Sudan, calamità umanitaria ormai sparita dai radar internazionali
Sono ormai oltre 200 i giorni di sangue nel Sudan che non fa più notizia. Mentre altri, altrettanto drammatici teatri di guerra s’impongono al centro dell’attenzione mediatica (e quindi politica) globale, nel cuore del Continente africano “una calamità umanitaria e una catastrofica crisi dei diritti umani” vanno in scena a riflettori spenti.
Il fuoco delle armi infuria sempre più violento in tutto il Paese. Le ostilità tra l’esercito del generale Abdel Fattah al Burhan, capo de facto del Sudan, e le Forze di sostegno rapido (RFS) guidate dall’ex numero due di Khartoum, Mohamed Hamdan Dagalo, crescono ogni giorno in portata e barbarie.
L’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED) conta dallo scorso 15 aprile 10 mila morti almeno, per i gruppi umanitari sul territorio la cifra reale è di gran lunga più alta: in troppi restano fuori da ospedali e obitori.
A questo punto sono quasi 5 milioni gli sfollati interni, e 1,3 milioni di persone si sono già riversate nei Paesi vicini. I bambini in fuga dalle violenze sono così tanti che Unicef parla della più grave crisi di sfollamento infantile del Pianeta. I combattimenti feroci delle ultime settimane in Darfur ne hanno lasciati a cercare riparo sul ciglio delle strade, sotto agli alberi, senza più acqua né cibo, a migliaia.
La fame e il collasso di ogni sistema di supporto, poi, si prendono le vite che bombe e proiettili risparmiano. 25 milioni di sudanesi hanno urgente bisogno di aiuti umanitari che non arrivano (l’appello per il Piano di risposta umanitaria del Sudan 2023 è finanziato solo al 33,8% al 12 novembre) e 20 milioni di loro sono affamati gravi per il Programma alimentare mondiale: la popolazione totale del Sudan è di poco più che 45 milioni di persone, giusto per rendere l’idea delle proporzioni della crisi.
Con oltre il 70% delle strutture sanitarie nelle aree di conflitto fuori uso, le epidemia di colera, dengue, malaria e morbillo tornano a correre per il Paese, soprattutto tra i più piccoli, e 700 mila bambini sudanesi malnutriti acuti gravi rischiano di non ricevere cure: 1200 sotto i cinque anni sono morti nello stato del White Nile solo tra maggio e settembre di quest’anno, ora la media è di quattro a settimana.
Per farla breve, e citiamo il sottosegretario generale Onu per gli affari umanitari Martin Griffiths, è “uno dei peggiori incubi umanitari della storia recente“.
E può andare peggio. Sono tante, troppe le denunce di crimini di guerra e contro l’umanità nel Sudan assediato:
Continuiamo a dire che la situazione è orribile e cupa. Ma, francamente, stiamo esaurendo le parole per descrivere l’orrore di ciò che sta accadendo in Sudan. Riceviamo notizie incessanti e spaventose di violenza sessuale e di genere, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie e gravi violazioni dei diritti umani e dei bambini. Quello che sta accadendo rasenta il male puro”
Le dichiarazioni di Clementine Nkwete-Salami, coordinatrice umanitaria Onu per il Sudan, non lasciano spazio a interpretazioni. Né all’indifferenza.
Come se non bastasse, l’ultimo brutale attacco contro i membri della comunità Masalit, stanati “di casa in casa” e assassinati a centinaia all’inizio di questo mese ad Ardamata (sarebbero più di un migliaio le vittime secondo le organizzazioni umanitarie e gli attivisti locali), fa sempre più vicino lo spettro di un nuovo genocidio nel Darfur. Per l’Unione Europea è in atto una campagna di pulizia etnica.
È ben noto che le forze ribelli siano legate a doppio filo alla milizia Janjaweed – i “diavoli a cavallo” protagonisti delle atrocità che vent’anni fa avevano sconvolto il mondo e che ora invece si consumano in un silenzio assordante. Ed era già successo a giugno, in questo nuovo conflitto combattuto anche (ancora) sulle linee etniche, che il loro passaggio nel West Darfur si lasciasse dietro fosse comuni e lunghe distese di cadaveri di sudanesi non arabi.
Ora i paramilitari dell’RSF e le milizie arabe loro alleate hanno firmato, nella sintesi del portavoce dell’Ufficio dell’alto commissariato Onu per i diritti umani Jeremy Laurence, “sei giorni di terrore” nella città a Nordest di El Geneina che ospitava anche un campo per sfollati.
Esecuzioni sommarie, alcuni forse bruciati vivi. Gli uomini torturati, le donne stuprate. Molti sfollati giustiziati e “i loro corpi lasciati insepolti per le strade“. Le case saccheggiate, i rifugi rasi al suolo. Dei deportati nei campi di detenzione gestiti dall’RSF, “il destino e l’ubicazione restano sconosciuti“. In una sola settimana, in 8 mila – probabilmente molti di più riferisce Unhcr – sono stati costretti a fuggire in Ciad.
Questo è il Sudan oggi. La guerra “ha trasformato le case sudanesi, precedentemente pacifiche, in cimiteri“, per rubare le parole dure e dritte di Dominique Hyde, direttrice delle relazioni esterne Unhcr, “e il mondo è scandalosamente silenzioso anche se le violazioni del diritto umanitario internazionale persistono impunemente“.
“Il mondo deve prestare attenzione“, ha ammonito pochi giorni fa dal suo profilo X l’Alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi. Invece il Sudan che corre veloce verso il disastro, non fa rumore.