[Traduzione a cura di Luciana Buttini dell’articolo originale di Alexander Etkind pubblicato su openDemocracy]
Gli esperti occidentali affermano che – da oltre una generazione – la Russia sia ormai un Paese come tutti gli altri, in particolare da quando Vladimir Putin è salito al potere nel 2000. In effetti, il processo di normalizzazione della Russia è diventata un’impresa imponente e di alto profilo, un sforzo intellettuale al pari del Piano Marshall.
Quanto ci si può sbagliare!
La realtà in Russia è diversa su molti livelli. Nello specifico, durante l’ultimo decennio, lo Stato russo ha vissuto una crisi multidimensionale: politica, ecologica, morale, medica e, più chiaramente, demografica.
Le istituzioni governative russe non sono riuscite a mitigare questa crisi, nonostante le loro notevoli risorse. Invece, come è successo tante volte nella storia, intraprendere una guerra vittoriosa è sembrata la soluzione più facile a tanti problemi irrisolti.
Se si desidera comprendere la guerra russo-ucraina iniziata nel 2014 e che continuerà ancora per mesi o forse anni, bisogna capire anche la crisi che ne è stata sia la causa che il retroscena. Per gli esperti di normalizzazione che non avevano capito l’evoluzione della crisi, la guerra è stata una grande sorpresa.
Un Paese malato, instabile e infelice
Nel 2012, la Banca mondiale ha promosso la Russia a un’economia ad alto reddito, ma da allora i redditi russi sono in calo, una tendenza questa osservata in pochissimi Paesi ricchi. Secondo i dati del 2020 registrati dalla Banca mondiale, la Russia si è classificata al 59° posto a livello globale in termini di reddito netto nazionale rettificato pro capite e si posiziona attualmente al 51° posto dell’Harvard Economic Complexity Index. La spesa sanitaria pro capite è ridicola e per questo si trova al 109° posto mentre la scarsità di spesa per l’istruzione è terribile.
La Russia può essere una piccola economia in termini globali, ma rappresenta il quarto Paese più grande e inquinante. La Cina è in cima alla lista, ma le emissioni di carbonio pro capite prodotte dalla Russia sono molto più elevate. La Siberia è stata ampiamente disboscata e devastata dagli incendi, mentre le fughe di metano nelle miniere russe hanno creato enormi emissioni.
Da uno studio pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità è emerso che, nel 2019, la Russia ha registrato il terzo maggior numero di suicidi. Inoltre, un rating di stabilità politica della Banca mondiale del 2021 l’ha classificata al 146° posto, tra il Messico e la Mauritania. Non disponiamo di stime più recenti, ma la mia ipotesi è che i dati supererebbero ogni limite.
Non c’è da stupirsi quindi che i russi siano così infelici: l’indice di felicità del 2021 ha collocato il Paese al 78° posto nel mondo, tra il silenzioso Turkmenistan e il ribelle Hong Kong.
Forse gran parte di questo ha contribuito alla patetica performance del Paese nella crescita demografica negli ultimi anni, un riflesso dei dati relativi a fertilità, salute e migrazione. Attualmente è al 203esimo, con una crescita negativa, molto vicino al fondo della lista.
Com’è possibile che le persone ben istruite di questo ricco Paese siano così povere e non libere? Da dove viene il denaro russo e dove è andato a finire? Perché questo Paese riccamente sovvenzionato con la sua lunga storia e i famosi progressi tecnologici rende il suo popolo così infelice e malato?
Combustibili fossili e militari
La risposta è semplice: lo Stato russo è enorme, arcaico e molto costoso. Non dipende dal suo popolo ma dalle risorse naturali, e principalmente dai combustibili fossili.
Fino a prima della guerra, Russia, Stati Uniti e Arabia Saudita costituivano la troika che guidava il mondo nell’estrazione del petrolio. La Russia era anche il più grande esportatore mondiale di gas naturale e il sesto produttore di carbone.
Se sommassimo le calorie prodotte da tutto questo carbone, la Russia sarebbe probabilmente in cima alla classifica mondiale. Contando i combustibili fossili russi consegnati e bruciati all’estero, nel 2018 la nazione ha prodotto più emissioni di carbonio di qualsiasi altro Paese al mondo a parte gli Stati Uniti.
Negli ultimi 20 anni da quando Putin è salito al potere, le spese militari hanno superato i mille miliardi di dollari, un’enorme somma di denaro, ma comunque una piccola parte dei profitti che provengono dalla vendita di petrolio e gas. Prima dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina lo scorso anno, i costi relativi all’esercito, alla sicurezza e alle forze dell’ordine erano pari a un terzo della spesa federale. Nel 2014, il Fondo monetario internazionale prevedeva che entro il 2016 un quarto del bilancio federale sarebbe stato segreto, un fatto senza precedenti nelle economie moderne.
All’inizio del 21° secolo, la Russia era il più disuguale dei Paesi sviluppati, il più militarizzato dei grandi Stati e il più imprevedibile di tutti.
Risparmiando denaro sulla spesa sociale – nell’ambito della sanità, dell’istruzione, delle pensioni e dello sviluppo urbano -, Putin e i suoi alleati hanno coltivato la comprensione reciproca con l’ala destra del Partito Repubblicano degli Stati Uniti. Si trattava di una fazione nota come movimento Tea Party, esistito dal 2009 al 2016 e, come la Russia, era sia fiscalmente conservatrice che dipendente dai ricavi dalla vendita di petrolio. Ma in realtà, lo Stato pomposo e altamente militarizzato di Putin era esattamente l’opposto dell’ideale del Tea Party.
In qualità di governante, Putin era molto più vicino allo sfarzoso e stravagante re Giorgio III rispetto ai manifestanti che lanciavano casse di tè nel porto di Boston. Una combinazione di colonizzazione interna, tasse libertarie e corruzione incontrollata ha creato una delle società più disuguali, sbilanciate e conservatrici della storia. Infatti non c’è da meravigliarsi se le persone stavano emigrando.
Secondo Albert O. Hirschman, pioniere dell’economia dello sviluppo, quando le persone non sono soddisfatte dei loro leader, hanno due opzioni: far sentire la propria voce o emigrare. Negli anni ’90, il popolo russo aveva una voce, un’opportunità per esprimere il proprio malcontento nella sfera pubblica e talvolta attraverso elezioni democratiche. Quella voce è stata messa a tacere nel momento in cui Putin è salito al potere nel 2000.
Il nuovo presidente ha poi lanciato le sue prime battaglie contro la modernità, la società aperta e i diritti fondamentali. In risposta, milioni di russi e non russi hanno lasciato il Paese. Altri hanno perso il desiderio di mettere al mondo dei bambini. L’esodo dalla Russia è stato un esercizio del diritto di un popolo ad andar via. Le persone insicure e malate morivano giovani; le persone infelici e senza speranza rifiutavano di mettere al mondo figli. I processi demografici hanno risposto in modo proattivo agli eventi politici.
Nascite, aborti ed esodo
Dal 2014 il tasso di natalità della Russia è in costante diminuzione ed è ora ai minimi storici. Dall’invasione dell’Ucraina lo scorso febbraio, le nascite giornaliere sono state inferiori a quelle registrate nei due anni della pandemia di coronavirus. Come ha notato il demografo russo Alexey Raksha, il 2023 vedrà il numero più basso di bambini nati nell’intera storia russa, persino inferiore a quello registrato durante la Seconda guerra mondiale.
Dal tardo periodo sovietico, la Russia è un leader globale nei tassi di aborto. Lo Stato, apparentemente preoccupato per il fenomeno, ha cercato a lungo di scoraggiare gli aborti attraverso vari strumenti, dal divieto negli ultimi anni dello stalinismo ai pagamenti del capitale materno, ideato per sostenere e incentivare le famiglie.
Dal 1991 al 2015, il numero di aborti in Russia è diminuito passando da 3,6 milioni a 0,8 milioni. Tuttavia, non è stata raggiunta alcuna esplosione di fertilità. Il numero di nascite all’anno si è lentamente avvicinato al numero di aborti, ma lo ha superato solo nel 2007. La Russia stava iniziando e finendo le sue guerre, ma le donne russe rimuovevano i loro embrioni allo stesso ritmo con cui morivano per cause naturali.
Nel 2020 il rapporto di aborti per nascite in questo Paese in cui di aborto non si parla quasi mai, è stato due volte superiore a quello degli USA, dove è diventato un tema politico centrale.
Durante gli anni “grassi” del petrolio e del gas, terminati nel 2014, la Russia ha attratto circa dieci milioni di migranti, la maggior parte giovani maschi provenienti dall’Asia centrale e dalla Cina. Arrivati a Mosca e nella Siberia meridionale, sono stati attirati dai salari relativamente alti dei lavoratori non qualificati.
Le autorità hanno incoraggiato questa immigrazione fintanto che ha aumentato le loro entrate. Senza la migrazione interna, la crisi dello spopolamento sarebbe stata molto peggiore. D’altra parte, i migranti si sono ritrovati a competere con i lavoratori locali non qualificati, e i fenomeni di disoccupazione e sentimenti di malcontento sono di conseguenza aumentati.
Dopo l’occupazione della Crimea nel 2014 e la svalutazione del rublo nel 2016, milioni di lavoratori migranti hanno lasciato la Russia, la maggior parte di loro non avendo più un soldo. Cinque milioni di cittadini della Federazione Russa hanno lasciato il Paese durante i primi 20 anni di governo di Putin, ma un milione è fuggito solo nell’ultimo anno, dall’inizio dell’invasione ucraina. Molti di loro sono professionisti qualificati: esperti informatici, medici, infermieri, giornalisti e ingegneri. Questa fuga di cervelli è andata ad aggiungersi al problema dello spopolamento.
A quanto pare, i milioni di russi che hanno deciso di uscire dal “mondo russo”, o letteralmente attraverso la migrazione oppure metaforicamente con l’aborto, sono stati molto perspicaci.
Confrontando le loro decisioni difficili ma tempestive con la facile adulazione o la pura ignoranza tipica di molti (anche se non tutti) degli esperti occidentali sulla Russia, si dovrebbe ammirare la comprensione che la gente comune ha del proprio Paese.
Queste risposte statisticamente dominanti sono una sorta di aggressione passiva nei confronti dello Stato da parte dei suoi cittadini, sebbene non siano così visibili come le rivolte di strada a cui abbiamo recentemente assistito in Georgia o la rivoluzione Euromaidan del 2014 in Ucraina. Ma su una scala così massiccia, anche questi atti casuali di resistenza acquisiscono grande significato politico e militare.
Indubbiamente, questa uscita di massa o, se preferite, “la diserzione del popolo” del mondo russo giocherà un ruolo importante nel corso futuro della guerra contro l’Ucraina e l’Occidente.