Quando la tecnologia diventa sistema di oppressione e controllo

Tecnologie sempre più sofisticate vengono utilizzate in modo massiccio dai Governi e da attori non statali come soluzioni precise ed efficienti nella lotta al terrorismo e alla violenza organizzata. Siamo davvero dinanzi a una rivoluzione tech che ci rende più liberi e sicuri? Non proprio, e a lanciare l’ennesimo appello è stato il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla promozione e protezione dei diritti umani nella lotta al terrorismo in un report di metà marzo 2023.

Nello specifico, droni, raccolta di dati biometrici, intelligenza artificiale (AI) e spyware (software in grado di captare online informazioni su un utente senza il suo consenso) sono nel mirino del Consiglio dei diritti umani poiché il loro impiego senza alcuna regola minaccia seriamente le basilari libertà degli individui, quali quelle di espressione, movimento, associazione oltre a causare molti morti tra civili.

Nel rapporto si legge innanzitutto che “l’antiterrorismo e la sicurezza sono spesso utilizzati per fornire giustificazioni politiche e legali per l’adozione di tecnologie ad alto rischio e altamente invasive sulla base di minacce eccezionali e con la promessa di un’applicazione strettamente limitata”. Nella realtà, tali condizioni non sono mai rispettate e ciò che davvero accomuna l’uso di questi sistemi tecnologici all’avanguardia è una applicazione ampia, diffusa e non affatto legata a operazioni circoscritte.

Non solo, il relatore Fionnuala Ní Aoláin ha chiaramente ammonito gli Stati e gli attori privati ​​sulla retorica dell’antiterrorismo e della sicurezza che non fa altro che giustificare “l’accelerare il dispiegamento e il trasferimento di nuove tecnologie di sorveglianza ad alto rischio, senza regolamentazione e a un costo enorme per i diritti umani. Ci deve essere una pausa nell’uso di tecnologie intrusive ad alto rischio fino a quando non saranno messe in atto adeguate salvaguardie”.

Già circa 3 anni fa, David Kaye, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di opinione e di espressione, aveva messo in guardia sulla deriva illecita di tali tecnologie:

Gli strumenti di sorveglianza possono interferire con i diritti umani, dal diritto alla privacy e alla libertà di espressione ai diritti di associazione e riunione, credo religioso, non discriminazione e partecipazione pubblica. Eppure non sono soggetti ad alcun effettivo controllo globale o nazionale.

Sotto accusa c’erano pratiche quali l’hacking di computer, reti Internet e telefoni cellulari, l’utilizzo del riconoscimento facciale e altri sofisticati strumenti di sorveglianza per pedinare giornalisti, politici, investigatori delle Nazioni Unite e difensori dei diritti umani.

Con lo stesso tono preoccupato sulla potenzialità di violare in modo sistemico e impunito i diritti umani, nel 2020 Agnes Callamard, relatrice speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, si è espressa nei confronti dei droni militari, attualmente diventati una regola e non una eccezione nelle operazioni di sicurezza e di guerra.

“Più di 100 Paesi dispongono di droni militari e si ritiene che più di un terzo possieda armi autonome (senza pilota o guida umana) più grandi e letali. Gli Stati che li hanno utilizzati per motivi di autodifesa, quest’ultimi definiti in modo molto “nebuloso” contro presunti terroristi, hanno rischiato di creare una situazione in cui non ci saranno davvero linee rosse”, ha ammonito Callamard.

La questione dei droni è davvero importante. Il report di quest’anno chiarisce che il loro uso sta proliferando a una velocità notevole in tutto il mondo, sia all’interno di conflitti armati formali in particolari località geografiche sia come parte di una strategia antiterrorismo, rappresentando un rischio continuo per i civili e una sfida per la protezione dei diritti umani

Inoltre, in seguito dell’adozione nel 2016 da parte della Federal Aviation Authority degli Stati Uniti di una norma che consente il dispiegamento di droni all’interno dello spazio aereo civile nazionale, il loro utilizzo da parte delle forze dell’ordine nazionali, prima negli Stati Uniti e poi a livello globale, si è espanso rapidamente. Più di 1.000 dipartimenti di polizia negli Usa li stanno attualmente utilizzando. Lo stesso avviene nel Regno Unito.

Anche le forze di polizia in Cina li impiegano, con l’Ufficio di pubblica sicurezza dello Xinjiang (regione autonoma della Cina dove il Governo di Pechino è accusato di perpetrare violazioni gravi dei diritti nei confronti di minoranze etniche, quali gli Uiguri) che ha collaborato con la società DJI, il principale produttore mondiale di droni, che detiene oltre il 75% del mercato di queste apparecchiature. Li usano inoltre in Australia, Israele, Africa, Europa, Golfo Persico.

Un’analisi della Geneva Academy of International Humanitarian Law and Human Rights ha sottolineato che quasi venti anni fa, i primi impieghi di droni armati in Afghanistan nell’ottobre 2001 e nel novembre 2002 nello Yemen avevano suscitato scalpore. Da attacchi isolati degni di nota, da allora sono diventati una caratteristica regolare delle operazioni militari.

Ad esempio, nel conflitto armato nell’Ucraina orientale, secondo quanto riferito, tutte le parti hanno utilizzato droni civili modificati per vari scopi militari. In alcuni casi in cui questi sistemi sono stati impiegati per centrare specifici obiettivi, sono state segnalate vittime civili. Molti hanno anche osservato un loro uso crescente e significativo nei combattimenti civili in Yemen, Siria e Iraq.

Droni militari e non sorvolano sempre di più i cieli del mondo. Spesso le uccisioni tramite questi dispositivi non sono così chirurgiche e colpiscono civili indifesi. Di chi è la responsabilità? Di un software che non ha riconosciuto l’immagine giusta o dell’uomo che li controlla da remoto? Foto Pexels, Creative Commons

È risaputo che gli Stati Uniti hanno effettuato tale tipologia di attacchi in diverse parti del mondo, tra cui Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia. Sebbene in misura minore, anche altri Paesi se ne sono resi responsabili. Ad esempio, la Francia ha intrapreso il suo primo attacco armato con questi dispositivi in Mali nel 2019, il Regno Unito in Siria e sembrerebbe che la Russia abbia schierato droni armati in Siria.

I critici sottolineano che proprio l’uso di droni può abbassare il livello considerato limite invalicabile per gli Stati nell’uso della forza, proprio perché queste sofisticate apparecchiature autonome rimuovono i rischi che le nazioni corrono nel dispiegare militari ed eserciti. Una soglia così bassa, unita alla proliferazione del loro impiego e alla mancanza di trasparenza nel loro utilizzo, rappresenta un rischio significativo per la pace e la sicurezza internazionale.

Da sottolineare, poi, che non ci sono soltanto le entità governative a fare uso di droni. Le ricerche Onu hanno rivelato che almeno 20 attori non statali avrebbero ottenuto questi dispositivi, tra cui l’esercito nazionale libico, il gruppo siriano di Al-Qaeda Harakat Thahrir al-Sham, la Jihad islamica palestinese, i disertori militari venezuelani, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), il gruppo islamista paramilitare terroristico filippino Maute, il cartello messicano di nuova generazione di Jalisco, gli Houthi e il Da’esh.

È inoltre alta la preoccupazione del relatore speciale delle Nazioni Unite sulla promozione e protezione dei diritti umani nella lotta al terrorismo per l’uso dei droni per sorvegliare le proteste. Ancora una volta ciò è coerente con la tendenza a considerare questi dispositivi non eccezionali, ma strumenti di prassi ordinaria dello Stato.

Oltre alle ovvie implicazioni per la privacy, la libertà di riunione, la libertà di espressione e il diritto di partecipare agli affari politici, l’utilizzo di queste apparecchiature unito al potere coercitivo della polizia pone questioni quali quelle della detenzione arbitraria, della libertà e della sicurezza del persona.

L’allarme è elevato anche per le sofisticate tecnologie applicate alla biometria e alla sorveglianza, con lo scopo di schedare gli individui raccogliendo e archiviando le informazioni più intime e caratterizzanti in modo inequivocabile una persona (come campioni di DNA, impronte digitali, scansioni dell’iride e gruppi sanguigni).

Uno studio dell’UE ha evidenziato che le tecnologie biometriche abilitate dall’intelligenza artificiale comportano rischi significativi per numerosi diritti fondamentali, ma anche per la democrazia stessa. Per esempio, il caso del riconoscimento facciale dal vivo negli spazi pubblici potrebbe interferire con il modo in cui una persona esprime le proprie opinioni, compromettendo il proprio anonimato.

Allo stesso modo, l’implementazione di questa tecnologia durante assemblee pacifiche potrebbero scoraggiare le persone dal parteciparvi, limitando il potenziale di democrazia partecipativa. 

Ci sono stati anche casi di arresto illegale di persone di colore identificate erroneamente dal riconoscimento facciale della polizia negli Usa. Diversi studi, infatti, indicano che molti algoritmi sono più accurati nel risultato per le persone con pelle chiara. L’uso diffuso del riconoscimento facciale è stato effettivamente collegato a una serie di arresti illeciti, in particolare di uomini di colore. Negli Usa ci sono state anche polemiche per l’uso retroattivo del riconoscimento facciale applicato a partecipanti alle manifestazioni del movimento Black Live Matters dopo la visione di filmati delle proteste.

Sistemi di intelligenza artificiale e biometrici sofisticati consentono di captare le caratteristiche uniche delle persone, oltre a essere applicati per il riconoscimento facciale. Ma il rischio è avere archivi di Stato di persone schedate. Foto Pexels, Creative Commons

Alcuni rapporti Onu suggeriscono che il Governo della Cina, utilizzando una combinazione di tecnologia di riconoscimento facciale e telecamere di sorveglianza, rintracci gli Uiguri in base al loro aspetto e tenga traccia dei loro movimenti.

Negli Stati autoritari la sorveglianza, inoltre, è troppo spesso usata come mezzo di oppressione. Lo ha rivelato l’European Center for Costitutional and Human Rights:

Con un paio di clic, le autorità di Stati come Siria, Bahrain, Turchia ed Etiopia possono controllare il computer o lo smartphone di una persona. I dati intercettati vengono utilizzati per spiare sistematicamente reti di attivisti politici e per i diritti umani, giornalisti e oppositori politici. In molti casi questa sorveglianza è un precursore di ulteriori violazioni dei diritti umani: detenzione, tortura, confessioni forzate e condanne ingiuste.

Alla luce di questi studi ed esempi concreti di come la tecnologia può essere pericolosa invece che emancipare la società, il rapporto Onu ha evidenziato 3 anomalie gravissime che vanno corrette: lo sfruttamento del tema “lotta al terrorismo” come logica politica per adottare tecnologie ad alto rischio; l’assenza di un’analisi in materia di diritti umani nello sviluppo, nell’uso e nel trasferimento di nuove tecnologie; il passaggio dall’uso eccezionale di questi sistemi high tech all’uso generale, importando e normalizzando l’impiego di tali sistemi nella vita di tutti i giorni.

Gli Stati sono chiamati urgentemente a fermare tali abusi e a regolare tutte queste apparecchiature all’avanguardia, affinché siano davvero sinonimo di benessere per l’umanità.

Violetta Silvestri

Copywriter di professione mantiene viva la passione per il diritto internazionale, la geopolitica e i diritti umani, maturata durante gli studi di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, perché è convinta che la conoscenza sia il primo passo per la giustizia.

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