Gaza, il giornalismo di guerra solleva nuove questioni etiche

[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale di Colleen Murrell pubblicato su The Conversation]

Fermo immagine dal documentario "War Photographer" del regista svizzero Christian Frei con James Nachtwey. Di Christian Frei da Wikimedia Commons con licenza CC
Fermo immagine dal documentario “War Photographer” del regista svizzero Christian Frei, con James Nachtwey. Di Christian Frei, da Wikimedia Commons con licenza CC

Chi vorrebbe essere un corrispondente di guerra a Gaza? Ogni giorno sui social media emerge una nuova accusa di faziosità. I reportage in diretta sono esposti – per i più sprovveduti – ai pericoli della speculazione, agli errori e alle trappole della disinformazione. Se poi aggiungiamo il luogo e il momento più esplosivi del mondo, le accuse di pregiudizio non potranno che fioccare. D’altra parte, come dice Phil Chetwynd, direttore delle notizie internazionali per AFP, un’agenzia di stampa francese: “Il nostro lavoro non ci è mai sembrato più importante”.

Per quanto riguarda questo conflitto, la corrispondenza più pericolosa è stata portata avanti dai giornalisti palestinesi all’interno della Striscia; mentre i reporter stranieri hanno dovuto lavorare da Israele e dalla Cisgiordania. Al momento, è stata riferita la morte di 40 giornalisti durante gli scontri, 35 dei quali erano palestinesi.

Jon Donnison, un corrispondente della BBC, è stato accusato di pregiudizi contro Israele per quanto espresso nei servizi realizzati immediatamente dopo l’esplosione all’ospedale Al-Ahli il 17 ottobre. Donnison sostiene di aver chiesto un commento all’esercito israeliano e di essere ancora alle prese con l’inchiesta: “Ma è difficile immaginare che potrebbe essersi trattato d’altro, considerata l’entità dell’esplosione, se non di un’incursione aerea di Israele o più attacchi aerei”.

In seguito alla smentita di Israele, il vice direttore generale di BBC News Jonathan Munro ha dichiarato che “il linguaggio non era perfetto” ma “in nessun momento abbiamo detto che gli israeliani fossero i responsabili“.

La BBC è stata inoltre bersagliata perché non utilizza la parola “terroristi” in riferimento ai militanti di Hamas. Si tratta di una tradizione di lunga data da parte della BBC, quella di non etichettare una parte o l’altra con tale termine, che è stata condannata da alcuni media e anche da Westminster – ma che è stata difesa a spada tratta da corrispondenti veterani come John Simpson:

Noi non ci schieriamo. Non usiamo parole fortemente connotate come “malvagio” o “vile”. Non parliamo di “terroristi”. E non siamo gli unici a seguire questa linea. Alcune delle agenzie di stampa più rispettate al mondo hanno esattamente la stessa politica.

Aggregati agli avversari

Un mese dopo gli attacchi del 7 ottobre a Israele da parte di Hamas, molte di queste rispettate agenzie di stampa sono state accusate di essersi recate nei luoghi in questione con sospetta rapidità. Il sito web con sede negli USA e pro-Israele Honest Reporting ha fatto il nome di alcune organizzazioni come The New York Times, CNN, Associated Press e Reuters. Tutte hanno respinto con forza le insinuazioni.

AFP, accusata in seguito sui social media di aver raggiunto i luoghi teatro degli attacchi “troppo” presto, ha negato di essere in qualche modo “aggregata” ad Hamas. Phil Chetwynd di AFP ha minacciato una possibile querela per diffamazione, affermando dei suoi fotografi a Gaza:

Sono stati svegliati dal rumore dell’artiglieria e dei razzi e si sono diretti verso la frontiera tra Gaza e Israele. Tutti loro erano chiaramente identificati come giornalisti, sull’elmetto e il giubbotto antiproiettile. Le prime foto vicino alla frontiera sono state scattate un’ora dopo l’inizio degli attacchi… Abbiamo seguito gli avvenimenti come avremmo fatto con quasiasi altra notizia di rilievo.

Tuttavia, dopo ciò, sia l’AP che la CNN hanno attuato un “taglio netto” con un “giornalista freelance” di nome Hassan Eslayeh che si trovava sul luogo delle uccisioni e non indossava il giubbetto della stampa.

Screenshot fron X showing Palestinian photojournalist Hassan Eslayeh being embraced by Hamas leader Yahya SInwar.
CNN e AP hanno reciso ogni rapporto con il fotoreporter palestinese Hassan Eslayeh (che a quanto risulta ha lavorato con Quds Net News, un’agenzia di media palestinese). Schermata da X (precedentemente Twitter)

Sui social aveva circolato una foto di quest’uomo abbracciato al leader di Hamas Yahia Sinwar. Il responsabile delle relazioni con i media di AP, Lauren Easton, ha dichiarato: “Non lavoriamo più con Hassan Eslaiah, che è stato occasionalmente con AP come freelance e con altre agenzie di stampa a Gaza”.

Un altro tipo di “aggregazione” è finito sotto scrutinio in seguito ai viaggi stampa a Gaza con l’Israel Defence Forces (IDF) il 9 novembre. Vi hanno partecipato reporter di CNN, the Daily Mail e BBC (in questo caso Jeremy Bowen). Channel 4 News vi ha preso parte successivamente.

La decisione è stata ampiamente criticata su X con Rohan Talbot, responsabile dell’advocacy e delle campagne per Medical Aid for Palestinians, che ha descritto i giornalisti più anziani “comportarsi di fatto come stenografi per le comunicazioni dell’esercito israeliano“.

Quando l’ho riferito a Bowen, ha replicato: “Assurdo. Il punto è cosa fai del materiale e come metti alla prova gli interlocutori che hai di fronte. Inoltre è importante inserire il testo in un contesto. Dovevamo scegliere: stare fuori da Gaza o accettare alcune restrizioni in cambio dell’accesso”. Anche se l’IDF ha controllato il video per assicurarsi che non fossero stati rivelati dettagli sulle operazioni militari, né la BBC né Channel 4 News hanno dovuto mostrare in anticipo i loro testi.

Il fotografo dell'Associated Press Henri Huet ferito in una trincea in Vietnam nel 1967. Foto dell'utente mannhai da Flickr con licenza CC BY 2.0 Deed
Il fotografo dell’Associated Press Henri Huet ferito in una trincea in Vietnam nel 1967. Foto dell’utente mannhai da Flickr con licenza CC BY 2.0 Deed

Una pratica radicata nel tempo

Questo tipo di aggregazioni sono comuni nel giornalismo di guerra. Dalle guerre boere alle guerre del Golfo nel 1991 e 2003, reporter e fotografi di tutto il mondo sono stati aggregati alle truppe e censurati in caso avessero rivelate informazioni operative o, a volte, se avessero mostrato l’esercito in una cattiva luce.

La questione delle “considerazioni etiche” emerge più frequentemente se ci si aggrega agli avversari del proprio Paese o si intervistano coloro che sono ritenuti “nemici”. Secondo quanto riportato da Christina Lamb, ai tempi della guerra civile spagnola, la giornalista statunitense Virginia Cowles era considerata “particolarmente sospetta” dai colleghi Ernest Hemingway e Martha Gellhorn per aver intervistato i leader delle due parti in conflitto.

La storia dei media è piena di casi di giornalisti, fotografi e operatori che hanno seguito gli eventi “dall’altra parte”. Durante la guerra in Indocina negli anni Sessanta, il cameraman di Visnews Neil Davies fece delle riprese dal fronte sudvietnamita e in seguito con i Vietcong. Negli anni Ottanta, Sandy Gall di ITN seguiva regolarmente l’Afghan Northern Alliance e, durante la guerra del Golfo del 1991, il team della CNN fu criticato per essere rimasto dietro la linea nemica durante il bombardamento di Baghdad da parte degli alleati.

Mentre le media company possono, durante le loro riunioni, discutere a fondo delle implicazioni etiche derivanti dalle decisioni di aggregazione, oggi il problema è come avere informazioni sostanziali sull’attività e i contatti dei tanti freelance che spesso sostituiscono in prima linea quelli che una volta erano i giornalisti dipendenti.

[Voci Globali non è responsabile delle opinioni contenute negli articoli tradotti]

Gaia Resta

Traduttrice, editor e sottotitolista dall'inglese e dallo spagnolo in ambito culturale, in particolare il cinema e il teatro. L'interesse per un'analisi critica dell'attualità e per i diritti umani l'ha avvicinata al giornalismo di approfondimento e partecipativo.

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