Burkina Faso: povertà, sfide per il futuro e rivolte
[Nota: Testimonianza scritta al rientro da un viaggio tra il Benin e il Burkina Faso]
Arriviamo a Ouaga con il mio gruppo italiano dopo un viaggio in macchina durato quasi 15 ore, iniziato alle 4 del mattino a Porto Novo, in Benin. Un viaggio segnato da un caldo afoso che rende l’aria secca, il respiro pesante e da una pregnante puzza di benzina proveniente dalla nostra autovettura, una Volvo vecchio modello. All’ingresso della città veniamo fermati da un posto di blocco: mi rendo subito conto di quanto la situazione sia tutt’altro che tranquilla. In città negli ultimi giorni c’è stata una rivolta: il governo del Burkina Faso è stato disciolto e nominato un nuovo capo di stato. Il Presidente, Blaise Campaoré ha ordinato l’osservanza del coprifuoco dalle 18 del pomeriggio fino alle 6 del mattino seguente. La strada è deserta, le luci sono spente, la città appare immobile e quasi addormentata nonostante siano appena le sei del pomeriggio. La tensione nell’aria è palpabile senza grande sforzo. Arriviamo in pochi minuti in hotel e tiro un sospiro di sollievo.
Al mattino vengo svegliata dal rumore di una sirena di una volante della polizia. Avverto un forte senso di agitazione percorrermi la pelle. Mi alzo rapida dal letto, scendo nella hall dell’albergo, accendo il pc e mi collego al sito della Farnesina, cercando notizie attendibili sulla situazione del Burkina e di Ouaga. Rimango attonita, agghiacciata: il momento è più instabile di quanto pensassi, non si sa bene cosa potrà accadere nelle prossime ore. L’unica cosa da fare è contattare le varie ambasciate italiane presenti sul territorio e informarle del nostro arrivo. Dò il via ad una ricerca fittissima di siti web e indirizzi, a cui seguono mie numerose mail. Scrivo a tutti: all’Unità di Crisi in Italia, al Console onorario della Costa d’Avorio, al Console del Burkina Faso, al Consolato di Cotonou. Passa una lentissima mezz’ora e squilla il telefono della mia stanza: mi chiamano dalla hall annunciandomi l’arrivo del Console.
Alin è una donna giovane, probabilmente sulla quarantina; veste con un camice colorato verde acqua pastello, “bubù”, così li chiamano a Ouaga, che mi colpisce ricordandomi quelli che ho visto indosso ad alcune donne di Cotonou, in Benin. Il suo arrivo mi rianima e così inizio a spiegarle quanto sia urgente la mia necessità di capire cosa sta accadendo effettivamente in Burkina e, a Ouaga in particolare. Alin mi spiega che il Presidente, Blaise Campaoré, è un ex militare al potere da ben 24 anni. La rivolta contro di lui è iniziata giovedi sera, 14 aprile 2011, in due caserme della capitale Ouaga. I soldati sono scesi nelle piazze per chiedere il pagamento degli stipendi e poi hanno iniziato a saccheggiare numerosi negozi. Anche la casa del sindaco è stata presa d’ assalto: i militari hanno fatto irruzione sparando, ma per fortuna non ci sono stati feriti. Il focus reale del problema è che il governo teoricamente è repubblicano, ma nella prassi è più simile ad un regime dittatoriale. Il potere decisionale si estende dal Presidente ai suoi “bracci” costituiti da clan locali che curano gli interessi di una cerchia ristretta di individui, il che implica una netta disuguaglianza nella distribuzione delle risorse del Paese: continuano ad arricchirsi in pochi, mentre la gente comune muore di fame e conduce una vita di stenti. Questa stessa gente ha contestato in marzo contro il regime del Presidente, ma senza ottenere alcun risultato.
Alin mi spiega che il nome attuale, Burkina Faso, fu istituito nell’agosto del 1984 dal rivoluzionario Thomas Sankara e significa “la terra degli uomini integri”. Poi mi parla del passato storico del Burkina, segnato dalla lunga colonizzazione francese iniziata nel 1896. L’ indipendenza fu raggiunta solo nel 1960, ma anche dopo di essa, il Paese non riuscì a sottrarsi ad un periodo di forte instabilità politica rappresentato da due colpi di stato: il primo nel 1966 che portò al potere i militari fino al 1978, ed il secondo nel 1980. Comprendo che tale instabilità si è trasformata in vero e proprio carattere costitutivo del territorio: Alin infatti definisce gli avvenimenti di questi giorni “fisiologici e ciclici”.
Il Burkina Faso è un Paese realmente povero, povertà aggravata dalla sua posizione geografica priva di sbocchi sul mare, da un clima tropicale contrassegnato dal vento secco e caldo proveniente dal Shara, da un’ iniqua distribuzione delle risorse economiche. Il paesaggio che ho osservato durante il viaggio Benin-Burkina era terribilmente spoglio: terra sterile; strade poco asfaltate; piccoli villaggi disseminati tra i campi fatti di capanne di legno che sorgono l’una accanto all’altra, popolati da uomini e donne vestiti di nulla, da bimbi che corrono con piedini scalzi forse ormai insensibili al caldo incandescente che sale dal terreno, in uno stato prettamente primitivo e in condizioni igeniche lontanissime dagli standard di normalità europei.
Al fine di ristabilire gli equilibri necessari ad assicurare l’equità del benessere dell’intera popolazione ci vorranno anni e, soprattutto, la volontà concreta di agire seguendo i bisogni più urgenti del Paese: primo fra tutti, un sistema idrico che punti su progetti di agricoltura sostenibile. Molti ragazzi del luogo dimostrano reale interesse verso azioni orientate allo sviluppo della pratica della Permacultura basata sulla coltivazione consociata, al fine di sfruttare al cento per cento gli spazi coltivabili e sulla creazione di sistemi di irrigazione strettamente correlati alla morfologia dei terreni. Affinchè queste voci non rimangano degli echi dispersi nel vento c’è bisogno di un forte supporto da parte di chi occupa posizioni di potere decisionale, di infinita coscienza e profonda umanità.
Leggo tra le righe delle parole del Console, che senza l’elezione di un nuovo Presidente sarà difficile modificare lo status quo. I rimpasti politici gettano solo fallaci illusioni negli occhi della gente comune, che fiduciosa continua ancora ad attendere una rivincita sul proprio destino, sulla propria stessa vita.