[Nota: Traduzione a cura di Davide Galati dall’articolo originale di Paula Góes, editor multilingue presso Global Voices Online.]
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A un recente convegno svoltosi a Londra si è parlato di come, senza traduzione, lungo la filiera dell’informazione, dal momento della raccolta fino alla produzione del pezzo che sarà letto dal pubblico, non ci sarebbero più notizie dal mondo. E poco importa che a svolgere il difficile compito siano traduttori professionisti, giornalisti bilingui, blogger-ponte o utenti dei social media versati nella propria lingua e in inglese.
In prima battuta, la pubblicazione di notizie internazionali pare una questione semplice: tutti i servizi di informazione nelle diverse lingue del mondo comunicano le stesse notizie – basate sugli stessi fatti – ma spesso tradotte, contestualizzate e calibrate ogni volta secondo la sensibilità delle specifiche culture locali.
In realtà andare oltre reportage o traduzioni di eventi giornalistici dalla mera parvenza d’imparzialità è una gara dura. Nel giornalismo responsabile è insito un linguaggio cosciente e ponderato. C’è da chiedersi se in un mondo globalizzato un approccio casuale, oltre a rendere invisibile il traduttore, renda pure un cattivo servizio ai lettori.
Dirimere certe questioni linguistiche in appena un paio d’ore è stata la sfida lanciata dal Free Word Centre nell’ospitare il panel ‘Whose News is it Anyway?‘ il 20 febbraio scorso. Moderato da Jo Glanville, direttrice del network English PEN, il dibattito tra la giornalista Liliane Landor, responsabile linguistica del BBC World Service e la linguista Biljana Scott, esperta di linguaggio diplomatico dell’Università di Oxford, ha parlato al pubblico di come la scelta delle parole e il ruolo della traduzione nel giornalismo internazionale siano importanti. L’evento è stato organizzato in seno al Translators in Residence programme del Free Word Centre.
Senza traduzione, lungo la filiera dell’informazione, dal momento della raccolta fino alla produzione del pezzo che sarà letto dal pubblico, non ci sarebbero più notizie dal mondo. E poco importa che a svolgere il difficile compito siano traduttori professionisti, giornalisti bilingui, blogger-ponte o utenti dei social media versati nella propria lingua e in inglese. Jo Glanville ha iniziato il dibattito richiamando l’attenzione sull’invisibilità dei traduttori – non importa se questo sia o no il loro titolo professionale – che rendono possibile la produzione di notizie dal mondo; ha citato David Vista Bellos il quale sostiene che “manca la volontà collettiva di seguire il percorso della lingua nelle storie che i media ci rimandano.”
Persino nell’ambito di una stessa lingua esistono espressioni che, prima di diffondersi al punto che nessuno si interroga più sulle varie connotazioni, necessitano in qualche misura di traduzione anche da parte dei lettori della lingua in questione. ’Guerra al terrore’, ’roadmap per la pace’, ‘processo di pace’, per non parlare del cliché ‘terrorista’, sono esempi di espressioni pregne di emozioni e che veicolano storie invisibili e significati particolari. In altri casi, emergono nuovi termini che assumono poi nuovi significati per effetto dello sviluppo dei media e dei servizi giornalistici in cui ricorrono. “Che cos’è un ribelle?” si chiede la linguista Scott, spiegando che il termine era usato per indicare chi sia coinvolto in una ribellione, in ultima analisi un “destinato al fallimento”, ma ora, alla luce della primavera araba, la definizione è integralmente cambiata. ”Ora il termine ha a che fare con gente che persegue una giusta causa e vuole farcela. Sono cambiate le connotazioni”
Chi conia questi termini, e quali sono le intenzioni retrostanti? Comprendere come queste locuzioni diventino così di moda e si diffondano attraverso i media è un compito difficile, secondo la giornalista Landor. Un esempio che le è venuto in mente è ‘Shock and Awe’ [traducibile all’incirca come ‘Colpire e Terrorizzare’, NdT]. “Non so chi l’ha coniato … ma a quanto pare nel giro di 24 ore l’espressione è stata menzionata circa 700 volte in diversi dispacci e notizie … e provate a tradurre ‘Shock and Awe’! Registrato la prima volta nel febbraio 2009, ‘Shock and Awe’ era il nome di un piano di battaglia che poggiava su un concetto sviluppato da Harlan K. Ullman e James P. Wade nel 1996 presso la National Defense University degli Stati Uniti. Un colpo di genio dei media?
A volte ci sono metafore che a persone di madrelingua inglese paiono abbastanza azzeccate, ma se le si osservano nell’ottica della traduzione diventano problematiche. Se rese letteralmente,in altre lingue non significano nulla – e non fanno eccezione le lingue parlate nei Paesi a cui si riferiscono -. mancando non di rado anche la possibilità di tradurle in modo da rendere ogni sfumatura contenuta negli usi più o meno nuovi o arcaici che si hanno di certe parole. “Quando si traduce una metafora si traduce un intera visione del mondo”, ha affermato Biljana Scott.
Questo è uno dei motivi per cui limitarsi a tradurre o trasmettere in altre lingue notizie scritte per un pubblico anglofono non funziona. Negli ultimi dieci anni, il BBC World Service è passato da una struttura operativa che prevedeva un’unica redazione inglese assistita da team di traduttori sotto la supervisione di editor linguistici, a un sistema di 27 team redazionali composti da giornalisti bilingui capaci di scrivere in inglese oltre che nelle lingue d’origine.
Alla BBC questa forza multilingue si fa mediatrice della notizia, la contestualizza, la interpreta e la riscrive per adattarla al pubblico che conosce meglio. Al fine di soddisfare le esigenze di ciascuno, a volte i giornalisti forniscono tre diverse versioni della stessa notizia: una per l’audience locale con la maggiore conoscenza del contesto, una seconda per un pubblico più ampio che parli correntemente la lingua della regione, per esempio l’arabo, e infine una terza mirata a un’audience globale che comprende l’inglese.
Queste versioni possono avere narrazioni diverse, e rappresentano la sensibilità e i valori del pubblico ricevente ma, se non manca una sensibilità [generale] verso le lingue, non si può dire lo stesso per le culture – ha spiegato Liliane Landor, che non ritiene esista una ‘sensibilità’ specifica verso tutti i Paesi coperti dai servizi della BBC. ”Prendete il matrimonio gay, per esempio. Non scriveremo una notizia del genere prestando attenzione alla sensibilità del mondo arabo, scriveremo il pezzo in questione come produrremmo una notizia da giornalisti […] da cittadini del mondo.” Landor è responsabile di tutte le 27 lingue coperte dal BBC World Service via radio, televisione e Internet.
E’ quando i corrispondenti non capiscono la lingua del luogo in cui si trovano, o quando la gente del posto, non parlando inglese, non riesce ad accedere al processo di raccolta delle informazioni che i meccanismi di produzione delle notizie internazionali diventano tanto più interessanti. È allora che chi localmente sa bene l’inglese può assumere il ruolo di mediatore tra ciò che accade lì e le redazioni di tutto il mondo. Questi ‘adattatori’ sono spesso anche dei traduttori e il contributo alla trasmissione linguistica e culturale che danno è assai poco riconosciuto.
Senza visibilità né status, questi agenti operano come interpreti e forniscono sostegno ai giornalisti ‘globali’ di tutti i media mainstream, a ciascun livello del processo di costruzione delle notizie. Interpretano, traducono, costruiscono reti, stabiliscono contatti, contestualazzino lo svolgimento della storia e “a volte praticamente scrivono questa storia per te “, ha spiegato Landor. I dispacci che ”contribuiscono a scrivere” saranno poi trasmessi dal corrispondente e, una volta nelle redazioni o nelle agenzie di stampa, la notizia viene riscritta in altre lingue, e forse, se va bene, anche nella lingua della regione di provenienza della notizia.
Gli apparati dei social media e dei media digitali utilizzati dai cittadini bilingui che operano sul campo si stanno in ogni caso rapidamente trasformando nei migliori strumenti per la raccolta di notizie a livello internazionale, anche per il World Service. Curare queste voci online per produrre informazione imparziale – e poi tradurla in circa 30 lingue – è proprio ciò che fa ogni giorno Global Voices Online, l”organizzazione no profit per cui lavoro. Poggiando dal 2005 sul lavoro di un gruppo multilingue di volontari ed editor part-time che dalle varie regioni del mondo riferiscono ciò che vedono e sentono attraverso i media digitali, Global Voices ha precocemente capito che l’industria del giornalismo sarebbe arrivata a contare molto sui social media.
La possibilità di tornare a un mondo ‘non tradotto’, comunque, non c’è: in questa nostra epoca di globalizzazione, vogliamo sapere cosa accade altrove e vogliamo sentirlo dalle persone, quindi è inutile seguire l’esempio degli antichi greci – che ignoravano tutto ciò che non era espresso in greco, – o i Romani, che riuscirono a costringere tutti i cittadini del mondo a parlare latino. I lettori sono diventati più esigenti e perspicaci, e sono consapevoli che le parole che emergono dalla traduzione non sono neutre, In un mondo in cui è possibile tradurre e le conseguenze del tradurre si possono diffondere rapide come non mai, sarebbe il caso che i media tradizionali traducessero con cura.
Un ringraziamento a Tamara (Nigi) per la cortese supervisione.
Segnalo, sotto l’articolo originale, . Mi pare una notazione interessante sul peso dei traduttori e agenti così detti gate-keeper che possono filtrare e adattare le informazioni per il pubblico internazionale, con il pericolo che i media stranieri finiscano per parlare più che altro con questi soggetti più colti perché sanno l’inglese, mentre non sono rappresentativi del sentimento di un intero Paese.