il tirocinio in Ghana. I suoi interessi spaziano dai diritti umani alla salute mentale; ha sempre un occhio di riguardo per le questioni di genere e i diritti delle donne.

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