La folle corsa agli armamenti: dai droni ai laser
[Nota: traduzione a cura di Manuela Beccati dall’articolo originale di Paul Rogers.
L’occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq guidato da Saddam Hussein, nell’agosto del 1990, fu respinta dall’attacco americano nel gennaio 1991. La coalizione costruita da Washington godeva di una netta superiorità militare ma, tra i problemi che dovette affrontare, emerse la capacità dell’Iraq nel lancio dei missili Scud, dapprima contro Israele e poi contro le forze della coalizione in Arabia Saudita. Gli Scud, forgiati secondo la tecnologia missilistica sovietica degli anni Cinquanta, erano altamente imprecisi ma, se orientati su grandi obiettivi come le basi militari o i porti marittimi, erano comunque potenzialmente pericolosi.
Questo venne confermato quando uno Scud andò a colpire un deposito dei marines americani in Arabia Saudita, uccidendo 28 soldati – la perdita più grave subita dagli americani durante la guerra. In un altro incidente invece, che non fu reso di dominio pubblico, uno Scud cadde in mare a 300 metri da una nave americana di supporto ormeggiata nel porto saudita di Al-Jubayl accanto a un grande molo dov’erano custodite munizioni e carburante. Ci mancò poco: se il deposito militare fosse stato colpito l’effetto sarebbe stato disastroso.
Questo incidente fu uno dei fattori che indussero il Pentagono a investire massicciamente nella difesa antimissile, all’epoca concentrandosi soprattutto su come difendersi dagli Scud. Un risultato fondamentale che si deve a questo impegno, che proseguiva nonostante si fosse agli sgoccioli della guerra fredda, fu un’arma che sembrava uscita da un film di fantascienza: il laser aviotrasportato (ABL – Airborne Laser Testbed) (per approfondimenti si rimanda a “Directed energy: a new kind of weapon”, 31 luglio 2002).
Sul progetto si riversarono centinaia di milioni di dollari verso la fine degli anni Novanta, e all’inizio del nuovo secolo iniziava già la fase di sperimentazione. Si trattava di un Boeing 747 appositamente modificato per alloggiare un laser di tre megawatt dotato di un sistema ottico a sensori infrarossi, alimentato da potenti carburanti chimici, che dopo esser stato sparato individuava i missili subito dopo il loro lancio. Il laser, viaggiando alla velocità della luce, aveva una gittata di 650 chilometri circa, consentendo dunque di pattugliare lo spazio aereo di avversari come l’Iran o la Corea del Nord. Alla base del progetto stava l’idea che l’involucro di questi missili, sottoposti al forte calore del laser, potessero deformarsi e cadere, in un momento di forte sollecitazione gravitazionale, nel momento di più rapida accelerazione durante la fase iniziale del lancio.
Il sistema attirò presto un notevole interesse. A partire dal 2003, l’aeronautica statunitense ipotizzava un eventuale uso del laser per colpire bersagli a terra come caserme, depositi o cisterne per combustibili. Com’è naturale l’idea stessa di armi a “energia diretta” sembrò, agli occhi dei progettisti militari, quasi il raggiungimento di un’arma perfetta. Perchè se, pensarono, la funzione di un’arma è quella di fornire energia per distruggere un bersaglio, idealmente dovrebbe avere un largo raggio, essere molto veloce e dotata di una precisione chirurgica.
L’idillio non durò a lungo e il sogno iniziò presto a svanire. L’intero programma si stava rivelando molto complesso da eseguire e più costoso del previsto, a causa delle tecnologie ancora a livello sperimentale. Furono portati a termine con successo due test nel 2010 ma il sostegno del Congresso americano stava scemando, e i fondi furono tagliati alla fine dello stesso anno, fino alla cancellazione dell’intero progetto nel 2011.
Pareva che si fosse arrivati alla fine della storia: un’arma “ideale” troppo difficile da sviluppare. Ma non è andata proprio così. A metà aprile di quest’anno la Marina militare statunitense ha annunciato che un laser del tutto operativo sarà montato sulla USS Ponce, una nave comando dislocata nel Golfo Persico. Il suo obiettivo principale è quello di fornire una difesa contro i droni armati e i piccoli motoscafi (leggi anche Grace Jean, ”USN to deploy solid-state laser weapon on USS Ponce”, Jane’s Defence Weekly, 17 aprile 2013).
Questo sistema laser (LaWS – Laser weapon System), paragonato al laser aviotrasportato, è molto più piccolo, la sua potenza ora si esprime in kilowatt anziché in megawatt, e utilizza componenti disponibili in commercio. Tutto ciò fa però parte di un progetto molto più ampio che prevede di sviluppare armi tattiche a energia diretta, ma questa volta verrà schierata la Marina militare in prima linea (leggi anche Richard Scott, “Rays of light: can shipborne laser weapons deliver”, Jane’s International Defence Review, Marzo 2011).
Va aggiunto che l’idea ha preso piede anche fuori degli Stati Uniti. Israele e Cina sono già avanti nell’attuazione del progetto, molto più di altre nazioni, e ci sono tutte le premesse che un certo numero di nuove armi ad energia diretta saranno pronte all’uso nel prossimo decennio. Il laser aereo sarà stato un passo tecnologico più lungo della gamba, ma per le forze armate di tutto il mondo è rimasto un concetto di fondo che conserva ancora molto fascino.
Il collegamento con il drone
C’è, tuttavia, un ulteriore aspetto che va considerato. Ciò che funziona per i militari può andar bene anche alle forze paramilitari, tanto più che la diffusione di laser molto potenti nelle industrie significa che le tecnologie laser per i civili possono essere prontamente modificate da attori interni agli Stati.
Stiamo insomma parlando dello sviluppo dei droni armati. In questo comparto gli Stati Uniti e Israele sono in testa, anni avanti all’Europa occidentale, così come rispetto alla Russia e alla Cina. Ma altri Paesi, tra cui l’Iran, non sono lontani (Israele ha dichiarato il 25 aprile scorso di aver abbattuto un altro drone, lanciato dal Libano meridionale – probabilmente dagli Hezbollah, alleati dell’Iran). E questo vale anche per le armi a energia diretta. Al momento gli Stati Uniti e Israele sono in prima fila, ma nel giro di pochi anni si assisterà alla loro proliferazione tra le potenze di medio rango fino anche ad attori non statali (leggete per esempio “An asymmetrical drone war“, 19 Agosto 2010).
Un vantaggio che i droni armati e le armi a energia diretta hanno in comune è che né gli uni né le altre sono soggetti ad alcun tipo di procedura di controllo internazionale. E non è neppure previsto per il futuro. Ancora una volta, i produttori di armi sono più avanti dei loro controllori. E questo non cambierà, giustificando così lo spiegamento della USS Ponce. Quasi senza accorgersene, il mondo sta entrando in un’altra stagione della guerra. I risultati di questa nuova era sono imprevedibili, sebbene una cosa è certa: assisteremo alla proliferazione di molteplici attori – sia statali che paramilitari.