Turchia al voto, lo sguardo del mondo e l’autoritarismo di Erdoğan

La Turchia va al voto, in quelle che sono considerate le elezioni politiche più importanti del mondo nel 2023. Gli elettori si recheranno alle urne il 14 maggio, decidendo il destino della democrazia turca meno di tre mesi dopo che il terremoto del 6 febbraio ha ucciso più di 50.000 persone e provocato oltre 5,9 milioni di sfollati nel Sud della Turchia e nel Nord della Siria.

L’appuntamento elettorale arriva anche nel mezzo di una grave crisi economica e nel pieno di una involuzione democratica del Paese sotto il Governo di Erdoğan. I sondaggi prevedono un record di affluenza e una gara serrata tra Erdoğan e il principale candidato dell’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu, leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP) e a capo di un blocco a sei partiti Nation Alliance.

In realtà, la lotta per il potere è ben più agguerrita e ci sono quattro aspiranti alla presidenza dello Stato da 85 milioni di abitanti, crocevia strategico tra Europa, Asia e Medio Oriente. Oltre a Erdoğan e Kılıçdaroğlu, sono in corsa anche il leader centrista di Homeland Party (Partito della Patria) Muharrem İnce e il candidato di destra di Ancestral Alliance (Alleanza Ancestrale) Sinan Oğan.

La Turchia tiene le elezioni ogni cinque anni. Il voto parlamentare si svolge contemporaneamente a quello presidenziale, seguendo un sistema di rappresentanza proporzionale in Parlamento, in cui il numero di seggi che un partito ottiene è direttamente proporzionale ai voti espressi. Viene eletto presidente il candidato che raggiunge più del 50% dei voti al primo turno, ma se nessun candidato ottiene la maggioranza, si procede al ballottaggio (previsto per il 28 maggio) tra i due candidati che hanno raccolto il maggior numero di voti al primo turno.

Tutti i riflettori sono accesi sulla controversa figura del presidente in carica, Recep Tayyip Erdoğan, e sull’impatto globale che l’esito del voto scatenerà. Per l’attuale presidente turco, le elezioni hanno un enorme significato storico, arrivando proprio 100 anni dopo la fondazione della repubblica laica di Mustafa Kemal Atatürk.

Se Erdoğan vince, potrà imporre ancora di più la sua impronta sul destino di un Paese che è innegabilmente un tassello, a volte scomodo ma indispensabile, dello scacchiere geopolitico odierno. Il timore in Occidente è che la conferma del presidente sarebbe cruciale per spingere la nazione verso un modello sempre più religiosamente conservatore e con poteri crescenti incentrati sulla sua persona.

La maggior parte degli osservatori identificano il punto di svolta autoritaria di Erdoğan nelle proteste di Gezi Park del 2013, quando i manifestanti hanno cercato di impedire che uno spazio verde a Istanbul venisse demolito per fare posto a un centro commerciale. Le proteste – alla fine represse con gas lacrimogeni e cannoni ad acqua – si sono presto allargate e trasformate in una voce di dissenso nazionale contro il clientelismo e la politica da “uomo forte” di Erdoğan.

Demir Murat Seyrek, professore presso la Scuola di governance di Bruxelles, ha affermato in una intervista che in quella occasione per la prima volta il presidente ha sentito che “la minaccia era contro di lui” piuttosto che contro il partito al Governo. Non solo, le manifestazioni sono diventate il simbolo della deriva autoritaria di Erdoğan, suscitando indignazione internazionale per la brutalità della repressione da parte della polizia. Il bilancio fu drammatico: 11 morti e oltre 8.163 feriti, rendendolo uno degli avvenimenti più impattanti e vergognosi della storia della Turchia moderna.

L’ultima goccia che ha di fatto cancellato la dimensione democratica del Paese è stata un tentativo di colpo di Stato nel 2016 – i cui fatti rimangono oscuri – che ha spinto Erdoğan a tenere un referendum nell’aprile 2017 sul passaggio a un sistema presidenziale. La vittoria a favore della riforma è avvenuta con un margine ristretto (51,4%) e l’opposizione continua a contestare il risultato, anche perché il voto si è svolto durante uno stato di emergenza post-golpe.

Tuttavia, da lì il processo di involuzione democratica è proseguito, plasmando la Turchia di oggi. Secondo l’ultimo report di osservazione dell’organizzazione internazionale Freedom House:

Il presidente Recep Tayyip Erdoğan e il suo Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), che governano la Turchia dal 2002, sono diventati sempre più autoritari negli ultimi anni, consolidando un potere significativo attraverso modifiche costituzionali e imprigionando oppositori e critici. L’aggravarsi della crisi economica e le imminenti elezioni del 2023 hanno dato al Governo nuovi incentivi per sopprimere il dissenso e limitare il dibattito pubblico.

Sulla stessa scia, Human Rigths Watch sottolinea nella sua più recente scheda Paese che: “il Governo presidenziale autoritario e altamente centralizzato di Recep Tayyip Erdoğan ha riportato indietro di decenni i diritti umani in Turchia, prendendo di mira presunti critici del Governo e oppositori politici, minando profondamente l’indipendenza della magistratura e svuotando le istituzioni democratiche.

La Turchia si è ritirata dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) ed è soggetta a una procedura d’infrazione del Consiglio d’Europa per la mancata attuazione di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ordinava il rilascio del difensore dei diritti umani incarcerato Osman Kavala.”

Kemal Kılıçdaroğlu potrebbe vincere le elezioni in Turchia, in una storica sconfitta di Erdoğan che secondo alcuni analisti non verrebbe accettata dall’attuale presidente. Foto da Wikimedia Commons

Solo per citare alcuni esempi di gravi violazioni dei diritti umani, civili e sociali nella Turchia di Erdoğan, secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ), il Paese è stato il quarto più grande “carceriere” di giornalisti al mondo nel 2022, con 40 giornalisti finiti in prigione alla fine dell’anno. Il gruppo ha osservato che le autorità turche avevano arrestato 25 giornalisti curdi nella seconda metà del 2022, i quali sono stati tutti incarcerati e accusati di terrorismo per presunti legami con il PKK. I giornalisti hanno subito attacchi fisici, in particolare quelli che si occupano di politica, corruzione o criminalità.

A ottobre 2022, il Parlamento ha introdotto emendamenti a diverse leggi in un pacchetto denominato “legge sulla censura”. Le misure includevano l’introduzione di un nuovo reato di “diffusione pubblica di disinformazione“, aumentando i poteri dell’Autorità per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per costringere le società di social media a rimuovere i contenuti e fornire dati degli utenti al fine di essere così strettamente controllati.

I sostenitori della libertà di stampa e l’opposizione hanno pesantemente criticato il linguaggio vago della legge e hanno avvertito che potrebbe essere usata come strumento per mettere ulteriormente a tacere i giornalisti indipendenti. A dicembre 2022, un tribunale ha ordinato il primo arresto ai sensi della legge, ponendo in custodia cautelare un giornalista curdo (poi rilasciato) per aver pubblicato un post su Twitter sulla presunta violenza sessuale di una ragazza di 14 anni da parte di agenti di polizia e soldati.

I politici, compresi i funzionari governativi, hanno regolarmente utilizzato incitamento all’odio e campagne diffamatorie, amplificate da alcuni media, contro la comunità LGBTI. Discriminazione, intimidazione e violenza sono state particolarmente evidenti in contesti di eventi come il Pride festival, quando la polizia ha tentato violentemente di disperdere cortei pacifici e ha arrestato i partecipanti.

A settembre 2022, l’ente radiotelevisivo statale RTÜK ha approvato un annuncio pubblicitario in cui le persone LGBTI venivano definite “virus” e accusate di aver causato la “distruzione delle famiglie”.

Durante tutto lo scorso anno, le forze di sicurezza hanno utilizzato gas lacrimogeni, spray al peperoncino e altre tattiche violente per disperdere i manifestanti nelle proteste del Primo Maggio, nelle parate dell’orgoglio LGBT+ di Istanbul e Ankara, nelle celebrazioni della Giornata della donna, nelle marce contro la violenza di genere (GBV), nelle proteste contro gli aumenti dei prezzi e aumento dell’inflazione e altri grandi raduni. La polizia ha arrestato dozzine di manifestanti al Pride di Ankara e più di 200 persone al Pride di Istanbul.

In questo contesto si inserisce la campagna elettorale di Erdoğan, durante la quale ha esortato il popolo dicendo: “O eleggeremo coloro che si prendono cura dell’istituto familiare, che è il pilastro principale della società, o coloro che hanno il sostegno di menti deviate e ostili alla famiglia.”

Le autorità hanno anche represso i festival musicali, un punto fermo della vita culturale per i giovani turchi. Governatori e sindaci di più province hanno cancellato o vietato almeno 12 concerti e manifestazioni tra maggio e agosto 2022, usando vari pretesti tra cui le  preoccupazioni ambientali.

L’indipendenza della magistratura è stata gravemente compromessa. Dal 2016 migliaia di giudici e pubblici ministeri sono stati sostituiti da lealisti del Governo. Con il sistema presidenziale entrato in vigore nel 2018, i membri del Consiglio dei giudici e dei pubblici ministeri della Turchia, che sovrintende alle nomine giudiziarie e ai provvedimenti disciplinari misure, sono nominati dal Parlamento e dal presidente piuttosto che dai membri della magistratura.

L’elenco di soprusi e violazioni di basilari diritti sarebbe ancora lungo. Erdoğan, invece, si sta proponendo come la voce della maggioranza del popolo, sottolineando la crucialità del “decoro islamico” e dei valori della famiglia tradizionale, mentre afferma che i suoi avversari sono alleati con i terroristi, l’occidente imperialista, l’oscura alta finanza internazionale e le organizzazioni LGBTQ+. I principali partiti rivali vengono liquidati come fascisti e pervertiti, e prevede che i suoi elettori “faranno scoppiare” le urne con la loro ondata di sostegno il 14 maggio.

Anche per questo le elezioni sono osservate speciali: ci si chiede se questa deriva sia davvero arrivata al capolinea. Kemal Kılıçdaroğlu, soprannominato il “Gandhi turco”, promette grandi cambiamenti. In primis: il ritorno alla centralità del Parlamento e l’avvio di riforme per la liberalizzazione in termini di stato di diritto, libertà dei media e depoliticizzazione della magistratura. Il tutto, anche per riavvicinarsi all’UE, della quale è ancora candidata per l’adesione.

Sullo sfondo, ma non troppo, c’è la crisi economica. Dalla fine del 2021, l’amministrazione Erdoğan ha seguito una politica economica molto discutibile, incentrata su bassi tassi di interesse (nonostante i prezzi alle stelle, solitamente combattuti con tassi di interesse in rialzo), sperando di rilanciare la ripresa e consentire alla lira di deprezzarsi rispetto al dollaro Usa e all’euro, a favore delle esportazioni.

Il 6 febbraio 2023, due violenti terremoti hanno devastato il Sud-est della Turchia, uccidendo più di 50.000 persone e spingendo circa 3,5 milioni di cittadini alla fuga. La zona, considerata roccaforte elettorale di Erdoğan, potrebbe voltare le spalle al presidente per la rabbia relativa ai soccorsi inadeguati e per la crescita senza controllo e senza scrupoli dell’edilizia. Foto da Video di DW

La Banca centrale turca, che da indipendente è diventata strettamente legata alla volontà di Erdoğan nelle sue decisioni, ha ripetutamente ridotto il suo tasso di riferimento principale nonostante l’aumento dell’inflazione, causando la caduta della lira turca con forti crolli alla fine del 2021 e all’inizio del 2022.

Di conseguenza, il disavanzo delle partite correnti (le entrate derivanti dal commercio in beni e servizi e dai trasferimenti sono minori delle uscite attinenti alle stesse voci) è aumentato, con la nazione costretta a importare a costi maggiori per il tasso di cambio sfavorevole. L’inflazione annuale, intanto, rimane superiore al 40% dopo picchi di quasi il 90%, e il tasso di crescita economica è insostenibile. 

In gioco, infine, ci sono le relazioni strategiche a livello internazionale e la posizione della Turchia in dossier di politica estera cruciali per il mondo. Le elezioni peseranno molto sulla sicurezza in Europa e Medio Oriente. Chi viene eletto deve definire: il ruolo della Turchia nell’alleanza NATO; le sue relazioni con gli Stati Uniti, l’UE e la Russia; la politica migratoria; il ruolo di Ankara nella guerra in Ucraina; la gestione delle tensioni nel Mediterraneo orientale.

Per esempio, i rapporti militari con gli Stati Uniti si sono inaspriti bruscamente nel 2019, quando Ankara ha acquistato il sistema missilistico S-400 di fabbricazione russa, una mossa che secondo Washington avrebbe messo a rischio gli aerei della NATO che sorvolano la Turchia. In risposta, gli Stati Uniti hanno espulso Ankara dal programma di caccia a reazione F-35 e hanno imposto sanzioni all’industria della difesa turca.

Un incontro a fine marzo tra il leader dell’opposizione Kılıçdaroğlu e l’ambasciatore americano ad Ankara Jeff Flake ha fatto infuriare Erdoğan, che lo ha visto come un’ingerenza Usa nelle elezioni.

Inoltre, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la Turchia si è presentata nel ruolo di intermediario. Il Paese continua a fornire armi, soprattutto droni, all’Ucraina, rifiutandosi di sanzionare la Russia. Ha anche mediato un accordo delle Nazioni Unite che consente alle esportazioni di grano ucraino di passare attraverso il Mar Nero. Secondo alcuni analisti, sotto la guida di Kılıçdaroğlu, la Turchia sarebbe disposta a continuare ad agire come mediatore ed estendere l’accordo sul grano, ma porrebbe maggiore enfasi sullo status di Ankara come membro della NATO.

Molto calda è anche la questione siriana. La Turchia ospita circa 4 milioni di siriani e molti turchi, alle prese con una grave crisi del costo della vita, stanno diventando sempre più ostili all’accoglienza. Kılıçdaroğlu si è impegnato a creare opportunità e condizioni per il ritorno volontario dei siriani. Anche Erdoğan sta cercando di stabilire un riavvicinamento con la Siria, ma il presidente Bashar al-Assad dice che incontrerà il presidente turco solo quando Ankara sarà pronta a ritirare completamente i suoi militari dal Nord della Siria. Secondo un’analisi di Middle East Istitute, le elezioni “rappresenteranno un punto di svolta critico nella storia del Paese e potrebbero avere un impatto significativo sul futuro della Siria, e in particolare del Nord-Ovest, dove le autorità turche esercitano una notevole influenza”.

Il conflitto siriano e le sue conseguenze, compresa la presenza delle forze turche nel Nord-Ovest della Siria, la crisi dei rifugiati e la possibilità di normalizzazione con il regime siriano, sono temi molto dibattuti in Turchia e spesso utilizzati dall’opposizione per criticare l’attuale Governo. Con una vittoria dell’opposizione, si chiedono gli analisti, “si perseguirà con un completo capovolgimento della politica turca in Siria? O il presidente cercherà relazioni amichevoli con l’UE e sosterrà i principi del diritto internazionale, anche se collabora con il regime di Assad per costringere milioni di rifugiati a tornare in Siria?”

Risposte sono attese infine per le tensioni nel Mediterraneo orientale. La Turchia ha intensificato la sua retorica contro la Grecia negli ultimi mesi, in mezzo a quello che Ankara vede come un crescente rafforzamento militare sulle isole greche dell’Egeo, vicino alla costa turca.

Nonostante siano alleati della NATO, i due Paesi vicini sono stati in disaccordo per decenni su una serie di controversie bilaterali, che riguardano i confini marittimi, le rivendicazioni per le piattaforme continentali e la disputa di lunga data su Cipro. La Turchia è l’unico Stato al mondo che riconosce l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord creata dopo che la guerra del 1974 ha diviso l’isola.

In questo intricato scenario interno e internazionale, il voto turco è osservato speciale in tutta la sua complessità. L’Europa in primis attende di conoscere il presidente eletto.

Violetta Silvestri

Copywriter di professione mantiene viva la passione per il diritto internazionale, la geopolitica e i diritti umani, maturata durante gli studi di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, perché è convinta che la conoscenza sia il primo passo per la giustizia.

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