Ambiente, la carbon border tax voluta dall’UE danneggia l’Africa

[Traduzione a cura di Luciana Buttini dell’articolo originale di David Luke pubblicato su The Conversation.
Ha contribuito all’articolo
Faten Aggad, consulente senior per la diplomazia climatica presso l’African Climate Foundation. Lo studio a cui si fa riferimento è stato condotto dall’African Climate Foundation e il Firoz Lalji Institute for Africa della London School of Economics.]

Emissioni industriali. Immagine ripresa da Flickr/eutrophication&hypoxia in licenza CC
Emissioni industriali. Immagine ripresa da Flickr/eutrophication&hypoxia in licenza CC

Una nuova legge europea che prevede la prima tassa al mondo sul carbonio alla frontiera entrerà in vigore a ottobre 2023 e sarà applicata gradualmente nei prossimi tre anni, prima della sua piena attuazione.

Una carbon tax è un tipo di imposta applicata sulle emissioni di gas a effetto serra e ha lo scopo di incoraggiare le aziende ad adottare metodi di produzione ecologici. Ma in genere le imprese hanno la possibilità di aggirare la tassa trasferendo le unità di produzione al di fuori dell’UE in Paesi con condizioni meno rigide, come quelle adottate in Africa, ed esportando successivamente i prodotti nell’Unione Europea.

Ecco perché l’Europa ha proposto una normativa sul meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera.

Al momento emettere una tonnellata di anidride carbonica costa – alle aziende che operano all’interno dell’UE – circa 80 euro (l’equivalente di 86 dollari americani). Con il nuovo sistema, agli importatori verrà addebitato lo stesso importo per le emissioni di carbonio dei produttori nazionali.

La nuova politica si applicherà inizialmente alla produzione di ferro, acciaio, cemento, alluminio, fertilizzanti, idrogeno ed elettricità. Ma il meccanismo si è rivelato molto controverso.

Nel Nord del mondo l’adozione di questa tassa è stata accolta come un’azione positiva per il clima; i sostenitori la considerano come un’opportunità per l’UE di svolgere un ruolo di primo piano a livello globale nell’azione per il clima. Anche gli attivisti climatici nel Nord del pianeta ne sono entusiasti, sebbene uno studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo abbia concluso che la riduzione delle emissioni tramite il meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera rappresenta solo una piccola percentuale delle emissioni globali di CO₂.

Nel Sud del mondo la tassa è stata pesantemente criticata. Gli oppositori la interpretano come una misura di protezione dell’industria che avrà ripercussioni negative su regioni come quella africana.

La domanda che viene sollevata è se tale azione per il clima sia giusta.

Nel nostro rapporto appena pubblicato sottolineiamo come i settori interessati ovvero quelli della produzione di cemento, ferro e acciaio, alluminio, fertilizzanti ed elettricità siano i motori chiave delle economie africane. E concludiamo che la nuova tassa spazzerà via lo 0,91% del PIL combinato del Continente (il che equivale a un calo di 25 miliardi di dollari americani rispetto ai livelli del PIL del 2021).

Nel concreto, le perdite annuali derivanti dalla carbon border tax rappresentano, in valore, tre volte il budget per la cooperazione allo sviluppo che l’UE ha stanziato per l’Africa nel 2021. Nello stesso anno l’UE ha destinato 6,3 miliardi di euro (circa 6,8 miliardi di dollari) al Continente.

Riteniamo che l’Africa sarebbe la regione più colpita, rispetto al PIL. Questo perché l’UE rappresenta un mercato chiave per molte economie africane che esportano i prodotti interessati dalla nuova legge.

La nostra conclusione è che questa norma rappresenta una sfida significativa per l’Africa. Colpirà in modo sproporzionato le economie africane, grandi e piccole, anche se il Continente ha un’impronta di carbonio limitata. Ma notiamo anche che misure come questa sono destinate a durare: ciò che è necessario da parte dell’UE è un approccio differenziato che possa dare respiro ai Paesi al fine di adeguarsi, insieme a finanziamenti idonei.

Un terreno difficile

I nostri modelli mostrano che l’impatto delle nuove misure potrebbe essere mitigato qualora i Paesi africani dirottassero le loro esportazioni verso altri mercati, in particolare verso Cina e India.

Ma la diversificazione del mercato rappresenta una difficoltà per la maggior parte delle economie africane.

Prendiamo il caso del Mozambico. Il nostro modello ha rilevato che il Paese è particolarmente esposto alla nuova legge a causa delle sue esportazioni di alluminio verso l’UE, mentre il valore delle esportazioni verso la Cina è quasi trascurabile.

E potrebbero esserci altri problemi lungo la strada. In reazione alla legge dell’UE, altri Paesi che rappresentano potenziali mercati per l’Africa hanno annunciato l’intenzione di introdurre meccanismi simili nel tentativo di decarbonizzare il commercio.

Nel marzo scorso, il Regno Unito ha aperto le consultazioni per l’introduzione del suo meccanismo. A maggio, l’India ha annunciato che avrebbe reagito presentando un sistema tariffario. Gli Stati Uniti hanno introdotto la propria misura di ritorsione attraverso l’Inflation Reduction Act.

Nel tentativo di placare le critiche, Bruxelles e alcune capitali europee hanno lanciato l’idea di riciclare le entrate della nuova legge per aiutare i Paesi africani ad adeguarsi. Tuttavia, l’UE ha anche assunto un impegno vincolante a utilizzare le entrate per il proprio Fondo per l’innovazione. Ciò finanzierà lo sviluppo di nuove tecnologie nel blocco europeo.

In ogni caso, è improbabile che le entrate previste di 1 miliardo di euro generate dalla nuova legge compensino la maggiore perdita di entrate dei Paesi africani.

L’Africa potrebbe senza dubbio resistere all’impatto della legge se fosse in procinto di aumentare la sua capacità di produrre energia rinnovabile. Eppure, ad oggi, il Continente continua ad attrarre appena il 2% degli investimenti globali in energie rinnovabili. I finanziamenti per il clima promessi non arrivano e la stessa UE non ha contribuito con la sua giusta quota ai finanziamenti internazionali per il clima.

Un piano d’azione per reagire

I Paesi dovranno raggiungere con urgenza nuovi accordi per l’export e sbloccare nuovi mercati per le esportazioni per attenuare l’impatto della nuova legge. Questo sarà un compito arduo per il quale la maggior parte dei Paesi non è preparata.

L’accesso ad altri mercati dipenderà anche dalla direzione politica che i Paesi prenderanno mentre reagiscono a quella che è vista come una guerra commerciale e un aumento del protezionismo da parte dell’UE.

Considerando l’impronta di carbonio limitata del Continente e la sfida alla base industriale dell’UE, ciò che serve è un approccio differenziato che consenta alle Nazioni di adeguarsi, insieme a finanziamenti appropriati.

Il costo del percorso verso la transizione, unitamente agli adeguamenti politici richiesti, dovrebbe costituire la base della risposta africana. Misure come queste sono destinate a restare. I Paesi africani dovrebbero quindi prendere in considerazione un percorso per l’industrializzazione ecologica e ottenere sostegno attorno a tale agenda attraverso gli investimenti.

[Voci Globali non è responsabile delle opinioni contenute negli articoli tradotti]

Luciana Buttini

Laureata in Scienze della Mediazione Linguistica e Specializzata in Lingue per la cooperazione e la collaborazione internazionale, lavora come traduttrice freelance dal francese e dall'inglese in vari ambiti.

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