[Traduzione a cura di Stefania Gliedman dall’articolo originale di Moritz Pieper pubblicato su The Conversation]
Negli affari internazionali vince chi è più credibile. Diplomazia e pubbliche relazioni sono separate da una linea tanto sottile quanto quella che esiste tra comunicare una certa politica e saperla vendere. Ne sono la prova i toni di esasperata polarizzazione con cui si discute dei ruoli di Russia e Occidente nell’ordine mondiale.l
Troppo spesso summit decisivi si trasformano in battaglie semantiche, dipingendo quello che a oggi dovrebbe essere l’ordine mondiale. Se da un lato la Russia ha in mente l’assetto postbellico concordato alla Conferenza di Jalta nel 1945, l’Occidente tiene fede all’Accordo di Helsinki del 1975 e alla Carta di Parigi, che tra l’altro sancisce il mutuo rispetto dei confini da parte dei Paesi europei.
Alla luce di tali premesse, l’Occidente accusa la Russia di considerare la sovranità degli Stati vicini come un concetto opinabile. La Russia di Putin, come evidenziato da alcuni osservatori, è l’unico vero Stato sovrano che, a differenza dei Paesi vicini, gode di vera indipendenza. In questa logica, una “nuova Jalta” servirebbe esclusivamente a stabilire quale tra i due poteri sovrani (Russia e Stati Unti) avranno la meglio nel dibattito per la decisione dei confini. A tale scopo la Russia fomenterebbe dei “conflitti latenti” per mantenere un certo livello di “instabilità controllata”. Si spiegherebbero così il supporto ai separatisti in Transnistria (l’enclave russofona in Moldova), la separazione delle province georgiane di Abcasia e Ossezia del Sud a seguito della guerra russo-georgiana del 2008, l’annessione della Crimea nel marzo 2014, nonché l’appoggio ai separatisti dell’Ucraina orientale.
Molti Paesi occidentali vedono la Russia come un elemento disturbante nell’ambito degli affari internazionali, il cui unico obiettivo è destabilizzare “l’ordine mondiale regolamentato”. Nonostante le ripetute prese di posizione della Russia in favore di un sistema regolamentato, fondato sull’integrità territoriale in un mondo multipolare, l’applicazione selettiva di questa “integrità territoriale” nei confronti dei Paesi vicini è segno di un’incongruenza di intenti.
Pur ammettendo di aver violato gli accordi bilaterali con l’Ucraina, la Russia non riconosce alcuna trasgressione dell’ordine internazionale sancito nel 1945; al tempo stesso, accusa l’Occidente di usare la “promozione della democrazia” e gli “interventi umanitari” come pretesti per un cambio di regime, di aver fomentato le “rivoluzioni colorate” (quella delle rose in Georgia nel 2004, quella arancione in Ucraina nel 2005), di averla “umiliata” e “isolata”, ignorando gli accordi orali degli anni ’90 che, a quanto pare, la NATO non avrebbe intenzione di estendere a Est. Alle accuse di violazioni delle leggi internazionali, la Russia risponde di norma rispolverando le inottemperanze da parte dell’Occidente riguardo i dettami del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in particolare il bombardamento illegale della Serbia nel 1999, l’invasione illegale dell’Iraq nel 2003, e il tentativo di giustificare il cambio di regime del 2011 in Libia come un assolvimento dell’”obbligo di garantire protezione”.
Ognuna delle due parti accusa l’altra di alimentare una “guerra d’informazione” seminando “disinformazione“. L’Occidente rinfaccia alla Russia infami e inedite forme di “guerra ibrida” mentre la Russia rimprovera all’Occidente di fomentare sentimenti anti-russi, spesso divulgando una rappresentazione ingannevole di quelli che sarebbero invece i normali rapporti tra governo e media in una società civile aperta.
L’inizio di un’era “post-occidentale”
Il proliferare di timori riguardanti una possibile risovietizzazione delle aree postsovietiche riflette una carenza di studi settoriali approfonditi sulla Russia. La crisi ucraina del 2014 ha colto di sorpresa accademici e ricercatori, che avevano fino a quel momento concentrato la propria attenzione altrove.
Tuttavia l’Occidente non è certo un blocco unito, come dimostrano le incursioni in ambito di diplomazia internazionale del presidente Trump. Corrono tempi di grande incertezza, non solo per i rapporti di Europa e Stati Uniti con la Russia, ma per le stesse relazioni transatlantiche, in parte a causa dei segnali contraddittori sul futuro della NATO e del multilateralismo in generale lanciati dall’amministrazione Trump.
Se – come Trump stesso ha lasciato intendere – gli Stati Uniti decidessero “scendere a patti” con la Russia, barattando l’abolizione delle sanzioni con concessioni riguardanti la riduzione delle armi nucleari, la posizione della UE riguardo le stesse sanzioni verrebbe seriamente compromessa. “Lo stretto di Bering è largo solo 4 chilometri. Questa è la distanza che ci separa“. Sono le parole pronunciate dal ministro degli Affari Esteri russo Sergey Lavrov alla conferenza sulla sicurezza, tenutasi a Monaco all’inizio di quest’anno. Oltre a sottolineare la “particolare responsabilità” degli Stati Uniti e della Russia negli affari mondiali, Lavrov ha indicato il bisogno di un coordinamento delle politiche su Afghanistan, Libia, Siria, Yemen, traffico di droga e “conflitti in Europa”.
Idealmente la cooperazione e l’impegno su singole problematiche vanno di pari passo con incontri in svariati ambiti. Purtroppo – e a torto – la maggior parte dei Governi europei ha invece sospeso ogni interazione di alto livello (incluse le cooperazioni militari) con la Russia, a seguito della crisi ucraina del 2014, per cui ora sulle motivazioni che muovono le politiche russe si possono fare solo speculazioni. Anche i lavori del Consiglio NATO-Russia sono stati interrotti.
Gettare ponti
In un contesto tale spiccano le conferenze e gli scambi nell’ambito della diplomazia informale (o track II) che permettono a esperti e funzionari da entrambe le parti di incontrarsi e discutere sulle differenze tra i propri Paesi con quell’apertura e quella franchezza che ai Governi non sono consentite. A queste conferenze professionisti che lavorano con la Russia o si interessano di questioni russe hanno modo di incontrarsi faccia a faccia: l’ho provato di persona nel febbraio 2017, partecipando a un corso per giovani leader sulla diplomazia pubblica organizzato dal PICREADI Center.
Il dialogo favorisce l’apprezzamento del pensiero altrui, attenuando i contrasti. Anche se da un lato gli scambi possono generare disagio, rimangono indispensabili nella risoluzione dei dissensi e nella ricerca di nuovi terreni su cui far crescere la collaborazione per risolvere altre questioni, dalle borse di studio alla conservazione dell’accordo nucleare iraniano. Per questo motivo il comitato per gli Affari Esteri del Parlamento britannico ha sollecitato lo sviluppo di una strategia non-governativa, “people to people”, per gettare le basi di un dialogo con le nuove generazioni di leader politici ed economici russi.
È proprio a questa consapevolezza che allude Samantha Powers, ex Rappresentante permanente degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, nel necrologio per l’ambasciatore russo alle Nazioni Unite Vitaly Churkin, uno dei suoi più noti avversari politici. Ecco le sue parole: “Dobbiamo assolutamente fare del nostro meglio per instaurare dei rapporti individuali con i russi, che sono tanto complessi e contraddittori quanto lo siamo noi.”
Un monito molto importante in un momento in cui l’alienazione a livello politico non genera altro che retorica vuota, come l’invito di Theresa May a “dialogare, ma con cautela”. Al fine di evitare che l’alienazione politica comprometta per generazioni i rapporti tra società civili, è fondamentale favorire l’incontro e il dialogo tra esperti russi e occidentali. L’interazione è necessaria, non tanto come contrapposizione alle teorie discutibili sullo scontro tra società civili in seno all’ordine mondiale, quanto come strumento per smascherarle e demolirle.