Ciclo globale dell’acqua fuori equilibrio, è a rischio la vita umana

La Giornata internazionale dell’acqua compie trent’anni, e non c’è niente da festeggiare. Ancora oltre 2 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua gestita in modo sicuro, ogni 80 secondi muore un bambino sotto i cinque anni per malattie causate dall’acqua inquinata, e il bilancio della sofferenza umana provocato dai disastri climatici legati all’acqua si fa più devastante ogni anno che passa.

“Etiopia: la siccità di El Niño”, di ©EU/ECHO/Anouk Delafortrie, in licenza CC su Flickr

Una catastrofe che non accade per caso, e che è appena un avvertimento delle cose a venire. Parla chiaro il rapporto Turning the tide pubblicato dalla Global commission on the economics of water alla vigilia della Seconda conferenza mondiale sull’acqua che in questi giorni, a 45 anni dal primo vertice sul tema, riunisce la comunità internazionale attorno alla questione delle questioni, quella da cui dipende la sopravvivenza dell’intero ecosistema di questo Pianeta.

Stiamo assistendo alle conseguenze di decenni di cattiva gestione dell’acqua a livello globale. Ora dobbiamo fronteggiare una crisi sistemica che è sia locale che globale. Con le nostre azioni collettive abbiamo spinto il ciclo globale dell’acqua fuori equilibrio per la prima volta nella storia umana, causando danni crescenti alle comunità di tutto il mondo“, si legge tra le pagine dello studio che ci spiega che l’acqua ci insegna l’interconnessione tra i Paesi e che c’è una profondissima e pericolosa influenza reciproca tra l’acqua, il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità.

Toccherà quota 40% entro la fine del decennio lo scarto tra la domanda globale di acqua dolce e la sua disponibilità, avvertono gli esperti. E a quel punto sarà il fallimento per ognuno degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) che avrebbero dovuto “non lasciare nessuno indietro“. Piuttosto, “nessuno di noi, nessun luogo, nessuna economia o ecosistema verrà risparmiato“.

Paghiamo il conto per non aver considerato “l’acqua come bene comune globale“. Ne abbiamo abusato, la abbiamo inquinata, e “abbiamo violato i confini planetari dell’acqua, che mantiene il sistema Terra sicuro per l’umanità e ogni altra forma di vita“, ripetono gli autori del dossier. E mettono nero su bianco le responsabilità di ognuno e di tutti, richiamando l’urgenza di un’azione collettiva come unica e ultima risposta possibile.

Dall’interruzione delle miliardarie sovvenzioni per l’estrazione e l’uso eccessivo di acqua nell’agricoltura (che da sola assorbe il 70% delle acque dolci disponibili) alla limitazione dello spreco delle risorse idriche attraverso un intervento concentrato sui sistemi di distribuzione dell’acqua (oggi il 40% di tutta l’acqua urbana si perde a causa del grado di usura delle condutture). Per i governi di tutto il mondo sette raccomandazioni perché proteggano l’acqua, e un’allerta: non c’è un minuto da perdere, o non saremo più in grado di invertire la rotta.

Qual è la rotta? La crisi idrica ci uccide, causa e conseguenza di un futuro che non c’è.

Negli ultimi vent’anni si è registrato un aumento del 134% dei disastri causati dalle inondazioni, e fa segnare +29% il numero e la durata delle siccità. L’impatto sulla vita delle popolazioni nelle aree colpite è immenso: l’acqua, che ne arrivi troppa o troppo poca, è responsabile del 70% di tutte le morti correlate ai cataclismi a livello globale.

Ormai nove disastri naturali su dieci hanno a che fare con l’acqua, e si prevede che le catastrofi ambientali legate all’acqua investiranno il 20% della popolazione mondiale entro il 2050 provocando danni per oltre 500 miliardi di dollari all’anno. Costi umani esclusi.

“Inondazioni nel Punjab, Pakistan”, di UN Photo/Evan Schneider, www.unmultimedia.org/photo/, in licenza CC su Flickr

Intanto, quasi la metà della popolazione globale è già travolta dalla crisi idrica, con l’immagazzinamento idrico terreste che, complice il surriscaldamento globale, diminuisce ad un ritmo di un centimetro all’anno, e il consumo d’acqua che aumenta spropositatamente (+600% in cinquant’anni).

Allora intere regioni del Sud del mondo collassano sotto una grave crisi alimentare, con le economie di sussistenza già fortemente destabilizzate da conflitti e crisi politico-umanitarie di ogni genere ora condannate a crollare sotto il peso degli eventi climatici estremi. La più grave siccità della storia moderna fa contare almeno 36,4 milioni di persone affamate tra Etiopia, Kenya e Somalia, in troppi sono ad un passo dalla carestia con già quasi 10 milioni di capi di bestiame morti e i campi improduttivi.

E il Nord non resta illeso, seppur con la sproporzione che è tipica di tutte le crisi del nostro tempo. Lo scorso agosto, ad esempio, oltre il 60% del territorio europeo era in condizioni critiche o estremamente critiche di siccità. Il Po si è quasi completamente prosciugato, e non è andata meglio al Reno, il secondo fiume di un’Europa consumata dalla più grave crisi di siccità degli ultimi 500 anni. Non sono state indifferenti le ripercussioni sull’economia locale e regionale, già 13 miliardi – di cui sei per la mancata produzione agricola – è costata all’Italia la siccità del 2022 secondo i dati raccolti dall’Associazione nazionale dei Consorzi di bonifica.

Crisi idrica è crisi economica e sociale. La Banca mondiale stima una diminuzione del tasso di crescita fino al 6% del PIL nelle regioni dell’Africa centrale e dell’Asia orientale entro il 2050 per le perdite legate all’acqua su agricoltura, salute e redditi. E in Argentina sono capitolati tre punti di PIL nel 2023 in conseguenza della più grande siccità degli ultimi 60 anni. I picchi di prezzo guideranno violenze e migrazioni, per il 2030 potrebbero essere 700 milioni gli sfollati da stress idrico.

Poi c’è la questione dell’accesso a quel po’ d’acqua che rimane. Perché la scarsità d’acqua è un problema di tutti, ma per qualcuno un po’ di più. Le disparità di consumo tra Paesi sono enormi, come le implicazioni sulla salute ambientale e sociale.

Mentre l’Italia si conferma campione europeo di spreco con la media di 236 litri d’acqua consumati pro capite al giorno, e sale sul podio mondiale – seconda sola al Messico – per il consumo di acqua in bottiglia, nell’Africa Sub-sahariana ogni giorno una persona (quasi sicuramente una donna) deve camminare per circa 6 chilometri per raggiungere la fonte d’acqua più vicina. Sono appena dieci i litri d’acqua giornalieri mediamente disponibili pro capite in Madagascar, e un mozambicano su due non ha accesso ad alcuna fonte d’acqua pulita.

L’accesso all’acqua pulita e sicura è (sarebbe) un diritto umano universale. Se è vero che il +4% dal 2015 ad oggi sul numero di abitanti della Terra che ora possono bere e possono farlo senza temere di ammalarsi è un risultato importante, sono ancora troppi quelli che soffrono la sete e le malattie trasmesse dal contatto con l’acqua sporca.

Oltre 1,5 milioni di persone muoiono ogni anno a causa della diarrea perché costrette a bere acqua non potabile. Almeno 2 miliardi di persone utilizzano una fonte d’acqua potabile contaminata da feci, e l’acqua potabile contaminata microbiologicamente (arsenico soprattutto) fa 485 mila morti ogni anno.

Con buona pace della corsa all’SDG 6 dell’Agenda Onu 2030, è ancora la Banca Mondiale a riferire che gabinetti e fognature funzionanti sono un miraggio per quasi 4 miliardi di persone, ancora 2,3 miliardi di persone non possono lavare le mani e 500 milioni di donne non dispongono di prodotti mestruali o spazi sicuri e igienici per utilizzarli.

Acqua e servizi igienici inadeguati, malattie correlate, rischi climatici. La Triplice crisi – così titola il più recente rapporto Unicef – minaccia la vita di 190 milioni di bambini in dieci Paesi africani. Nelle dichiarazioni del direttore dei programmi Unicef, Sanjay Wijisekera, “l’Africa sta affrontando una catastrofe idrica. Mentre gli shock legati al clima e all’acqua si stanno intensificando a livello globale, in nessun’altra parte del mondo i rischi si aggravano così velocemente per i bambini. [..] Per quanto le condizioni attuali siano difficili, senza un’azione urgente il futuro potrebbe essere molto più cupo“.

“Il fiume Congo è un’ancora di salvezza, ma anche un grave pericolo”, di Oxfam East Africa, in licenza CC su Flickr

La faccenda della potabilità inizia a pesare anche nelle aree industrializzate dell’Occidente, che poi dell’inquinamento e dello sfruttamento incontrollato che trainano la crisi idrica sono i principali alleati. Studi dimostrano che l’83% dell’acqua potabile mondiale contiene plastica, oltre il 72% dei campioni idrici esaminati in Europa risultano contaminati, e ogni bottiglietta d’acqua da 500ml contiene mediamente l’1,9% di fibre plastiche.

Insomma, goccia dopo goccia abbiamo avvelenato e assetato l’esistenza anche delle generazioni future.

L’acqua è ormai l’oro blu, e dove c’è oro, si sa, ci sono i predoni. Il water grabbing è quel fenomeno per cui potenze private o statali si assicurano il controllo dei bacini idrici incuranti dell’impatto ambientale e socio-economico sulle comunità locali.

Un esempio per tutti è il Mekong. Il più importante fiume del Sud-Est asiatico, e forse il più conteso al mondo. Dalle sue acque dipende il sostentamento di 60 milioni di persone, e “governi e imprese private hanno deciso di costruire dighe ovunque che impatteranno pesca, turismo, agricoltura. Le dighe saranno fonte di instabilità e persecuzioni, in particolare per i più poveri. Tantissimi villaggi, specie le comunità indigene, perderanno i propri territori, abbandonando costumi e tradizioni. La sicurezza alimentare per milioni di persone è a rischio“, dice la direttrice esecutiva del Forum ONG cambogiano, Tek Vannara.

Sempre meno risorse, sempre più domanda. È l’equazione perfetta che trasforma l’acqua in un catalizzatore di conflitti. Lo è sempre stata, sia chiaro. Nel nostro secolo, però, combattere per l’acqua diventa sempre più una questione di necessità. È il Water Conflicts Chronology, la mappatura di tutti i conflitti della storia legati all’acqua realizzata dal Pacific Institute di Oakland, a fotografare la tragedia.

Solo dal 2020 a oggi si sono combattute 202 Water Wars, principalmente nel Corno d’Africa e nel Subcontinente indiano, ma anche in Medio Oriente e in America del Sud. La grande maggioranza di questi conflitti ha a che fare con l’accesso all’acqua, a confermare la predizione dell’ex vicepresidente della Banca Mondiale Ismail Serageldin, che nel ’95 aveva detto: “molte delle guerre del 20° secolo riguardavano il petrolio, ma le guerre del 21° secolo riguarderanno l’acqua a meno che non cambiamo il modo in cui la gestiamo“.

Quando non si combatte per l’acqua, si combatte sull’acqua. Solo sui territori di Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza sono una ventina i conflitti in cui l’acqua è arma o target di guerra. Nella Siria in guerra dal 2011 più di 11 milioni di persone non hanno accesso all’acqua corrente. 18 milioni di yemeniti sono senz’acqua all’alba dell’ottavo anno di guerra. E sono oltre 16 milioni gli ucraini assetati a poco più di un anno dallo scoppio della guerra.

E se l’acqua è sotto attacco, le prime vittime sono donne e bambini. Perché anche quella dell’acqua non è una crisi neutrale. Nei contesti di conflitto prolungato, spiega Unicef, l’acqua è 20 volte più letale della violenza diretta per i bambini che non hanno ancora compiuto cinque anni.

La realtà è che ci sono più bambini che muoiono perché non hanno accesso all’acqua sicura che per i proiettili. Attacchi deliberati contro strutture idriche e igienico sanitarie sono attacchi contro i bambini”, ha detto al proposito la direttrice generale Unicef Henrietta Fore non mancando di sottolineare quanto il dramma pesi particolarmente sulle ragazze che rischiano di essere violentate ogni volta che vanno a raccogliere l’acqua o utilizzano le latrine, che sono violate nella dignità quando non possono curare l’igiene mestruale, che anche per questa ragione non vanno a scuola e perdono il futuro.

“Un ragazzo prende acqua dalla cisterna nel villaggio di Khirbet Jerbah, South Hebron Hills, che non è collegata alla rete idrica”, di Sharon Azran, B’Tselem, in licenza CC su Wikimedia Commons

Siamo su una rotta di collisione, dunque. E ci schianteremo se non aggiustiamo immediatamente la barra. Perché “l‘acqua scorre attraverso tutte le questioni globali. Dalla salute alla fame, dalla parità di genere al lavoro, dall’istruzione all’industria, dai disastri alla pace“, per usare le parole di Gilbert Houngbo, presidente del meccanismo di coordinamento delle Nazioni Unite sulle questioni idriche. E se intendiamo continuare a progredire come umanità, è adesso il tempo di “accelerare il cambiamento“.

Clara Geraci

Siciliana, classe 1993. Laureata in Giurisprudenza, ha recentemente conseguito il Diploma LL.M. in Transnational Crime and Justice all’Istituto di Ricerca delle Nazioni Unite. Si occupa di diritto internazionale, diritti umani, e migrazioni. Riassume le ragioni del suo impegno richiamando Angela Davis: “Devi comportarti come se fosse possibile cambiare radicalmente il mondo, e devi farlo costantemente”.

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