Migrazione: Messico, India, Africa; storie di donne che rimangono
[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale pubblicato su The New Humanitarian. Le testimonianze riportate sono state raccolte da Magdalena e Noel Rojo all’interno del loro progetto Women Who Stay. Negli ultimi cinque anni, hanno documentato le vite di oltre 70 donne che sono rimaste in India, Messico, Etiopia, Senegal, Romania e Slovacchia mentre i loro omologhi maschili sono emigrati.]
La maggior parte delle volte, scrivere di migrazione significa raccontare le storie delle persone che si spostano: quelle obbligate a lasciare le proprie abitazioni a causa di disastri naturali, conflitti, violenze o degli effetti del cambiamento climatico, o quelle talmente esasperate dalle pressoché inesistenti opportunità economiche, dalla corruzione e dal malgoverno, che il più flebile bagliore di una possibilità all’orizzonte è sufficiente a farle partire.
I viaggi migratori sono drammatici, e quindi attraggono l’attenzione. Ma c’è un altro lato della medaglia che viene spesso trascurato: per quasi ogni persona che parte, ce ne sono altre che rimangono. Spesso si tratta di donne la cui mobilità è limitata dalle norme sociali e da ruoli di genere definiti in base a visioni miopi.
Nel corso degli ultimi sei anni, abbiamo intervistato più di 60 donne in India, Messico, Etiopia e Senegal, le cui vite sono state plasmate in maniera diretta e significativa dalla migrazione, anche se non sono state loro a migrare. Il progetto che abbiamo creato, Women Who Stay, si pone l’obiettivo di raccontare le loro storie e offrire un quadro più completo di ciò che la migrazione significa. Ecco quello che abbiamo imparato.
L’impatto economico della migrazione sulle donne è complesso
Quando gli uomini migrano, le loro famiglie spesso si ritrovano a stare meglio dal punto di vista finanziario rispetto ad altri nuclei della stessa comunità. Ma le rimesse dall’estero non coprono necessariamente tutti i bisogni di una famiglia e vengono spesso distribuite tra numerosi parenti.
Di conseguenza, le donne che restano devono necessariamente guadagnare dei soldi. Un peso, questo, che va ad aggiungersi al carico del lavoro domestico, ma anche un modo per ottenere un certo grado di indipendenza economica che altrimenti non avrebbero mai avuto.
Nel 2018, per esempio, abbiamo incontrato Magat a Ndiébène Gandiole, un villaggio costiero nel Nord del Senegal. Magat, una donna Wolof sui trent’anni, era sposata con Diop, un pescatore. Come molti altri, Diop faticava a guadagnarsi da vivere a causa delle navi provenienti da Cina, Russia ed Unione Europea che affollavano sempre più le acque senegalesi.
Nel 2006 Diop era partito per la Spagna dove aveva continuato a lavorare come pescatore, inviando le rimesse a casa. Nel frattempo Magat si era fatta carico delle sue responsabilità di madre mentre, per di più, lavorava per incrementare le entrate famigliari.
Una mattina, mentre parlavamo, Magat portava sua figlia di quattro anni Jasin alla gabbia dei tacchini nel loro cortile. Oltre ad occuparsi degli animali, “ogni mattina dopo aver pulito e cucinato, vado nel mio negozio di alimentari lungo la strada. Lo apro alle sette in punto“, ha raccontato Magat. “Se c’è qualche festa nel villaggio, vado a fare le trecce alle donne“.
Nonostante le difficoltà, la disponibilità di due entrate ha dato alla famiglia una certa stabilità economica: quando abbiamo conosciuto Magat, stava supervisionando la costruzione della loro nuova casa.
La migrazione è una scommessa che può lasciare le donne da sole, ma a volte pone fine alla violenza
Per le persone che non possono ottenere un visto, attraversare i confini in maniera irregolare significa affidarsi a trafficanti che si fanno pagare centinaia o migliaia di dollari per i loro servizi. Molte famiglie non possono permettersi di anticipare cifre di queste entità e sono costrette a indebitarsi per mandare un parente all’estero.
Le famiglie sperano che ne valga la pena, sul lungo termine, in vista dei benefici economici che la migrazione può comportare. Ma sul breve termine le donne spesso devono lavorare per mantenere figli e parenti finché il debito non verrà ripagato.
Questo è il caso di Raquel Cruz, che abbiamo incontrato nel 2017 nella umida regione collinare di La Huasteca nello Stato messicano di San Luis Potosí. Suo marito Leo si trovava negli Stati Uniti. Era partito e tornato svariate volte. “Leo sta ancora ripagando il prestito che abbiamo chiesto alla banca quando ha deciso di tornare negli USA“, ha raccontato Raquel.
Raquel cucinava i pasti per gli insegnanti della scuola locale e raccoglieva il miele per poi venderlo con l’aiuto di una ONG del posto.
Anche Flor Mateo, di San Marcos Tlapazola nello Stato messicano di Oaxaca, si è trovata a dover lavorare, ma per ragioni diverse: dopo essere emigrato negli Stati Uniti, il marito aveva abbondonato lei e la figlia. “Non volevo gravare sui miei genitori, così ho iniziato a lavorare e mia figlia è andata all’asilo“, ci ha detto Flor quando l’abbiamo incontrata nel 2017.
Ci ha raccontato che il marito era violento, quindi la sua partenza era stata motivo di sollievo. “Era aggressivo, mi picchiava… anche quando ero incinta e dopo che era nata nostra figlia. Ma siamo rimasti insieme, perché pensavamo che fosse la cosa migliore per lei” ha riferito Flor. “La sua decisione di andare negli USA è stata la cosa migliore che potesse capitarmi”.
Altre donne – che vengono abbandonate o i cui figli o mariti sono tra le migliaia di persone che ogni anno muoiono o scompaiono durante i viaggi migratori – spesso hanno difficoltà a livello psicologico e non riescono ad accettare la perdita subita.
“Preferirei morire che continuare a vivere così” ha detto Mama Lethay Kahsai, una donna sui cinquant’anni che abbiamo incontrato nel villaggio di Dega, regione etiope del Tigray, nel 2018 prima che scoppiasse la guerra. Suo figlio è morto dopo essere emigrato in Arabia Saudita, una meta popolare tra gli etiopi. Mama Lethay ha appreso della morte del figlio da un vicino e ora dipende completamente dal supporto della comunità e delle ONG.
La migrazione determina i matrimoni delle donne e la loro capacità di accedere all’istruzione
In molti dei Paesi nei quali abbiamo lavorato – tra i quali le comunità indigene Adivasi del Rajasthan meridionale in India – i genitori consideravano gli uomini che erano emigrati come ottimi sposi per le loro figlie.
Molti uomini Adivasi vanno a lavorare nello Stato indiano del Gujarat. “Mio padre ha conosciuto mio marito mentre lavoravano in una fabbrica”, ci ha raccontato Pushpa Devi nel villaggio di Salkal. “Sapeva che avrebbe coperto le spese del matrimonio con i suoi risparmi e questo significava che era un gran lavoratore“.
Pushpa si è sposata quando aveva 15 anni, un fatto non inusuale tra gli Adivasi. Un matrimonio precoce in genere significa che i genitori della ragazza non investono nella sua istruzione, cosa che comporta conseguenze per tutta la vita. “Non posso più aiutare mio figlio più grande a fare i compiti perché non conosco l’inglese e neanche la matematica“, ha detto Pushpa.
L’antropologa Nelly López ha affermato che, tuttavia, nello Stato di San Luis Potosí la migrazione ha contribuito alla tendenza per cui le donne si sposano più tardi e continuano a studiare. “Le famiglie stesse dicono alle donne di aspettare a sposarsi e di completare prima gli studi“, ha spiegato López.
Le donne di San Luis Potosí, quando si sposano, spesso scelgono partner che sono emigrati. “Non soltanto per via della situazione economica“, ha detto López. “Se sposi qualcuno che è stato negli USA, significa che sa cucinare, fare il bucato e, sì, potrebbe già avere una casa di proprietà“.
La migrazione ha un effetto sui bambini, e le donne che restano devono gestirlo
Una delle ragioni principali per cui i padri con cui abbiamo parlato migrano è quella di assicurare un futuro migliore ai loro figli. Ma le donne che restano affermano che assumersi da sole la responsabilità dell’essere genitori è una delle difficoltà maggiori che si trovano ad affrontare.
Dover fare da madre e da padre ha un impatto sul rapporto con i figli, i quali a loro volta faticano ad adeguarsi all’assenza del padre.
Per esempio, nel 2017 abbiamo conosciuto Keyssy, una bambina di cinque anni, residente nella regione di Istmo nello Stato messicano di Oaxaca. Quando è nata, suo padre si trovava negli USA. E aveva già tre anni quando lui è tornato. Nel frattempo Keyssy chiamava “papà” lo zio. Quando il vero padre è tornato, ci è voluto tempo perché Keyssy si abituasse alla sua presenza in casa.
Quando Flor ha mandato sua figlia all’asilo in seguito all’abbandono del marito, ha notato alcuni cambiamenti nel comportamento della bambina. “Le insegnanti mi dicevano che era più aggressiva“, ha raccontato Flor, che ha poi deciso di chiedere supporto psicologico.
Le donne che restano devono spesso affrontare gli effetti del cambiamento climatico
Molti dei luoghi in cui abbiamo lavorato sono caratterizzati da un clima estremo che si sta facendo sempre più ostile per via degli effetti della crisi climatica. Alcune delle donne che abbiamo conosciuto hanno deciso di provare ad adattarsi, spesso con l’aiuto di organizzazioni locali o internazionali. Altre hanno scelto di emigrare.
A Dega, nel Tigray, abbiamo incontrato Tsega, una 45enne madre di quattro bambini. Come altre donne del villaggio, Tsega ogni giorno percorreva chilometri a piedi per prendere l’acqua dal pozzo più vicino. “Prima che mio marito partisse, non avevamo terra da coltivare, e nessun mezzo per guadagnarci da vivere“, ha raccontato.
Dagli anni Ottanta, Dega è stato colpita ciclicamente da stagioni di siccità sempre più intense che hanno distrutto i mezzi di sostentamento della popolazione. Come molti altri etiopi, il marito di Tsega è emigrato in Arabia Saudita nel 2008 in cerca di lavoro. Dopo non aver ricevuto denaro dall’uomo per alcuni mesi, e temendo che l’avesse abbandonata, Tsega ha deciso di andare a cercarlo in Arabia Saudita e di guadagnare i soldi necessari a mantenere i loro figli.
Lasciando i bambini alle cure dei parenti, Tsega ha percorso un sentiero già battuto da tante donne etiopi che si recano nei Paesi del Golfo e del Medio Oriente per lavorare come domestiche. Tsega ha poi trovato il marito ed è riuscita a guadagnare del denaro da inviare ai figli. Ma come altre domestiche di quella zona, ha anche dovuto affrontare sfruttamento e abusi.
Nel 2013, Tsega e suo marito sono stati rimpatriati e hanno fatto ritorno a Dega, dove hanno continuato a stento a racimolare di che vivere, tra gli effetti in peggioramento della crisi climatica.
Nella regione di Sierra Norte dello Stato di Oaxaca in Messico, dove la maggior parte del popolo indigeno Mixe dipende dalla produzione di caffé per la propria sopravvivenza, il cambiamento climatico ha portato una malattia chiamata “ruggine del caffé” che nel 2015 ha distrutto le piante nei dintorni del villaggio di San Isidro Huayapám. Come conseguenza di ciò, molti uomini della regione sono emigrati in cerca di lavoro.
“I miei otto figli coltivavano il caffé, ma dopo la ruggine sono dovuti andar via“, ha raccontato la 69enne Irene Jimenéz Almaraz quando abbiamo parlato con lei nel soggiorno di casa sua, nel 2019.
Invece di rinunciare alle coltivazioni di caffé, Irene si è messa al lavoro per contenere gli effetti del cambiamento climatico. Con l’aiuto di una ONG, ha aperto un asilo nido e ha cominciato a piantare diverse varietà di caffé per capire quale sia più resistente alla ruggine. “Il caffé ha bisogno di molte cure, il terreno va ripulito ogni due mesi. Ma lavoro, un passo dopo l’altro, perché il caffé è tutto ciò che ho”, ha detto Irene.
La migrazione degli uomini può dare alle donne l’opportunità di diventare più attive e impegnate sul fronte politico
Questo aspetto è stato per noi evidente tra gli Adivasi in India, dove le donne hanno organizzato dei gruppi di solidarietà con l’aiuto delle ONG per reagire ai funzionari corrotti che si erano appropriati degli assegni governativi destinati alle famiglie vulnerabili. L’abbiamo notato anche tra le comunità indigene del Messico all’interno delle quali le donne – i cui mariti erano emigrati – rappresentavano le proprie famiglie alle assemblee generali comunitarie, un ruolo tradizionalmente riservato degli uomini.
“Dobbiamo partecipare… Gli uomini stanno cominciando a tenere in considerazione le donne. Prima non lo facevano. Ma ora le donne prendono addirittura il microfono in mano e parlano“, ci ha raccontto Juliana López, di El Fortín Alto a Oaxaca. “Ci stiamo rendendo conto di essere pari agli uomini“.