Il (trascurato) ruolo delle donne nei processi di pace
[Traduzione a cura di Benedetta Monti dall’ articolo originale di Vanina Serra pubblicato su OpenDemocracy]
Il 27 marzo 2014 segna una data per certi versi storica: la firma di un accordo di pace condotto da una donna come capo delle mediazioni. Il governo delle Filippine e il Fronte Islamico di Liberazione Moro hanno firmato un Comprehensive Peace Agreement su Bangsamoro (CAB), ponendo fine così a quattro decadi di guerra civile e quasi due di trattative per la pace. Chiaramente si tratta di un evento storico per le Filippine e tutta l’area geografica, ma questo accordo non è storico solamente per la pace che è stata ristabilita nella nazione – il CAB è anche il primo accordo di pace in cui una donna, la professoressa Miriam Coronel-Ferrer, ha posto la sua firma come capo delle mediazioni.
La comunità internazionale si è impegnata da sempre per aumentare la partecipazione femminile nella prevenzione dei conflitti, nelle situazioni successive ai conflitti e nell’istituzione della pace. Un esempio è dato da quella che viene considerata una vera e propria pietra miliare della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2000. Tuttavia, nonostante l’obbligo di promuovere la partecipazione delle donne nelle diverse fasi dei processi di pace, che si legge in questa e in altre Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite , l’inclusione delle donne nei processi di pace è sempre stata limitata, sia nel numero che nei ruoli.
La ricerca dell’organizzazione UN WOMAN su un campione di 31 importanti processi di pace tra il 1992 e il2011 ha mostrato che solo il 4% del totale dei firmatari erano donne, di cui il 2,4% capi delle mediazioni, il 3,7% testimoni e il 9% negoziatori. Nessuna donna era mai stata coinvolta come mediatrice nei processi che hanno portato ai cosiddetti Comprehensive Peace Agreemement, ( Accordi di Pace Totale) . Anche le Nazioni Unite non hanno mai designato una donna come capo delle mediazioni nei processi di pace di cui sono state fautrici.
Ma perché è così importante che le donne siano incluse nei processi di pace?
Prima di tutto, escludere le donne significa escludere più della metà della popolazione da un importante momento decisionale. Le situazioni durante i conflitti e il periodo post-conflitto interrompono le relazioni sociali e portano ad uno stato di caos in cui anche le idee fino allora seguite e le ‘verità’ stabilite sono in subbuglio. Questi momenti di lotta, violenta e orribile, possono però offrire la possibilità di un cambiamento veramente trasformativo – fornendo le fondamenta per la ridistribuzione del potere tra le classi sociali, i gruppi etnici e tra i generi, indirizzando (e risolvendo) le cause alla base dei conflitti e delle disuguaglianze.
In secondo luogo, ci sono prove che mostrano quanto il risultato della pace e dello sviluppo sia raggiungibile e sostenibile se le donne e le loro opinioni sono incluse nel ‘decision-making’, ai tavoli delle trattative e nelle strutture di governo e di responsabilità. Secondo una ricerca più del 50% degli accordi di pace fallisce entro cinque anni dalla firma del trattato. Questo avviene, in parte, perché all’atto delle trattative per gli accordi vengono escluse una varietà di opinioni diverse.
Infine, se le donne non sono incluse nei colloqui di pace, le loro richieste di giustizia saranno sicuramente ignorate, con la conseguenza di accordi che non includono meccanismi di valutazione per coloro che violano i diritti umani durante i conflitti, inclusi coloro che hanno perpetrato violenze contro le donne. Per esempio i Trattati di Pace di Goma , firmati nel 2009 tra il governo congolese e i gruppi armati della zona orientale della Repubblica Democratica del Congo, includevano disposizioni per il reintegro nell’esercito regolare di alcuni membri dei gruppi ribelli, come Bosco Ntaganda, ricercato dalla Corte Penale Internazionale dal 2006 per crimini di guerra. Non è insolito che accada che i criminali di guerra siano reintegrati nei governi formati alla fine delle ostilità, in nome di una pace fragile che serve gli interessi di pochi potenti. Questo è ben documentato nel film di Abigail Dinsey sul processo di pace in Liberia, ‘Pray the Devil Back to Hell’, in cui una delle attiviste associa le trattative per la pace alla ricerca affannata di un lavoro.
Comprendere le donne al tavolo delle negoziazioni significa apportare opinioni ed esperienze diverse che possono contribuire ad accordi di pace migliori e più inclusivi. Tuttavia, la presenza delle donne durante le trattative e gli accordi non può essere in sé una garanzia di un processo di pace più sostenibile e di successo. Non tutte le donne sono esperte e interessate più alla comunità che ai propri interessi personali. L’aspetto che sembra esercitare una vera influenza nella promozione dell’uguaglianza tra i generi durante un trattato di pace, è l’esistenza di gruppi femminili nel Paese, un movimento di cui le donne che si trovano al tavolo delle trattative siano l’espressione e con il quale abbiano un forte collegamento.
Gli impegni per l’uguaglianza dei generi contenuti nel trattato di pace del 1996 inGuatemala, per esempio, non sono solamente attribuiti alle capacità di negoziare di Luz Mendez, l’unico membro femminile della delegazione Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca, ma anche ai suoi collegamenti e costanti comunicazioni con il movimento femminile del suo Paese. Tuttavia, come è stato sottolineato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite nel suo rapporto sulle donne, la pace e la sicurezza del 2013, “la maggior parte del lavoro delle donne per la prevenzione dei conflitti continua a non essere riconosciuto e manca sia di fondi che di supporto internazionale.”
Finanziare i movimenti femminili in nazioni con un contesto di sicurezza instabile in modo coerente, flessibile e a lungo termine, è la chiave per supportare il ruolo delle donne nella prevenzione dei conflitti. E se la prevenzione non riesce e insorge una crisi, l’esistenza di un movimento femminile stabile consente alle donne di mobilitarsi velocemente e di avere meno possibilità di essere escluse dai processi di pace quando arriverà il momento opportuno. Per i finanziamenti nei territori influenzati da conflitti sarebbe saggio concentrarsi sulla leadership femminile durante i conflitti piuttosto che sulle donne come vittime dei conflitti.
Questa è la chiave per supportare i tentativi di riportare la pace, per cui iniziative importanti come quella promossa dal governo inglese per fermare la violenza sessuale durante i conflitti devono mantenere l’attenzione sul ruolo delle donne che come leader possono cambiare le strutture di potere che si trovano alla base della violenza e dell’oppressione. Concentrarsi solamente sulla violenza sessuale nei conflitti senza supportare i tentativi delle donne che si organizzano contro le cause alla radice che favoriscono l’utilizzo di tali violenze, non prenderebbe in considerazione il fattore che fa la differenza: la partecipazione giornaliera delle donne e della loro leadership nel consolidamento della pace.
Speriamo che quello della professoressa Coronel-Ferrer non rimanga un caso isolato.