22 Novembre 2024

Cambiamento climatico, una minaccia per i diritti umani

[Traduzione a cura di Luciana Buttinidall’articolo originale di Stephen Humphreys pubblicato su openDemocracy]

Per comprendere le immense implicazioni del cambiamento climatico sui diritti umani si possono leggere i rapporti elaborati dal Potsdam Institute, Abbassiamo la temperatura. Partendo dalla constatazione che, a meno che molto presto non accada qualcosa di straordinario, le temperature medie globali probabilmente prima del 2100 aumenteranno di 4°C rispetto ai livelli preindustriali – ovvero un numero ben al di sopra dell’obiettivo internazionale di 2°C –  i rapporti documentano il conseguente dramma. Questi rapporti, come la maggior parte degli studi sul cambiamento climatico, non si riferiscono specificamente ai ‘diritti umani’ ma raccontano in sostanza quello a cui stiamo andando incontro. Le ondate di calore estreme ( si pensi alla Russia nel 2010) potrebbero diventare “la nuova estate normale“. Ai tropici, la temperatura sarà oltre “il campo di temperatura reale e gli estremi a cui gli ecosistemi umani e naturali si sono adattati e hanno resistito“. Infatti gli autori dicono che con un aumento di 4°C la vita nei tropici non sarà più possibile.

Espresso in termini di diritti umani, i rapporti descrivono in dettaglio i rischi per il diritto al cibo (il crollo della produttività, dei redditi provenienti dalle esportazioni, improvvisi shock dei prezzi); per la salute (un notevole aumento della mortalità, della malnutrizione, delle malattie diarroiche e delle terribili malattie trasmesse da vettori – come la febbre dengue, la Chikungunya e la malaria); per l’acqua (in Medio Oriente “l’aumento della domanda di acqua di irrigazione sarà difficile da rispettare a causa della contemporanea diminuzione della disponibilità d’acqua“); per il lavoro (“poiché i livelli di stress da calore possono avvicinarsi ai limiti fisiologici delle persone che lavorano all’aperto e compromettere gravemente la produttività del lavoro regionale“); per l’abitazione (“negli ultimi anni gli edifici non a norma sulle pianure alluvionali e i pendii ripidi sono stati gravemente colpiti da inondazioni e frane“); e per la stessa vita umana. Le persone povere sono le più vulnerabili e il loro numero è destinato a crescere: “gli impatti e le sollecitazioni legate al cambiamento climatico possono compromettere la riduzione della povertà e spingere in miseria nuovi gruppi di persone.

Negli ultimi dieci anni circa, i gruppi per i diritti umani, gli attivisti e gli studiosi si sono gettati a capofitto nella politica del cambiamento climatico. Sappiamo molto sulle proporzioni dei diritti umani circa il cambiamento climatico oggi, ma non è ancora chiaro che cosa, semmai, ha da proporre la legislazione relativa ai diritti umani.

Infatti ci può essere un ruolo secondario per le controversie strategiche in cui le vittime del clima si trovano in Paesi ad alte emissioni caratterizzati da solidi sistemi giudiziari. Per esempio, i diritti umani facevano parte dell’argomento, se non della sentenza, del caso Urgenda nei Paesi Bassi recentemente risolto con successo. Tuttavia vista la complessità politica e scientifica, c’è poco nella storia dei diritti, che in caso di controversia, avrebbe dato grande motivo di speranza, perfino in questi scenari. Più precisamente, la stragrande maggioranza delle vittime del clima si troverà – o per meglio dire già si trovano – in Paesi che hanno contribuito relativamente poco a creare il problema. Lì le Corti non avranno il potere né di procurarsi risarcimenti là dove sono giustamente dovuti, né tanto meno di richiedere ai principali responsabili dell’emissione di carbonio di cessare le loro attività dannose.

Pertanto l’attivismo per i diritti umani ha cercato altri punti d’ingresso per far fronte al cambiamento climatico. Inoltre sentiamo molto parlare del diritto di informazione circa gli impatti ambientali (come è garantito nella Convenzione di Aarhus), e alcuni riferimenti ai diritti delle persone indigene nell’ambito del REDD+  (un programma delle Nazioni Unite basato sui cosiddetti Pagamenti per Servizi Ecosistemici con il fine di ridurre le emissioni provenienti dalla deforestazione e dal degrado delle foreste nei Paesi in via di sviluppo). In questo contesto abbiamo visto la macchina delle Nazioni Unite per la difesa dei diritti umani entrare rapidamente in azione. Il cambiamento climatico è sempre più  evocato all’interno della Revisione Periodica Universale (UPR), in molte Procedure Speciali, c’è anche un nuovo Esperto Indipendente per la difesa dei Diritti Umani e dell’Ambiente e perfino il Comitato dei diritti economici, sociali e culturali (CESCR) è stato messo al corrente  della questione. Inevitabilmente, esiste dunque un’iniziativa collettiva con il fine di  inserire  il tema del ‘linguaggio dei diritti umani’ nella prossima trattativa sul clima, che sarà concordata a Parigi nel mese di dicembre.

Non c’è dubbio che tutto questo vada a vantaggio della collettività ma l’impressione è che si stia girando inutilmente intorno al problema. A quanto pare la normativa relativa ai diritti umani ha poco o nulla da dire sul problema principale di far fronte alle azione tese a contrastare il cambiamento climatico: come potranno essere ridotte, con notevole urgenza, le emissioni di carbonio ad un tasso che ci porterà fuori dal percorso dei 4°C?  Gli Stati non hanno intenzione di adottare obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni e ritoccare, così, volutamente le loro economie, semplicemente per soddisfare i loro colleghi all’UPR, gli studiosi del CESCR o le varie Procedure Speciali. Non hanno nemmeno intenzione di fermare le industrie dei combustibili fossili in seguito all’inserimento del tema dei diritti umani nell’accordo di Parigi. Focalizzare l’attenzione sui diritti delle persone indigene può rendere il programma REDD+ più adatto alla difesa dei diritti umani ma comunque questo progetto non ci dice se sia di per sé una buona idea il fatto di valutare in termini monetari le foreste.

I Will Use Less Energy, 2009, foto dell'utente Flickr Louis Vest su licenza CC.
I Will Use Less Energy, 2009, foto dell'utente Flickr Louis Vest su licenza CC.

E che dire dei combustibili fossili? Alcuni recenti titoli di giornale riportavano che: la produzione petrolifera dell’Arabia Saudita ha appena raggiunto livelli record, alla Shell è stato dato il via libera per le trivellazioni  di petrolio e gas a largo delle acque dell’Artico, la Lamborghini sta progettando un nuovo modello SUV che uscirà sul mercato nel 2018; e l’Iran è in trattative con la Shell e l’Eni per raddoppiare la sua produzione di petrolio entro il 2020. La produzione di petrolio continua ad aumentare di anno in anno (si stimano fino ad oggi nel 2015 93 milioni di barili al giorno, rispetto ai 91,5 milioni di barili nel 2014); le riserve comprovate di petrolio sono arrivate a raggiungere massimi storici (secondo la Società Britannica per il petrolio e il gas naturale -BP- si parla di 1,700 miliardi di barili). Malgrado tutto ciò, dovremmo essere contenti quando sei grandi giacimenti di petrolio si offriranno di “contribuire” alla progettazione di uno strumento per la determinazione del prezzo del carbonio.

Oggi se le riserve di petrolio comprovate andassero a fuoco, ci ritroveremmo in un mondo che va ben al di là di 4°C. Inoltre emanerebbero 3,000 gigatonnellate di anidride carbonica in più nel cielo, mentre le stime più attendibili affermano che qualsiasi cosa oltre le 500 gigatonnellate rende irraggiungibile l’obiettivo dei 2°C. Questo è il motivo per cui l’economista inglese Nicholas Stern si riferisce ai tremila miliardi di dollari investiti in queste riserve come “attività non recuperabili“. Forse ha ragione ma il mercato evidentemente non la pensa così.

Al fine di conservare nel terreno l’80% o più di questo petrolio come si deve, è necessaria un’azione drastica concreta: vietarlo; eliminarlo gradualmente; introdurre una moratoria sulle esplorazioni; fare delle ammende per sovrapproduzione; reputarlo illegale. Bisognerebbe anche mettere a disposizione massicci finanziamenti pubblici per la ricerca e lo sviluppo (R&S) di energie rinnovabili e trasferire gli strumenti tecnologici nei Paesi in via di sviluppo. Riuscire a capire come mettere in atto tutto ciò, in un periodo di calmo neoliberalismo e di austerità, è diventata la principale sfida del cambiamento climatico.

Sicuramente potremmo riformulare tutte queste preoccupazioni anche come problemi legati alla sfera dei diritti umani – ma, se vogliamo un vero e proprio cambiamento, piuttosto che gli applausi dei social media, perché non metterlo in atto? Il paradosso è che, di fronte a una minaccia singolare e perfino esistenziale per la pienezza dei diritti umani che godono di una “tutela a livello internazionale”, su scala globale, le normative per la difesa dei diritti umani e i legislatori – e in generale il movimento per i diritti umani – hanno poche cose utili da dire e nessun ruolo evidente da giocare.

Spero di sbagliarmi.

Luciana Buttini

Laureata in Scienze della Mediazione Linguistica e Specializzata in Lingue per la cooperazione e la collaborazione internazionale, lavora come traduttrice freelance dal francese e dall'inglese in vari ambiti.

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