In queste settimane, la democrazia israeliana sta affrontando i suoi giorni più bui. La riforma giudiziaria promossa dal primo ministro Benjamin Netanyahu, ha scatenato la più grande ondata di proteste della storia israeliana. Inoltre, le dichiarazioni xenofobe di alcuni esponenti del Governo e la decisione di abrogare la “Legge sul disimpegno” del 2005 stanno scuotendo le fondamenta del Paese. Quest’ultima è in linea con l’aumento degli insediamenti illegali in Palestina e con l’intensificarsi delle violenze da parte dei coloni . Al contempo, nei Territori Occupati è tornata a salire la tensione con l’uccisione di un cittadino palestinese da parte dell’esercito israeliano.
La riforma è stata definita da esperti e osservatori un potenziale pericolo per il funzionamento democratico dello Stato israeliano. il Paese non dispone di una vera e propria carta costituzionale ed è basato su un sistema monocamerale con un esecutivo molto forte. La proposta del Governo permetterebbe di ignorare le sentenze della Corte, annullando ogni bilanciamento dei poteri. La mobilitazione popolare e le tensioni interne dopo dell’estromissione dal Governo del ministro della Difesa Yoav Galant, hanno costretto Netanyahu a congelare la riforma. In compenso, ciò ha scatenato le proteste dell’estrema destra. Difatti, Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale ed esponente del Fronte Nazionale Ebraico, ha posto come condizione per il congelamento la formazione di una guardia nazionale sotto il proprio controllo.
Oggi, l’agenda politica israeliana sembra essere ostaggio delle aspirazioni ultraconservatrici e xenofobe dei partiti estremisti. La revoca della “legge sul disimpegno” sanciva l’abbandono di alcuni insediamenti illegali nel Nord della Cisgiordania. La sua abrogazione ha provocato un immediato innalzamento della tensione. Negli ultimi mesi i casi di violenza da parte dei coloni israeliani sulla popolazione palestinese sono aumentati in modo esponenziale.
Il clima di odio e tensione può essere riassunto dalle dichiarazioni della ministra per le Missioni Nazionali Orit Strock. Di recente, Strock, esponente del Partito Sionista Religioso, ha dichiarato pubblicamente di sostenere un ritorno a Gaza e nei territori abbandonati anche a costo di molte perdite umane. Tali parole hanno riscosso l’immediata condanna da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, oltre che dall’opposizione e dall’Autorità Nazionale Palestinese. Tuttavia, la realtà quotidiana nei Territori Occupati mostra come questa possibilità sia tutt’altro che ipotetica.
Nel mese di febbraio una folla di 400 coloni israeliani aveva devastato i villaggi nell’area di Nablus dando alle fiamme 30 abitazioni e uccidendo una persona. Solamente nei primi mesi del 2023, il bilancio delle vittime è poi salito a 5. L’associazione Yesh Din si è occupata di mappare il fenomeno e di fare luce sulla dilagante impunità che Israele riserva ai perpetratori.
All’inizio di febbraio, l’associazione ha diffuso un rapporto che dimostra come dal 2005 soltanto il 3% delle indagini sui reati d’odio hanno portato a una condanna. Inoltre, la maggioranza dei cittadini palestinesi non denuncia gli abusi subiti a causa della complicità di Israele.
Nei Territori Occupati, la popolazione subisce l’azione congiunta dell’IDF e dei coloni. Soltanto nel periodo che va dal 31 gennaio al 13 febbraio 2023, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha registrato il ferimento di 373 palestinesi, di cui 58 bambini. Infine, va tenuta in considerazione la demolizione sistematica di abitazioni e proprietà. Nello stesso periodo, circa 30 abitazioni nell’area C della Cisgiordania sono state distrutte.
La realtà quotidiana nei Territori Occupati è fatta di violenze e soprusi. L’azione congiunta dell’IDF e dei coloni minaccia ogni attività di sostentamento delle comunità palestinesi. Il bersaglio principale sono le risorse agricole. L’estate scorsa, i coloni hanno distrutto 400 ulivi e hanno condotto azioni violente e attacchi sui palestinesi durante la stagione del raccolto. Il danneggiamento delle coltivazioni e il land grabbing è un fenomeno in ascesa nella West Bank. Inoltre, durante gli attacchi, è lo stesso esercito israeliano a proteggere e sostenere i coloni nelle loro azioni.
In merito all’espansione degli insediamenti illegali e all’escalation di violenza da parte dei coloni, Voci Globali ha raccolto il commento di B’tselem, il Centro di Informazioni per i Diritti Umani nei Territori Occupati:
L’annullamento della “Legge sul disimpegno” è in realtà una continuazione della politica di Israele nei territori, che di fatto li annette e usa la terra come se fosse sua. Anche prima della cancellazione della legge, c’era una yeshiva a Homesh, che si trovava sul terreno del villaggio palestinese di Burka. Eppure Israele continuava a sosteneva la presenza dei coloni in quel luogo. Ciò non deve sorprendere, poiché i coloni e la violenze sono sistematicamente sostenute da Israele. Quando si parla di violenza dei coloni, si deve parlare di violenza di Stato. Non si tratta di “qualche mela marcia” che infrange la legge, si tratta di un braccio non ufficiale di Israele. I coloni e lo Stato puntano allo stesso obiettivo: prendere quanta più terra possibile.
Il Governo sembra intenzionato a soddisfare i desideri della frangia più nazionalista e ultrareligiosa. Secondo il colonnista e scrittore Akiva Eldar, gli attacchi nei Territori Occupati e quelli alla democrazia israeliana rappresentano il fulcro l’essenza dell’agenda politica dei coloni. Pertanto, la violenza incontrollata e il clima d’odio diffuso nella politica, dimostrano come l’estrema destra israeliana sia intenzionata a utilizzare lo Stato come strumento di conquista nei Territori Palestinesi.