America Latina: la presenza cinese è una sfida e un’opportunità
[Nota: l’articolo integrale di Elena Zagnoni è pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright, ripreso dietro autorizzazione].
Il commercio tra Cina e America Latina rappresenta il 6% degli scambi totali cinesi, ancora abbastanza ridotto. Nonostante ciò, nel biennio 2008-2009, il tasso di crescita degli import ed export cinesi in America Latina (+26,1%) risulta essere il doppio rispetto a quelli con il resto del mondo (+13,4%). Vista la grande importanza che ha la Cina sui mercati mondiali, l’aumento dei legami commerciali rappresenta allo stesso tempo una sfida e un’opportunità per l’economia dell’area latino-americana. Infatti, secondo una previsione della CEPAL, entro il 2020 la Cina sostituirà l’Unione Europea come secondo partner commerciale del Sud America. Gli export della regione verso gli Stati Uniti e l’Europa risultano essere in calo, rispettivamente, del 26% e del 28%, mentre quelli verso il Paese asiatico sono aumentati del 5%.
I legami economici
Osservando gli scambi tra Cina ed America Latina, si nota immediatamente una marcata differenza nella specializzazione produttiva e commerciale. La maggioranza delle esportazioni sudamericane è infatti rappresentata da materie prime, in particolare soia e ferro (costituiscono i 2/3 dell’export dal Brasile verso la Cina) e petrolio greggio (ulteriore 10%). Al contrario, le importazioni di prodotti cinesi nella regione riguardano una vasta gamma di manufatti, tra cui spiccano parti e componenti elettroniche, macchinari e sistemi, prodotti tessili e confezioni.
Alcuni Paesi latinoamericani sono diventati estremamente dipendenti dalla Cina come mercato di destinazione dell’export: al primo posto per Brasile e Cile nel 2008, Pechino ha aumentato la sua presenza in altri 17 Paesi, specialmente in quelli appartenenti al Mercosur. Il peso della Cina come socio commerciale risulta ancora maggiore nelle importazioni, determinando un deficit commerciale crescente tra la Cina e la regione latinoamericana. A parte la situazione consolidata del Paraguay (27% delle sue importazioni sono cinesi), la Cina ha migliorato la sua posizione in quasi tutti i Paesi ed è diventata uno dei primi 5 mercati d’origine per i prodotti di 15 Paesi sudamericani.
Molto importanti, non in termini numerici quanto strategici, risultano essere anche gli Investimenti Diretti Esteri (IDE). Secondo una stima della CEPAL, fino alla fine del 2009 circa il 17% degli IDE non finanziari della Cina sono stati diretti verso economie sudamericane, corrispondente ad un valore di 41 miliardi US$. Nonostante ciò, il 95% degli investimenti circa si concentra in due Paesi, Isole Cayman e Isole Vergini Britanniche, alla ricerca di vantaggi derivanti dai paradisi fiscali.
Anche se gli Ide cinesi nell’area rappresentano ancora una quota abbastanza contenuta (quella degli Usa è il 37% e quella dell’Europa 39%), sono aumentati molto rapidamente: da 1,038 miliardi US$ nel 2003 a 8,469 miliardi US$ nel 2006 e si sono focalizzati prevalentemente nel settore minerario, in gas e in petrolio greggio. L’accordo più importante, in termini di risorse cinesi apportate in un Paese sudamericano, è rappresentato da un contratto di fornitura tra Sinopec (compagnia petrolifera statale cinese) e Petrobras (corrispondente compagnia brasiliana). Nel maggio 2009 la Sinopec si è garantita una fornitura di 200 mila barili di greggio al giorno ed in cambio la China Development Bank ha concesso un prestito a Petrobras del valore di 10 miliardi US$ per 10 anni.
Inoltre, sempre nel 2009, la Cina è diventata parte del BID (Banca Interamericana di Sviluppo) con un capitale di 350 milioni US$ per aiutare a finanziare opere infrastrutturali in America Latina. Da parte sua, il BID si è impegnato ad agevolare gli Ide cinesi nella regione. Infine, un’importante forma con cui si concretizzano gli investimenti della Cina in territorio sudamericano sono le joint ventures e le cooperative, viste in modo positivo dall’industria locale perché indicano una maggiore propensione di Pechino alla condivisione dei rischi. Nonostante ciò, il Presidente brasiliano uscente Lula ha espresso perplessità riguardo la reciprocità di tali impegni: “a volte viene concluso un contratto e viene impiegata manodopera cinese, e questo non genera opportunità per la forza lavoro locale”.
Secondo Juan Gabriel Tokatlian, professore di Relazioni Internazionali all’Università Torcuato di Tella di Buenos Aires, anche la società latinoamericana appare preoccupata in questo senso. Osservando le imprese cinesi che operano in Africa, infatti, si nota che “hanno portato la manodopera dal proprio Paese, non rispettano gli standard ambientali richiesti e adottano uno stile che ricorda alcune vecchie politiche coloniali”. Sempre Tokatlian riflette però come “l’America Latina conosce questo pericolo e, fino ad ora, è riuscito ad evitarlo. La grande differenza con l’Africa è rappresentata dalla forte presenza di partiti politici, ONG e sindacati”.
(…) Quasi tutti i leader dell’area vedono di buon occhio la presenza cinese, che favorisce crescita economica, ha giocato un ruolo essenziale nella ripresa dalla crisi e potrebbe aiutarli ad acquistare una maggiore indipendenza dal mercato statunitense. Nonostante ciò sono emerse alcune perplessità riguardo al volume e alla natura degli scambi commerciali tra Pechino e la regione sudamericana.
La prima preoccupazione è che la Cina stia causando un’eccessiva dipendenza dei Paesi dell’America Latina dall’export di materie prime, a basso valore aggiunto, a scapito dell’industria nazionale. Non si tratta di un problema di poca importanza se si considera che il 93% della popolazione e il 97% delle attività economiche del Sud America sono concentrate in Paesi che sono esportatori netti di materie prime. Una marcata specializzazione nell’export di materie prime può implicare quelli che la Banca Mondiale nomina “commodity concerns”, ovvero una ridotta crescita economica nel lungo periodo ed una relazione “malata” tra le rendite generate e le istituzioni, la quale porta a problemi nella equa redistribuzione delle risorse.
Al tempo stesso l’America Latina farebbe anche un affidamento eccessivo sulle importazioni di manufatti cinesi, generando una sorta di competizione con l’industria interna. Questo è particolarmente vero nel caso del Messico, per il quale la Cina rappresenta un potenziale antagonista, specialmente riguardo al mercato statunitense. Tra il 2000 ed il 2005 infatti la quota cinese delle importazioni americane di vestiti è raddoppiata al 26%, mentre la quota messicana è caduta dal 14% all’8%.
Le implicazioni a livello geopolitico
L’arrivo della Cina in America Latina non è casuale, ma può essere ricondotto ad un mutamento più generale dello scenario economico e politico mondiale. Nell’ultimo decennio infatti molti Paesi sudamericani hanno raggiunto una nuova stabilità economica e si sono trasformati in democrazie più robuste.
La presenza di Governi di sinistra ha poi generato, anche per motivi ideologici, un desiderio d’indipendenza diplomatica dagli Stati Uniti e, di conseguenza, la ricerca di nuovi alleati in campo economico. Allo stesso tempo, si assiste ad un declino dell’egemonia statunitense a livello mondiale: come afferma Garcia Belaunde, Ministro degli Esteri peruviano, “i centri di potere stanno cambiando e nel XXI secolo sarà il Pacifico ad essere protagonista”. D’altra parte durante l’Amministrazione Bush gli Usa hanno trascurato i rapporti con il Sud America, più concentrati altrove sulla guerra al terrorismo, e questo ha permesso ad altri attori di subentrare.
Ora gli Stati Uniti appaiono invece preoccupati per la crescente influenza della Cina in America Latina, che potrebbe decretare la fine della “dottrina Monroe”, secondo la quale ogni intromissione esterna nell’emisfero occidentale risulterebbe dannoso per la pace e la sicurezza americana. Il Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton ha in particolare espresso apprensione per le alleanze che il Sud America sta stringendo con Iran e Cina, che potrebbero minare la stabilità dei Governi democratici faticosamente costruiti nell’area. Nonostante ciò, l’Ambasciatore cinese a Brasilia Qiu Xiaoqi afferma: “non stiamo cercando un’influenza speciale. Abbiamo ripetuto agli Usa che le nostre relazioni con l’America Latina non rappresentano una minaccia per nessuno”. Pechino sembra dunque voler mantenere un approccio pragmatico ed imparziale nelle relazioni internazionali, rimandando la scelta di mantenere legami strategici con gli Stati Uniti o, al contrario, con Paesi come Iran o Venezuela.
In realtà, sembra che i legami stretti dalla Cina con l’America Latina riflettano una chiara intenzione d’espansione della propria influenza oltreoceano e che si configurino come parte di una strategia economica e politica a livello globale. La ricerca di un’influenza politica della Cina nell’area è evidente: si pensi ad esempio che 12 Paesi sudamericani (circa la metà) riconoscono la sovranità di Taiwan. La presenza economica cinese risulta quindi indirizzata anche ad un indebolimento dei legami con Taiwan e potrebbe diventare quindi un motivo di scontro nella regione, tra chi lo appoggia e chi no.
Conclusioni
Nonostante alcune riserve, i legami tra Cina e America Latina continuano a svilupparsi e sembra che, a questo punto, abbiano raggiunto un livello di maturità tale da permettere un salto di qualità nelle relazioni economiche e politiche. In particolare, date le dimensioni del mercato cinese, uno sforzo congiunto dei Paesi latinoamericani, per promuovere una strategia comune e concretizzare un’agenda regionale commerciale e d’innovazione tecnologica, potrà essere uno scenario vantaggioso per la regione. In questo senso, appare auspicabile la creazione di un Summit tra i Capi di Stato cinese e latinoamericani, oltre al già esistente Business Summit annuale.
[Nota: stralci dall’articolo integrale di Elena Zagnoni, pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright, ripreso dietro autorizzazione].