[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale di Eduardo Gamarra pubblicato su The Conversation]
Il Perù sta attraversando una crisi politica e civile. Al culmine di settimane di manifestazioni, in migliaia si sono riversati nella capitale, tra episodi di violenza e scontri con la polizia.
Scatenate dalla recente destituzione del presidente della Repubblica Pedro Castillo, le proteste hanno evidenziato le profonde divisioni interne al Paese e vengono alimentate dalla confluenza di fattori interni e agitatori esterni.
The Conversation ha chiesto a Eduardo Gamarra, esperto di politica latino americana presso la Florida International University, di spiegare il più ampio contesto delle manifestazioni e cosa potrebbe accadere in futuro.
Cosa ha provocato le proteste in Perù?
Ad accendere la scintilla sono stati gli eventi del 7 dicembre 2022, quando l’ormai ex presidente si è imbarcato in quello che è stato descritto come un tentativo di golpe. Se si sia trattato realmente di un “golpe”, è da vedere. I sostenitori di Castillo affermano che stesse a sua volta cercando di impedire un colpo di Stato guidato dal Congresso.
Castillo, un ex insegnante indigeno di sinistra proveniente dal Sud del Paese, ha cercato di sciogliere il Congresso impegnato a farlo incriminare per presunta corruzione e accuse di tradimento. Ha convocato l’esercito perché lo sostenesse nel suo intento di formare un’assemblea costituente per riformare la Costituzione del Paese. Ma il piano non ha funzionato: i militari hanno rifiutato la sua manovra e il Congresso si è opposto allo scioglimento, andando avanti con il voto per l’impeachment e destituendolo dalla sua carica.
Gli eventi di quel giorno hanno dato il via alle manifestazioni che si sono fatte sempre più impetuose nel corso delle settimane successive.
Ma se questa è stata la scintilla, è importante comprendere come la crisi abbia origini lontane.
Qual è il contesto più ampio della crisi politica?
Le radici della crisi affondano nella natura stessa del sistema politico peruviano. In parte volutamente, la Costituzione, adottata nel 1993 ma modificata da allora una decina di volte, crea ambiguità su chi detenga il potere maggiore, il presidente o il Congresso. In base alla Costituzione, al Congresso è concessa un’enorme sfera di azione per limitare il potere esecutivo, tra cui la destituzione tramite l’impeachment.
L’idea era quella costruire un argine contro gli eccessi dei presidenti con tendenze dittatoriali. Ma, in realtà, ciò alimenta l’instabilità e la debolezza dell’esecutivo. La Costituzione è formulata in maniera talmente ambigua da offrire ampio spazio di manovra ai presidenti che vogliono sciogliere il Congresso, cosa che Castillo non è riuscito a fare.
Intanto, in Perù ha avuto luogo lo smantellamento del vecchio sistema partitico. Partiti un tempo potenti non esistono più o arrancano per ottenere sostegno. Il risultato è che il sistema partitico del Paese si è fratturato: nel Congresso sono rappresentati più di dieci partiti, per cui è molto difficile che un leader o un partito riesca a ottenere la maggioranza. In breve, governare diventa quasi impossibile se non c’è una base legislativa. Per esempio, Castillo aveva il supporto di soli 15 membri del suo stesso partito, in un Congresso costituito da 130 seggi.
Oltre a tutto ciò, il Paese è profondamente diviso su vari fronti: etnico, razziale, economico e – come le manifestazioni hanno evidenziato – anche regionale.
Chi sono i manifestanti e quanto è ampio il movimento?
Innanzitutto, si tratta di sostenitori di Castillo. Essendo stato il primo presidente proveniente dalle aree rurali nella storia del Paese, non poteva contare su una solida base a Lima, la capitale, ma aveva un supporto notevole al Sud.
Le proteste si sono concentrate intorno alla città di Puno, ma i sostenitori sono arrivati da tutte le Ande del Perù meridionale.
Questa zona è a maggioranza Quechua e Aymara, i due principali gruppi indigeni del Sud. I Quechua e gli Aymara sono “cugini di primo grado” degli stessi gruppi al di là del confine in Bolivia – un dettaglio che assume importanza nell’ambito delle manifestazioni.
Evo Morales, l’ex presidente boliviano, parla da tempo del “Runasur”, il progetto per l’unione dei popoli indigeni di tutta la regione andina.
Morales è stato accusato dal Governo del Perù di istigare le proteste, al punto da essergli stato vietato di entrare in territorio peruviano. Senza dubbio, è vero che gli alleati boliviani sono stati nel Sud del Perù per mobilitare il movimento e alcuni sono stati arrestati.
Ciò che sta accadendo è in realtà la “bolivia-zzazione” del movimento di protesta in Perù. Le tattiche sono infatti simili a quelle dei disordini pro-Morales in Bolivia del 2003 e 2019: i blocchi stradali, la violenza contro la polizia che ha portato alla morte di almeno un poliziotto e al ferimento di altri. Elementi che comunque non giustificano in alcun modo la reazione brutale della polizia e l’uccisione di oltre 50 manifestanti.
L’influenza della Bolivia si percepisce perfino nel modo in cui vengono discusse queste morti. Come era accaduto lì in precedenza, i manifestanti si riferiscono alla violenza da parte della polizia come a un “genocidio”, affermando che i poliziotti prendano di mira i gruppi indigeni in quanto tali.
Secondo il mio punto di vista, ciò non è corretto. La polizia sta sicuramente facendo un uso eccessivo della forza, ma gli agenti coinvolti sono, in molti casi, loro stessi indigeni.
Cosa chiedono i manifestanti?
Innanzitutto, stanno cercando di costringere il Governo a Lima a formare un’Assemblea costituente che possa redarre una nuova Costituzione. Come dovrebbe essere questa nuova Carta è una questione secondaria.
Stanno anche cercando di forzare la destituzione della figura che ha sostituito Castillo, Dina Boluarte. Ritengo che sia un obiettivo raggiungibile. Boluarte condivide molti problemi con i suoi predecessori: ha pochi sostenitori nel Congresso e nessun supporto in piazza. Oltre a ciò, molti dubitano della legittimità democratica del suo ruolo, non essendo stata eletta.
La presidente Boluarte ha dichiarato che non si dimetterà. Sta studiando la possibilità di indire elezioni anticipate, ma è poco probabile che, a questo punto, acconsenta a un’Assemblea costituente.
È difficile dire se questo movimento porterà avanti il concetto di un Runasur regionale. Certamente, la situazione del Perù non riguarda più solamente il Perù: la Bolivia è coinvolta e la sinistra latino americana ha espresso sostegno ai manifestanti.
Altrettanto difficile dire quanto sia supportato il movimento internamente al Perù, considerando quanto sia diviso il Paese. Di certo non ha il sostegno delle aree urbane nel Nord.
Tuttavia, ha mostrato la capacità di mobilitazione del popolo indigeno, proprio come in Bolivia. E l’obiettivo di molti non è ottenere supporto, ma dimostrare la propria forza.
Le proteste in Perù seguiranno lo stesso corso dei disordini avvenuti in passato nella Regione?
È la domanda che tutti si pongono. Seguendo la logica del confronto con la Bolivia, dovremmo aspettarci sempre più disordini e, potenzialmente, maggiore violenza – come quella vissuta nel 2003 e 2019. Se questo è il caso, far tornare il Perù alla politica Lima-centrica vecchio stile sarà ben difficile. Le profonde divisioni interne alla società peruviana e la frattura del sistema politico fanno sì che sia arduo immaginare una forza politica emergente in grado di affrontare tutte queste problematiche. È proprio questo che rende l’attuale situazione difficile da risolvere.
Allo stesso tempo, paragonare queste proteste a quelle che portarono alla destituzione di Alberto Fujimori nel 2000 sarebbe fuori luogo. Quelle manifestazioni avvennero in un contesto molto diverso: Fujimori era percepito a quel punto come un dittatore che aveva sottratto al Paese miliardi di dollari. Si trattò di una rivolta per cacciare un tiranno.
Ciò che abbiamo adesso è un impopolare ex presidente in prigione e un’impopolare presidente in carica accusata di illegittimità. È un contesto ben diverso. Non si tratta di una transizione dalla dittatura alla democrazia, ma di una protesta scatenata da un sistema democratico inefficiente in un Paese profondamente diviso.
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