Sud Sudan, non una crisi etnica ma costituzionale
[Traduzione a cura di Benedetta Monti dall’articolo originale di Hilary Matfess pubblicato su ThinkAfricaPress]
Qualche giorno fa il presidente Salva Kiir e l’ex vice presidente Riek Machar hanno siglato un accordo di pace a Addis Abeba, nel quale hanno rinnovato le tiepide speranze di far cessare al più presto la crisi nel Sud Sudan. Tuttavia, la violazione dell’ordine di cessare il fuoco, nei giorni seguenti l’accordo, suggerisce che c’è ancora molta strada da fare.
Queste difficoltà nascono da una parte dall’ostilità tra i due gruppi etnici più numerosi del Paese, i Dinka e Nuer. Il periodo di violenza che ha avuto inizio lo scorso dicembre è scoppiato soprattutto tra questi due gruppi e ha causato la morte di più di 10.000 persone e più di un milione ha abbandonato le proprie case.
Dall’altra parte è importante non sottovalutare le basi politiche e costituzionali della crisi. Le strutture del potere nel Sud Sudan, codificate dalla Costituzione di transizione del 2011, hanno centralizzato il potere nelle mani del presidente. Questa centralizzazione del potere indebolisce un sistema di controllo e equilibrio e istituisce un sistema politico maggioritario. Sarà necessario comprendere in che modo questa struttura politica abbia contribuito al diffondersi della violenza se si vorrà fermare gli scontri e fare in modo che non si ripetano.
Crisi costituzionale
Per comprendere come è iniziato questo periodo di violenza, è importante sottolineare la situazione politica del Sud Sudan prima della crisi. Le tensioni tra Kiir e Machar non sono nate dal niente, ma piuttosto la loro causa può essere trovata nei cambiamenti della Costituzione di transizione del Paese redatta nel 2011.
Anche se sono state presentate come modifiche “tecniche” della Costituzione del 2005, queste revisioni hanno avuto un carattere radicale. La Costituzione del 2005, sviluppata alla luce del Trattato di Pace Comprensivo, concedeva autorità ai distretti e poneva le basi per un sistema di federalismo in seguito al referendum. Le modifiche del 2011, secondo Kevin L. Cope, professore alla Georgetown Law, hanno “ridotto il federalismo” e concentrato i poteri nelle mani del Governo nazionale. Le riforme, afferma Cope, hanno conferito al presidente l’autorità di “sciogliere i consigli di Stato e congedare i governatori statali” e di attuare disposizioni di emergenza secondo cui i diritti degli individui possono essere sospesi. Inoltre il presidente può intraprendere “tali misure ogni volta che lo ritenga necessario”.
In questo sistema centralizzato non è incentivata la competizione per i seggi a livello statale. L’ufficio del presidente, ufficialmente investito dell’autorità di nominare alcuni membri dell’assemblea legislativa e di congedare i funzionari statali, è l’unica posizione per cui valga la pena competere, poiché avere il controllo esecutivo significa avere il controllo dell’intero sistema politico.
Oltre a un enorme potere politico, con la presidenza si ottengono anche opportunità finanziarie significative. Il Sud Sudan è una regione ricca di petrolio e gli introiti provenienti dalla produzione sono concentrati a livello federale. Il 98% delle entrate statali provengono dal petrolio che il governo federale ha la responsabilità di distribuirle tra gli Stati sub-nazionali. Inoltre, dato che alcune zone in cui è estratto il petrolio sono considerate ormai oltre la produzione di picco e si pensa che essa diminuirà nei decenni a venire, il controllo è suscettibile al fattore tempo, aumentando la posta in gioco ulteriormente.
Una pace duratura
Prima dello scoppio della violenza, sono stati fatti tentativi pacifici di riformare la nuova Costituzione del 2011. Machar aveva divulgato un’agenda di riforme richiedendo limiti al termine della presidenza e la rimozione della clausola della Costituzione del Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese (SPLM) che conferisce al proprio presidente il potere di nominare il 5% dei membri a tutti i livelli del partito. Questa proposta è stata respinta e Machar accusato di “doppiezza” dal presidente Kiir, facendo presagire l’imminente crisi.
Le tensioni sono aumentate nei due anni seguenti, mentre Kiir ha esercitato il proprio diritto di congedare i governatori insubordinati, incluso il governatore di Lakes State, Chol Tong Mayay, nel gennaio del 2013. Poi nel luglio dello stesso anno, Kiir ha congedato il suo intero gabinetto, incluso Machar. In risposta Machar e i suoi alleati hanno accusato il presidente Kiir di agire oltre l’ambito giudiziario e di aver creato una crisi costituzionale.
Le tensioni alla fine sono scoppiate nel dicembre del 2013, quando gli scontri tra alcuni gruppi dell’esercito sono esplosi con maggiore violenza. Kiir ha accusato Machar di tentato colpo di Stato. Machar ha negato, ma ha messo insieme un gruppo di ribelli e gli scontri si sono diffusi in molte aree del Paese. A gennaio è stato firmato un accordo di cessate il fuoco, che è stato violato ripetutamente. Centinaia di persone sono state uccise, la crisi umanitaria è diventata sempre più profonda, e poiché la violenza ha interferito con la stagione della semina adesso il Paese è condannato a soffrire la fame.
Mentre la comunità internazionale ha spinto per un accordo di transizione tra le due parti in conflitto, è chiaro che i Trattati del passato non sono riusciti a garantire una situazione di cessate il fuoco duratura. Dopo tutto, una pace a lungo termine nel Sud Sudan richiede, tra le altre cose, un accordo che modifichi la situazione creata dai cambiamenti alla Costituzione del 2011. I consolidamenti politici nati dalla crisi devono essere affrontati e perché l’accordo sia sostenibile il potere deve essere decentralizzato ancora una volta, portando la competizione politica anche a livello regionale. Un accordo di pace duraturo deve tenere presente che la violenza in corso ha radici costituzionali e deve smantellare l’attuale, rischioso, sistema politico che non sta portando alcun vantaggio.