Aborto, nel mondo il 40% delle donne subisce leggi restrittive

Il tema del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è sulla scena del dibattito pubblico da decenni. Ciò è evidenziato anche dal fatto che il 28 settembre ricade la Giornata internazionale per l’aborto sicuro. Tale ricorrenza fu istituita nel 1990 per la depenalizzazione dell’aborto in Sud America e nei Caraibi. Nel 2011 il Women’s Global Network for Reproductive Rights la dichiarò “internazionale”.

L’aborto non sicuro è un problema particolarmente forte, conseguenza soprattutto delle leggi restrittive in materia. Ecco perché organismi, organizzazioni, singoli cittadini, continuano a ribadire l’assoluta necessità di fare in modo che tale pratica venga eliminata.

Nel 1994, in occasione della Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo del Cairo, 179 Governi firmarono un programma d’azione per la prevenzione dell’aborto non sicuro. E nel 2003 l’OMS ha adottato delle linee guida tecniche e politiche allo stesso scopo.

Nonostante tali sforzi, sono ancora moltissimi i Paesi che negano l’accesso all’aborto sicuro, il quale è tra l’altro considerato diritto alla salute. Ne consegue che la sua violazione sia a tutti gli effetti una violazione dei diritti umani. Pertanto, le leggi che lo criminalizzano sono anch’esse in violazione di tali diritti. Inoltre, come affermato dalla Commissione per l’Eliminazione delle Discriminazioni contro le Donne, ciò può costituire una violenza di genere assimilabile a tortura o trattamento inumano.

La diffusione del diritto all’aborto

Nei primi anni del nuovo millennio si è registrato un aumento del numero di Paesi che hanno liberalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza. Nel primo decennio, 29 Stati hanno modificato le loro leggi in materia e hanno ampliato le motivazioni giuridiche che consentano l’accesso a tale pratica. Tuttavia, questo diritto è ben lungi dall’essere universale.

Secondo gli ultimi dati raccolti dal Center for Reproductive Rights, organizzazione non profit che si occupa di salute riproduttiva, a giugno 2023 ventidue Paesi proibivano totalmente l’aborto, ciò corrisponde al 6% della popolazione femminile mondiale. Di contro, 77 Stati permettono di accedere a tale procedura su richiesta, con unico limite quello delle settimane di gravidanza, che si aggira intorno a dodici.

Per quanto riguarda il resto degli Stati, le condizioni per accedere all’aborto variano. Fra le più diffuse vi sono quelle relative allo stupro, a malformazioni del feto, incesto, o se la vita della madre è a rischio. Ma ancora oggi, in termini di popolazione, il 40% delle donne in età riproduttiva vive sotto leggi restrittive.

Sono moltissimi i Paesi che limitano fortemente l’accesso a tale diritto, andando ad aumentare il caso di aborti praticati illegalmente, e dunque in maniera poco sicura.

Molti di questi sono in Europa: in Andorra, Malta e San Marino la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza vieta tale pratica senza alcuna eccezione. Polonia, Monaco e Liechtenstein prevedono tale possibilità solo in caso di rischio di vita per la madre, stupro e grave malformazione del feto. In Gran Bretagna, Finlandia e Islanda la donna può abortire solo per preservare la propria salute fisica e mentale, per una malformazione del feto, per uno stupro, o a causa della propria condizione socioeconomica.

Foto dell'utente Emma Guliani di Pexels, contenuto ad uso gratuito
Foto dell’utente Emma Guliani di Pexels, contenuto ad uso gratuito

La doppia tendenza della liberalizzazione e del contrasto all’aborto

Gli ultimi decenni hanno visto una graduale liberalizzazione di tale pratica, in particolare in Centro e Sud America. Alla fine del 2020 infatti, il Senato argentino votò in favore della legalizzazione dell’aborto nelle prime quattordici settimane di gravidanza. Inoltre, negli scorsi giorni il Messico ha depenalizzato la pratica, rendendola quindi legale.

La tendenza è contraria negli Stati Uniti, specie dopo la decisione della Corte Suprema di annullare la storica sentenza Roe v. Wade. Ciò ha permesso ai singoli Stati di legiferare in materia di aborto, e ha portato ad una restrizione della possibilità di accesso a tale pratica.

Questa decisione ha generato un grande dibattito a livello internazionale, al punto che il Parlamento Europeo ha adottato alcune risoluzioni in cui ha condannato “il deterioramento della salute e dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne negli USA e in alcuni Paesi Ue”. Inoltre, i deputati hanno reso notto la decisione di presentare al Consiglio europeo una proposta per modificare l’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea al fine di includere il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza.

Tuttavia, la questione non è così semplice: per modificare la Carta è necessaria l’unanimità, che risulta molto difficile da ottenere, soprattutto per il parere negativo di Paesi come la Polonia. Per questo motivo, i deputati hanno anche presentato l’invito a convocare una Convenzione per la revisione dei trattati, in maniera da rimettere mano a tali strumenti e togliere il potere di veto agli Stati.

Inoltre, in tale risoluzione è stato evidenziato come, sia in Europa che al di fuori, ci sia stato un aumento di finanziamento a gruppi anti-genere e anti-scelta. Tenuto conto di tutto ciò, la risoluzione recita:

Esortiamo i Paesi UE a depenalizzare l’aborto, a eliminare e combattere le rimanenti restrizioni giuridiche, finanziare, sociali e pratiche in alcuni Stati membri.

Gli ostacoli che il diritto all’aborto trova, tuttavia, non sono solo a livello legislativo. Uno particolarmente presente è quello degli obiettori di coscienza: medici e operatori sanitari che si rifiutano di mettere in pratica l’aborto per ragioni personali.

Tale tendenza è molto diffusa in Italia, ma dovrebbe essere controbilanciata da politiche che permettano alle donne di accedere comunque alle cure richieste. Doverlo fare senza il supporto dello Stato ha conseguenze economiche importanti che gravano soprattutto sulle donne con meno risorse economiche.

Foto dell'utente Karolina Grabowska di Pexels, contenuto ad uso gratuito
Foto dell’utente Karolina Grabowska di Pexels, contenuto ad uso gratuito

La conseguenza dei limiti all’IVG: l’aborto non sicuro

Il problema alla base della criminalizzazione di tale pratica sta nel fatto che essa non viene dismessa, ma effettuata in maniera illegale e meno sicura. Leggi restrittive portano a danni enormi: i dati del Center for Reproductive Rights mostrano come ogni anno ci siano circa 39.000 morti causate dalla pratica non sicura dell’aborto.

Secondo i dati dell’OMS, nel 2021 circa il 45% delle interruzioni volontarie di gravidanza sono state praticate in maniera non sicura. Inoltre, ogni anno un numero tra il 4,7% e il 13,2% di decessi di donne incinte è riconducibile a tale problematica.

Molte donne infatti tentano da sole di abortire, o si rivolgono a chi lo fa senza autorizzazioni. Questo spesso porta ad errori nello svolgimento della pratica e a complicazioni più o meno gravi. Tanti i rischi fisici: infezioni, emorragie, perforazione dell’utero e danni agli organi interni. Anche i danni psicologici sono particolarmente importanti. Leggi restrittive sono infatti accompagnate dallo stigma, e spesso portano al mancato rispetto della privacy.

Inoltre, le cifre raccolte mostrano come dagli anni ’90 al 2019 il numero di procedure di aborto nei Paesi dove la pratica è ampiamente legale sia diminuita. Questo non comprendendo Cina e India, che hanno un grande impatto sulla media globale a causa delle dimensioni delle loro popolazioni. Al contrario, il numero di aborti nei Paesi dove la pratica è ristretta, o illegale, è aumentato.

La realtà delle cose mostra dunque come l’illegalità dell’aborto, o la presenza di leggi restrittive in materia, porta a numerosi danni, individuali e sociali. E mostra che i passi in avanti fatti negli ultimi anni non sono ancora sufficienti a garantire il diritto di scelta delle donne.

Gaia Santone

Laureata in Istituzioni e Organizzazioni per la Cooperazione presso UniCatt di Milano, ora frequenta il Master in Human Rights and Multilevel Governance presso UniPD. L’interesse per il giornalismo sorge dalla volontà di condividere fatti e idee relativi ai diritti umani nella speranza di un mondo maggiormente informato.

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