Nagorno-Karabakh, resta alto rischio scontri. Civili ancora in fuga

Mappa del Nagorno -Karabakh nel 2023 con indicate le zone interessate dall’offensiva azera. Foto da Wikimedia Commons dell’utente Rr016 con licenza Creative Commons

Il 19 settembre 2023, l’Azerbaigian ha lanciato un attacco su larga scala contro l’enclave armena del Nagorno-Karabakh. I combattimenti sono proseguiti una giornata intera e hanno causato un numero elevato di perdite, portando alla resa l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. Dall’inizio dell’operazione militare azera un ingente flusso di armeni sta lasciato il Nagorno. Ne consegue una situazione umanitaria di assoluta gravità, che rischia di essere dimenticata dalla comunità internazionale.

La storia del Nagorno-Karabakh affonda le sue radici durante la costituzione dell’Unione Sovietica. Dopo essersi fronteggiati in guerra dopo del crollo della monarchia zarista, azeri e armeni ritornarono sotto l’orbita di Mosca con l’avvento dei bolscevichi. Nel 1922, la regione entrò a far parte della Repubblica Socialista Sovietica Azera, ma rimase principalmente a maggioranza armena. Con l’inizio della dissoluzione dell’URSS nel 1988,  si riaccesero le rivendicazioni nazionaliste sia della RSS Azera che di quella Armena. Nel 1991, la minoranza azera boicottò il referendum sull’indipendenza del Nagorno e ciò scatenò una sanguinosa guerra tra Baku e Yerevan, terminata soltanto nel 1994.

Durante gli scontri la popolazione azera in Armenia e nel Nagorno-Karabakh fu costretta ad abbandonare le proprie case a causa degli scontri. Nel 1992 a Khojaly 613 civili azeri morirono per mano delle truppe di Yerevan. L’accordo di Biškek nel 1994 concluse una guerra che aveva provocato circa 30.000 vittime e un milione di profughi. Per l’Azerbaigian, la perdita di una parte del proprio territorio e del Nagorno, favorì il consolidamento della dinastia politica degli Aliyev.

Gli Aliyev hanno portato avanti una serrata politica di potenziamento delle capacità militari del Paese. Assieme al riarmo, la dinastia ha affiancato una martellante propaganda nazionalista. Pertanto, le nuove generazioni sono cresciute all’ombra di visioni revansciste, covando ostilità e diffidenza nei confronti della vicina Armenia. In più, la situazione nel Paese per quanto riguarda la libertà d’espressione e i diritti umani, evidenzia sempre più il carattere autoritario dello Stato.

Civili armeni in fuga con le loro auto. Foto da Wikimedia Commons di Voice of America con licenza Creative Commons

Nonostante ciò, l’Azerbaigian ha acquisito un peso notevole nel Caucaso, dato il suo ruolo di fornitore di gas all’Unione Europea. UE che, fino al 19 settembre, ha sempre considerato l’Azerbaigian come un partner strategico nella regione. Oltre al sostegno della vicina Turchia, negli anni Baku ha stretto accordi di approvvigionamento militare con Israele, sfruttando la propria posizione strategica in funzione anti-iraniana. L’Armenia d’altro canto, nonostante la rivoluzione di velluto del 2018, che ha portato alla presidenza l’ex-giornalista Nikol Pashinyan è rimasta alleata di Mosca.

Dal 1994 Azerbaigian e Armenia sono rimaste bloccate in una situazione a lungo definita come “conflitto congelato”. I brevi, ma intensi scontri del 2016 avevano già dimostrato come tale definizione fosse inadeguata, ma è stato il conflitto del 2020 a riaprire definitivamente le ostilità tra Baku e Yerevan. Il 27 settembre 2020, l’Azerbaigian attaccò l’Armenia riconquistando una parte dei territori persi negli anni Novanta. In 44 giorni di scontro, le truppe armene furono costrette a ritirarsi e le vittime totali furono 7000 mentre le persone in fuga furono 100.000.

Nel novembre del 2020 entrò in vigore un cessate il fuoco garantito dalla Russia. Da quel momento, Mosca inviò un distaccamento di peacekeepers al fine di mantenere l’accordo e proteggere la popolazione armena rimasta entro i confini della Repubblica dell’Artsakh. Da allora, i preparativi per l’offensiva finale azera sono proseguiti. Dal dicembre 2022, il cosiddetto “corridoio di Lachin”, unica via di comunicazione tra la repubblica separatista e l’Armenia, è stato chiuso dagli azeri.

Ciò ha impedito l’arrivo di generi di prima necessità e medicinali aggravando la situazione umanitaria nella valle del Karabakh. Nonostante le pressioni fatte dall’Armenia sul contingente militare russo, il blocco azero è proseguito, fornendo alle truppe un notevole vantaggio sulle forze di autodifesa dell’Artsakh. Dopo una breve riapertura del corridoio di Lachin, lo scorso 19 settembre l’Azerbaigian ha attaccato le posizioni armene nel Karabakh.

Approfittando del disinteresse russo a causa della guerra in Ucraina, le truppe armene sono penetrate nel Nagorno-Karabakh mettendo fine all’esistenza della repubblica dell’Artsakh. Le operazioni militari si sono concentrate nell’arco di 24 ore con pesanti bombardamenti e operazioni di terra. Stepanakert (Khankendi per gli azeri) e le altre città dell’Artsakh sono state teatro di scontri tra armeni e azeri, che hanno provocato un numero elevato di vittime, come nel caso dell’esplosione di un deposito di carburante durante la resa dei separatisti.

Esplosione di un deposito di carburante nei pressi di Stepanakert. Foto da Wikimedia Commons dell’utente azatutyun.am con licenza Creative Commons

L’arrivo delle forze armate di Baku ha spinto decine di migliaia di persone a cercare rifugio in Armenia. Ad oggi, sono decine di migliaia quelle che hanno deciso di abbandonare le proprie case. Il timore è quello di subire violenze da parte dei militari azeri, continuando la spirale di vendetta e risentimento iniziata nel  1991. Baku ha arrestato i principali esponenti politici della cosiddetta Repubblica dell’Artsakh.

Tuttavia, il presidente azero Aliyev ha annunciato pubblicamente che la popolazione armena potrà rimanere in sicurezza e sarà considerata parte dell’Azerbaigian. La versione di Baku, fornita ai media internazionali, mostra un Azerbaigian multiculturale e pronto ad accogliere gli abitanti armeni del Nagorno. In realtà, diversi esperti da tempo hanno sottolineato come il multiculturalismo e l’apertura promossa dal Governo azero, non sia assolutamente veritiero.

Le minoranze in Azerbaigian non hanno un reale accesso alla vita pubblica nel Paese. L’ideologia di fondo che permea ogni angolo del dibattito pubblico azero è quella del panturchismo e del nazionalismo. Le paure dei rifugiati armeni sembrano avere una base di fondo piuttosto solida, considerando il carattere illiberale del Governo azero, appare piuttosto lontana la possibilità di un assorbimento non violento e pacifico

Anche il Parlamento Europeo ha dichiarato di considerare pulizia etnica l’esodo dei civili armeni dal Nagorno. Difatti, alcuni analisti hanno sottolineato come la violenza diretta non sia necessaria per eradicare una popolazione da un determinato territorio. La semplice minaccia, o la possibilità che vi siano delle ritorsioni sono da considersi pulizia etnica.

La situazione umanitaria è al momento critica. Nonostante il Comitato Internazionale della Croce Rossa e il personale delle Nazioni Unite abbiano avuto accesso ai luoghi del conflitto, la scarsità di farmaci e beni di prima necessità dovuta al blocco azero ha posto in seria difficoltà la sopravvivenza dei civili. Gli abitanti hanno abbandonato intere città in poche ore, riversandosi lungo il corridoio di Lachin, sperando di raggiungere l’Armenia e di  ottenere protezione da parte dei soldati russi.

L’elevato numero di arrivi rappresenta la quasi totalità della popolazione armena del Nagorno. Difatti, l’Armenia ha registrato l’arrivo 100.000 rifugiati, sottolineando la criticità della situazione e la necessità di una tempestiva e consistente mobilitazione della comunità internazionale. Lo scorso 5 ottobre, Pashinyan si era recato a Granada su invito dei leader europei al fine di discutere di un possibile piano di pace con la controparte azera e di concordare un pacchetto di aiuti umanitari per sostenere il Paese. Aliyev ha rifiutato l’incontro, suscitando la delusione dei leader europei. Mentre Vladimir Putin sembrerebbe voler aver abbandonare Yerevan a causa del suo probabile allineamento con Stati Uniti e UE.

Le prospettive di pace nel Caucaso sembrano crollare nuovamente sotto il peso della retorica nazionalista e aggressiva che da decenni anima le élites politiche locali. A farne le spese continua ad essere la popolazione civile, ostaggio di una spirale di violenza e vendetta che appare infinita.

Alessandro Cinciripini

Laureato in Studi dell’Africa e dell’Asia presso l’Università di Pavia, interessato a Vicino Oriente, Balcani e diritti umani. Attualmente a Sarajevo dove si occupa di progetti di promozione sociale e interculturale.

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