21 Novembre 2024

Sebastiana Kespi, “tesoro vivente” della cultura Uru Chipaya

Proprio alcuni giorni prima del conferimento del premio al valore culturale “Gunnar Mendoza” (Premio Gestión Cultural – 2016) presso il ministero di Cultura e Turismo di La Paz, abbiamo incontrato Sebastiana Kespi protagonista del film ¡Vuelve, Sebastiana! (1953), considerata “Tesoro Humano Viviente”. In riconoscimento del suo lavoro con il regista Jorge Ruiz, e la seguente rivalorizzazione della cultura Uru Chipaya, Sebastiana è tuttora un’autentica rappresentante della comunità Chipaya per il suo pueblo, la Bolivia, un continente intero.

La stessa notte del 30 marzo 2017 un’altra grande rappresentante della cultura boliviana, la poetessa Matilde Casazola, ha ricevuto il Premio Nacional de Culturas – 2016. Di seguito, il racconto di quell’incontro molto speciale.

Fotogrammi tratti dall’intervista a Sebastiana Kespi, svolta alcuni giorni prima del premio “Gunnar Mendoza” (Premio Gestión Cultural – 2016), consegnatole presso il ministero di Cultura e Turismo di La Paz, Bolivia.

Un’intervista programmata visionando la pellicola di Ruiz con la sensazione di ritornare al corso universitario di antropologia visiva e ai classici del cinema etnografico: Nanuk, di R.J. Flaherty; Les maîtres fous, di J.Rouch; Trance and Dance in Bali, di M.Mead e G.Bateson. Questa volta, però, con l’opportunità unica di conoscere personalmente una protagonista vivente di un’antichissima cultura andina.

Servono dalle 6 alle 8 ore di viaggio in fuoristrada per giungere a Chipaya da La Paz (circa 430 km), passando per le trafficatissime strade asfaltate di El Alto fino ad Oruro (famosa città del carnevale dichiarato patrimonio UNESCO), e dal tratto sterrato che da Huachacalla porta al pueblo, posto nel deserto dell’altipiano in prossimità della frontiera con il Cile, a 3687 metri d’altitudine. L’arrivo in nottata, colti dalle rigide temperature e dal forte vento che spazza il cielo andino lasciando ammirare una magnifica Via Lattea.

L’antica chiesa e le case tradizionali presso Ayllu (distretto) Wistrullani, una delle quattro sezioni di cui è composta la comunità indigena nativa Chipaya (dipartimento di Oruro, Bolivia).

La mattina seguente, preparando l’intervista, la voce di una collaboratrice richiama la mia attenzione. “È arrivata la Sebastiana! È arrivata la Sebastiana!”. Quasi verso la tazza di caffè, mi precipito alla porta, la curiosità è troppo grande. L’abbiamo cercata da diverso tempo e infine eccola, al fondo della scalinata di cemento che porta alla cucina, piegata sul corrimano, senza l’ausilio di un bastone. Lei è stata la protagonista del celebre film del 1953 di Jorge Ruiz che porta il suo nome: ¡Vuelve, Sebastiana!.

Il suo incedere affaticato, sormontato da un invidiabile sorriso inattaccato dagli anni di dura vita contadina, attira curiosità. “Ci vediamo tra qualche minuto, voglio fare una foto con mio nipote”, mi comunica dopo una breve presentazione. Scendo le scale e l’attendo pazientemente, seduto su un mattone di adobe (materiale usato per costruire le case del villaggio, composto di fango, sabbia e paglia) posto all’angolo tra la piazza principale e una via allagata dalla pioggia notturna. Nell’attesa, rivedo gli appunti raccolti e provo a realizzare l’importanza di questa rappresentante della cultura Chipaya nonché, in parte, della storia del cinema.

La pellicola di Ruiz, tuttora conosciuta e molto popolare in Bolivia, fu il risultato finale di una lunga ricerca sul territorio boliviano di cui ricordiamo Viaje al Beni, girata nell’omonimo dipartimento, Donde Nació un Imperio, prodotto sul Lago Titicaca, fino a Los Urus (1951), documentario dedicato a questa etnia. Ma è proprio con Vuelve Sebastiana che Ruiz nel 1956 vinse il Primer Premio del Festival de Cine de la Alcaldía Municipal de La Paz e, di seguito, riscosse grande successo presso il II Festival Internacional de Cine Documental y experimental in Uruguay. Fu, in assoluto, la prima pellicola boliviana ad ottenere un riconoscimento internazionale. Lo stile innovativo per l’epoca, all’interno della documentaristica etnografica, si rivelò la svolta decisiva nella carriera del regista di Sucre.

Ogni lunedì, i ragazzi e le ragazze della scuola primaria e secondaria di Chipaya si vestono con gli abiti tradizionali della cultura nativa.

Dopo quaranta minuti di attesa e lettura, ecco ritornare Sebastiana, dal fondo di una via perpendicolare facendosi largo tra le pozze d’acqua ed il terreno scivoloso. Penso subito di filmare quella camminata che, seppur priva di tappeto rosso, trombe o petali di rosa, è degna di nota. “Mio nipote non è voluto venire, andiamo!”, riferisce gentilmente. Le propongo di parlare in un vicino posto all’ombra: è mattina, ma il sole già picchia violentemente nell’azzurro cielo dell’altipiano andino.

Comincio a togliere i tappi dagli obbiettivi delle macchine fotografiche e mi sincronizzo con Maria, intervistatrice e coordinatrice di un progetto di cooperazione con la comunità, sulle domande da fare e i tempi di registrazione. Iniziamo il lavoro in un clima informale, al centro della piazza principale del pueblo. Tuttavia, in pochi minuti si crea un capannello di curiosi, in maggioranza i giovani della vicina scuola primaria e secondaria, attirati dall’insolito evento: un piccolo set cinematografico, in cui Sebastiana pare trovarsi a proprio agio di fronte una camera seppur siano passati molti anni.

Doña Sebastiana intervistata da Maria Lujan, coordinatrice del progetto GVC “Hombres del Agua”.

Cosa si ricorda della realizzazione della pellicola? Chi era il giovane ritratto con lei nel film?” domanda Maria, rompendo il ghiaccio. “Mi ricordo alcune cose, certo…il giovane è Paulino Lupi, la sua casa è qui vicino. Si può incontrare nel villaggio, è ancora vivo.” –Dopo il film ha viaggiato in Europa, è andata a Parigi…”. Da questo lato, il volto della Sebastiana appare in tutta la sua longevità, velato da una profonda malinconia quando sono passati in rassegna i ricordi del viaggio in Francia. “Fui a passejar”, “sono andata a passeggio”, risponde con fierezza riferendosi a quel suo eccezionale gesto che la rese una protagonista del cinema internazionale, seppur per breve tempo, partendo da una piccola comunità di duemila persone dall’altro lato del globo.

“Andai con i miei vestiti, le mie trecce…” ricorda Sebastiana. “Cosa le dicevano i francesi a Parigi? Le facevano molte domande?” approfondisce Maria, mentre io cerco d’immaginarmi una bambina Chipaya catapultata in una metropoli europea negli anni Cinquanta. “Si, molte domande…mi è piaciuta molto la Francia. Ci sono andata in aereo…”, risponde timidamente, cercando di afferrare una lontana gioventù.

Ha del bestiame?” – “Sì, poco. Coltivo quinoa e cañahua. I miei figli mi aiutano nelle attività agricole. Produciamo anche piccole quantità di formaggio”. Non manca di parlarci delle difficoltà economiche, per le quali “mio figlio mi aiuta”, con l’incessante e reiterato desiderio – quasi un sussurrato mantra – di voler “tornare a La Paz”.

Sebastiana Kespi, considerata “Tesoro Humano Viviente” in riconoscimento del suo lavoro con il regista Jorge Ruiz.

“Quanti anni ha, Doña Sebastiana?”, indaga Maria, “Sono nata nel 1946, il 26 marzo.” – Ha dei nipotini? Hanno visto il film di cui è protagonista?” – “Ho quattro nipoti, di cui mi prendo cura. Non conoscono il film, sono ancora piccoli.” – “Partecipa ancora al carnevale di Chipaya?” – “Sì, partecipo. Si balla. Così come la festa di Sant’Anna di Chipaya, il 26 di luglio, con la banda musicale ‘Tarqueada Los Urus’.”- “Qual è il suo messaggio per i giovani di Chipaya?”, domanda Maria. “I giovani Chipaya non si mettono più i vestiti tradizionali…preferiscono vestirsi in questa maniera (occidentale). Li usano solo in alcune occasioni, poi se li tolgono rapidamente.” – “Nella sua famiglia ancora parlano Chipataku? (lingua nativa Uru Chipaya)” – “Si, la parlano tutti, anche i miei nipotini…”.

Le nuove generazioni del villaggio tradizionale migrano molto giovani seguendo le proprie famiglie o parte di esse in Cile, ove le opportunità di lavoro ed educazione sono maggiori. Il rischio, sottolineato anche dalle parole di Sebastiana, è che la cultura Chipaya scompaia poco a poco o cambi radicalmente, perdendo le sue caratteristiche riconoscibili (dai vestiti alle tecniche agricole, dalla lingua alla struttura comunitaria nella gestione politica), attraverso un processo sincretico e la forte influenza dei prodotti del mondo globalizzato.

Nonostante ciò, bisogna ricordare che questa popolazione di circa 2000 abitanti ha un’origine antichissima: risaliamo al 2500 A.C., ovvero tra le più antiche del continente americano, molto precedenti alla cultura Quechua, Aymara, al processo di colonizzazione e alla creazione degli Stati nazionali. In questo lunghissimo arco di tempo, la capacità di resistere e mantenere i tratti della propria cultura è stato ed è tuttora qualcosa di unico. Per questa ragione, non credo che nessuna t-Shirt, film di Hollywood o cappellino da baseball potrà cancellare la comunità Chipaya. Questo legame con la terra natìa, così forte e viscerale, è ben riassunto dal cartello di apertura del cortometraggio di Ruiz: “De la Tierra Madre surge todo. Todo se hunde en la Madre Tierra” (Fernando Diez de Medina). Ovvero, “dalla Madre Terra tutto nasce, tutto torna alla Madre Terra.”

Rituale alla Pachamama (Madre Terra), messo in atto per chiedere aiuto alla stessa col fine di contrastare una piaga che affettò le piantagioni di quinoa in Chipaya (aprile 2017).

“I suoi nipotini studiano in Cile o in Chipaya?” – “Studiano qui a Chipaya. Io un tempo andavo in Cile, a Iquique, per lavoro. Restavo due o tre mesi, mi trattavano bene. Volevano mi fermassi in Cile. Molti emigrano per guadagnare denaro.” – “La gente che va in Cile rimane o torna al pueblo?” – “Tornano dopo aver guadagnato, per mantenere i figli. Hanno ancora dei terreni qui, ove coltivano quinoa”.

 “Ci sono stati dei cambiamenti in Chipaya? In che modo?”– “La scuola è migliorata, ma i giovani non vogliono vestirsi con gli abiti tradizionali, ma così…” risponde nuovamente, questa volta indicando con l’indice i giovani riunitisi in cerchio attorno al piccolo set. “Allo stile occidentale”, commenta Maria, con un sorriso da parte di entrambe. “Un tempo non c’era il cibo che abbiamo oggi, come pasta e riso. Sono cresciuta solo con pito de quinua e cañahua.” -“Questa dieta tradizionale, queste piante andine, sono sufficienti per mantenerla in salute?”“Sì, sto bene. Mi curo solo con coca-mate o con la lampaya, che mi aiuta molto”.

Dopo venti minuti di intervista, Sebastiana mi pare un poco stanca. La fotocamera non sembra infastidirla, ma nemmeno metterla a suo agio. Vorrei porle molte domande sulla sua vita quotidiana negli anni che seguirono il film, ma è bene rimandare. “¡Muchas gracias!” suggerisco dall’altro lato, con una messa a fuoco sul suo volto. “Grazie mille, Doña Sebastiana, per averci parlato dei suoi ricordi e della cultura Chipaya. Torneremo a trovarla sicuramente!” termina Maria. Sebastiana ci ringrazia timidamente, con un semplice sorriso, già pronta a tornare dai suoi nipotini. Spero di poter dialogare con lei molto presto, e di scattare quella foto con i suoi nipoti che mi ha domandato questa mattina.

Doña Sebastiana con sua figlia ed i suoi nipoti presso il villaggio tradizionale Chipaya.

Alcuni mesi dopo il nostro primo incontro, in occasione delle importanti elezioni per il processo di Autonomia Indigena Chipaya (22 luglio 2017), sono riuscito a scattare e a donare la foto tanto desiderata da Sebastiana.

[Questa intervista è stata realizzata all’interno del progetto “Qnas Soni – Hombres del Agua” (ovvero “gli uomini dell’acqua”, come si autodefinisce da secoli questa popolazione nativa indigena del dipartimento di Oruro) gestita dalla ONG italiana GVC (Gruppo di Volontariato Civile) in collaborazione con Cebem (Centro Boliviano de Estudios Multidisciplinarios), nel quadro dell’iniziativa EUAidVolunteers finanziata dalla Commissione Europea. Il progetto ha l’intento di creare una microeconomia locale sostenibile attraverso lo sviluppo turistico su base comunitaria, facente capo ad un albergo gestito dalla popolazione con l’appoggio della municipalità Chipaya e delle organizzazioni coinvolte.]

Michele Pasquale

Laureatosi presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi in antropologia visiva ed etnologia dell’Africa, ha fatto ricerca e creato foto e video reportage negli USA, Ruanda, Brasile, Guinea Conakry, Senegal, Indonesia, Colombia, Mongolia, Balcani Occidentali, Bolivia, Haiti e Sudan.

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