Francia, più repressiva e brutale la risposta dello Stato alle proteste

[Traduzione a cura di Luciana Buttini dell’articolo originale di Jacques de Maillard e Aurélien Restelli pubblicato su The Conversation]

Polizia anti-sommossa francese a Parigi. Immagine ripresa da Kristoffer Trolle/Flickr in licenza CC
Polizia anti-sommossa francese a Parigi. Immagine ripresa da Kristoffer Trolle/Flickr in licenza CC

Da quando si sono levate le prime proteste contro la riforma delle pensioni, all’inizio dell’anno, fino allo scorso 1° maggio, il rapporto tra le forze dell’ordine francesi e i manifestanti è stato caratterizzato da frequenti segnalazioni di reazioni intimidatorie e scontri violenti. Una situazione simile si era registrata anche durante gli anni 2010, in particolare durante il movimento dei gilet gialli.

Questo cambiamento è stato dimostrato nel lavoro di vari specialisti, che hanno basato le loro ricerche su interviste condotte ad agenti di polizia, gendarmi o membri delle istituzioni prefettizie, sui documenti interni e sugli archivi delle forze di sicurezza, e su comparazioni internazionali. La gestione negoziata dei conflitti sociali, basata sulla contrattazione con i sindacati e su una certa tolleranza per i disordini causati dai manifestanti, è stata sostituita da un modello molto più duro mirato a mantenere l’ordine pubblico. Lo scopo sembra essere quello di impedire le proteste, piuttosto che facilitarne il regolare svolgimento.

Il mantenimento dell’ordine pubblico è stato in effetti caratterizzato negli ultimi anni da una certa brutalità e da un atteggiamento più duro, compreso un maggiore ricorso a strumenti penali e amministrativi nei confronti dei manifestanti.

Un cambiamento fallimentare nella dottrina

Tuttavia, quando lo scorso gennaio erano iniziate le proteste contro la riforma delle pensioni, qualsiasi difficoltà riguardante il controllo delle manifestazioni sembrava storia antica. Fin dalla sostituzione di Didier Lallement con Laurent Nuñez come commissario di polizia di Parigi, si era preferito un approccio diverso alla gestione delle proteste nella capitale. Polizia e gendarmi non affiancano più i manifestanti a distanza ravvicinata, ma ora si posizionano più a distanza sulle strade adiacenti. E i sindacati con le loro forze di sicurezza sovraintendono all’organizzazione delle proteste in accordo con i funzionari e le forze dell’ordine.

Ma questa versione di un “ammorbidimento” non regge all’analisi, mascherando l’eccesso delle azioni della polizia nei confronti dei manifestanti. Lo scorso 19 gennaio, infatti, un giornalista freelance è rimasto ferito e ha dovuto farsi asportare un testicolo dopo essere stato colpito con un manganello da un poliziotto durante una manifestazione a Parigi. Inoltre, l’apparente cambio di strategia dopo la nomina di Laurent Nuñez non ha fermato i pestaggi ingiustificati di alcune decine di persone che protestavano pacificamente durante le cariche di polizia (19, 31  gennaio e 11 febbraio scorsi).

In particolare, dal 16 marzo in poi, e dopo che il Governo ha forzato la riforma delle pensioni senza voto applicando l’articolo 49.3 della Costituzione, giornalisti e osservatori hanno ampiamente documentato come le forze di polizia abbiano ricorso alla violenza fisica contro i manifestanti attraverso l’impiego di arresti arbitrari e tattiche di umiliazione durante le marce notturne (che i sindacati non avevano dichiarato) dopo l’applicazione dell’articolo 49.3.

Squadre interrogative e meccanismi legali

Si sono concentrate critiche soprattutto sull’attività dei BRAV-M, un’unità di polizia creata nel 2019 per reprimere le marce imprevedibili e indisciplinate dei gilet gialli. I video che circolavano sui social media mostravano i membri dei BRAV-M mentre investivano un manifestante a terra con una motocicletta, mettendo fuori combattimento gli altri con un colpo alla schiena o picchiando a caso le persone che attraversavano il loro percorso.

Eppure altre immagini testimoniano altrettanta violenza commessa dai membri di unità specializzate in sommosse e controllo della folla, come le Compagnies républicaines de sécurité (CRS) o la Compagnie d’Intervention (CI).

In totale, dall’inizio delle proteste, l’organo di controllo della polizia nazionale (IGPN) ha condotto 53 indagini legali, per lo più riguardanti la protesta del 1° maggio, mentre l’organismo di vigilanza per i diritti umani del Paese (vale a dire, in francese, défenseur des droits) ha visto 115 inchieste (dati al 17 aprile) circa le presunte violenze da parte della polizia.

Gli arresti, se così si possono definire, sono spesso arbitrari in quanto pochi sfociano, alla fine del processo, in un’accusa. E così, la sera del 16 marzo, nonostante siano state poste in stato di fermo 292 persone, la polizia ne ha denunciato solo nove, dispensando pene molto lievi.

Il giorno successivo, 64 persone sono state arrestate e 6 di loro incriminate. Ciò avvalora l’idea secondo la quale lo scopo della custodia cautelare non sia tanto quello di mettere un indagato davanti a un ufficiale di polizia giudiziaria, ma semplicemente quello di punire un individuo per aver partecipato a una protesta o svuotare le strade.

Un giro di vite graduale

Come spiegare questo tendenza alla repressione iniziata da metà maggio? Le forze di sicurezza, sostenute dal Governo e dai sindacati di polizia, lo spiegano in tre modi. Si tratta di argomenti già presentati durante le proteste dei gilet gialli nel dicembre del 2018.

La prima spiegazione riguarda il carattere tumultuoso delle proteste più recenti. Le routine di controllo delle proteste organizzate da diversi sindacati sono ritenute insufficienti per mantenere l’ordine. La seconda spiegazione indica il fatto che la polizia è stufa ed esausta per la frequenza di queste manifestazioni e le forze oberate di lavoro sono soggette a reazioni eccessive ed errori grossolani.

La terza spiegazione riguarda le violenze a cui sono sottoposte le forze di polizia, come hanno mostrato numerose immagini, come quella raffigurante un poliziotto caduto a terra dopo un colpo alla testa durante la protesta di Parigi del 23 marzo. I dati diffusi dal Ministero dell’Interno hanno rivelato che 441 agenti di polizia sono rimasti feriti durante un solo giorno nella capitale.

La violenza impiegata dalle forze di polizia viene quindi presentata come una risposta dello Stato a questa ondata. Queste spiegazioni non possono essere accantonate dato il repertorio in trasformazione dei manifestanti e la violenza dimostrata da alcune frange. Ciò è facilitato a Parigi dall’ambiente urbano, in particolare i mucchi di immondizia nelle strade.

Mancanza di interesse per le tecniche di allentamento della violenza

Esiste un persistente disinteresse da parte delle diverse autorità quali ministero degli Interni, Prefettura di polizia di Parigi, Polizia nazionale e Gendarmeria nazionale riguardo al concetto di allentamento della violenza.

Questo approccio mira a ritardare o addirittura a evitare il ricorso alla forza, privilegiando il più possibile altre strategie (ritardi, dialogo, ritiro delle forze di polizia). Ignorare queste strategie spinge le forze di sicurezza ad adottare tattiche brutali non appena c’è qualche segno di difficoltà. Questo distingue la Francia da un gran numero di Paesi europei.

Oltre a danneggiare la reputazione della Francia a livello internazionale, sostenere una strategia conflittuale ha due importanti effetti negativi.

In primo luogo ci sono conseguenze umane per le singole vittime che vanno dagli attacchi alla loro libertà di protesta fino ai gravi danni fisici. Una strategia conflittuale tende anche ad aumentare l’ostilità da parte dei manifestanti, anche quelli che all’inizio avevano intenzioni pacifiche.

Questo tipo di strategia porta generalmente a un maggiore antagonismo tra i manifestanti e le forze di sicurezza, i difensori dei diritti umani e gli organismi professionali incaricati di proteggere gli agenti di polizia. Qui sta il rischio della trappola dell’hard power: il peggioramento dei rapporti significa che la conformità si raggiunge solo attraverso la costrizione, come hanno dimostrato per molti anni le ricerche internazionali sul lavoro della polizia.

Cosa ci insegna la storia del lavoro di polizia

La storia della polizia mostra che certi periodi sono più favorevoli a un esame collettivo delle condizioni che garantiscono la legittimità della polizia. In Francia, tra gli anni Settanta e Novanta, è stato sviluppato un pacchetto di pratiche basato su tre principi (previsione, negoziazione e controllo). Si trattava di una prospettiva basata su una crescente accettazione del fatto che il conflitto potesse essere placato durante i movimenti di protesta. Le forze di sicurezza specializzate nel mantenimento dell’ordine come le squadre mobili di gendarmeria e le CRS hanno interiorizzato queste pratiche meno aggressive che si basano su un metodo di controllo collettivo.

In un recente lavoro, abbiamo sostenuto che il modello francese di polizia, che una volta traeva la sua legittimità dal preservare l’ordine politico, deve d’ora in poi adattarsi alla necessità di garantire la pace e rafforzare l’autorità dei suoi agenti agli occhi di una società francese più varia e disuguale.

Questa domanda diventa più importante nel contesto di mantenimento dell’ordine pubblico. In un momento in cui il funzionamento della democrazia rappresentativa viene strutturalmente messo in discussione e dove sicuramente emergeranno nuove forme di protesta, sembra essenziale prendersi il tempo per ripensare a come viene mantenuto l’ordine, bilanciando l’uso legittimo e proporzionale della forza con il rispetto delle libertà individuali.

Luciana Buttini

Laureata in Scienze della Mediazione Linguistica e Specializzata in Lingue per la cooperazione e la collaborazione internazionale, lavora come traduttrice freelance dal francese e dall'inglese in vari ambiti.

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