[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Christoph Vogel e Judith Verweijen pubblicato su The New Humanitarian]
Il massacro avvenuto lo scorso novembre a Kishishe [si è parlato di almeno 131 civili uccisi per mano del gruppo M23, altre fonti parlano di 272 vittime NdT] ha subito suscitato polemiche. Mentre i rappresentanti del Movimento 23 marzo (M23) e i commentatori ruandesi lo hanno minimizzato, il Governo congolese e i suoi sostenitori hanno fatto l’opposto. Anche le ipotesi sul bilancio delle vittime variavano ampiamente spaziando da 8 a quasi 300.
Oltre una settimana dopo il massacro, la missione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo ha condotto le proprie indagini, parlando di almeno 131 vittime. Questo numero è stato per lo più estrapolato da fonti intervistate presso una base dell’ONU vicino a Kishishe, e apparentemente rappresentava un compromesso aritmetico tra le stime già presenti.
Eppure la controversia circa quello che è accaduto a Kishishe rappresenta un duro promemoria di come la guerra dell’informazione, alimentata dalla diffusione fulminea di Internet mobile e dei social media sia ora una parte sempre più importante delle dinamiche del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo orientale.
Voci, incitamento all’odio, immagini manipolate o errate, e conteggi gonfiati delle vittime sono tutti elementi che si sono diffusi a macchia d’olio durante l’attuale crisi che vede coinvolto l’M23, con un forte coinvolgimento delle forze armate sia congolesi che ruandesi.
Gli inviati e gli analisti non tengono sufficientemente in considerazione questa nuova realtà. Invece, alcuni hanno acriticamente ripetuto narrazioni costruite strategicamente dalle fazioni in guerra, diventando per sbaglio parte dell’ecosistema informativo della guerra.
Ma per evitare di diventare delle pedine in questa guerra dell’informazione, che può avere un impatto sugli eventi in loco e modellare il modo in cui pensiamo al conflitto nella RD Congo [d’ora in poi RDC, NdT], c’è bisogno di una verifica più approfondita sul campo e di un controllo dei fatti sugli episodi di violenza.
Nessuno ha rispettato questa regola basilare delle inchieste di guerra per Kishishe, un villaggio nei meandri delle foreste montuose di Bwito, una chieftancy isolata. A parte i risultati delle Nazioni Unite, non è stata ancora condotta alcuna indagine indipendente in loco.
È inoltre fondamentale resistere al fascino delle spiegazioni monocausali dell’M23, che vanno dall’ingerenza straniera alla debolezza dello Stato congolese, ma anche del più ampio conflitto nella RDC, soprattutto quando derivano dai manuali strategici delle parti in conflitto.
Narrazioni a duello
L’M23 è guidato dai Tutsi del Congo e appartiene a una lunga serie di gruppi ribelli locali con stretti legami con il Ruanda. Il gruppo è stato considerato sconfitto dopo la sua ultima grande ribellione un decennio fa, ma ha ripreso a combattere alla fine del 2021, conquistando un territorio in rapida espansione a Nord della città di Goma.
Sono due le narrazioni principali che attualmente dominano il panorama della guerra dell’informazione sul conflitto: una è concentrata attorno al Governo congolese a Kinshasa e l’altra è pro-M23 e pro-Ruanda.
La parte pro-Kinshasa accetta una storia di lunga data che attribuisce tutti i problemi della RDC all’ingerenza di potenze straniere affamate di risorse. L’M23 è considerato un semplice burattino manipolato dal suo padrone, il Governo del Ruanda.
La ribellione è anche vista da questa parte come l’epicentro della violenza e dell’instabilità nella RDC orientale, una trama che opportunamente ignora la morte e la distruzione causate dagli oltre 120 gruppi armati che operano nella Regione.
Al contrario, i sostenitori dell’M23 sminuiscono il sostegno del Ruanda alla ribellione. Inoltre, respingono quei rapporti pubblicati dal gruppo di esperti delle Nazioni Unite sulla Repubblica Democratica del Congo che hanno ampiamente documentato tale sostegno.
La parte a favore dell’M23, molto popolare in Ruanda, pone invece al centro del dibattito il problema del malgoverno nella RDC. Secondo loro, la responsabilità della violenza non risiede tanto nella presenza delle potenze straniere, quanto nella debolezza dello Stato e dell’esercito congolese.
Per loro la colpa è anche da imputare alla FDLR [Forze Democratiche per la liberazione del Ruanda, NdT], un gruppo ribelle emerso dall’ex esercito ruandese guidato dagli Hutu coinvolti nel genocidio dei Tutsi del 1994 e fuggiti nella RDC dopo che il Fronte patriottico ruandese guidato dai Tutsi, attuale partito di Governo a Kigali, ha preso il potere.
I sostenitori dell’M23 evidenziano i risultati degli esperti delle Nazioni Unite che sottolineano la collaborazione delle FDLR con l’esercito congolese. Affermano inoltre che il gruppo Hutu continui a rappresentare un’importante minaccia per i civili ruandesi e Tutsi nella RDC, se non tramite la potenza di fuoco almeno come mezzo per diffondere l’ideologia del genocidio.
Questo gruppo ritiene che l’M23 esprima legittime lamentele della comunità Tutsi congolese riguardo ai concetti di sicurezza, proprietà e al ritorno esitante nella RDC dei rifugiati Tutsi provenienti dai Paesi vicini.
La guerra dell’informazione
C’è del vero negli aspetti di entrambe le versioni, ma nessuno dei due coglie a pieno la realtà. Piuttosto che tenere conto dei molteplici, sincroni elementi che generano il conflitto, propongono singole spiegazioni e quindi rappresentano una forma di guerra dell’informazione.
A uno sguardo più attento, l’ingerenza straniera e la debolezza dello Stato congolese non si escludono a vicenda per spiegare il conflitto, né sono sufficienti per comprendere la complessità del problema della violenza.
Il fatto che l’M23 riceva sostegno da Kigali non esclude che il gruppo esprima rimostranze che sono sinceramente sentite dalla comunità Tutsi congolese. Inoltre, non esclude che la ribellione stessa rimanga essenzialmente un fatto congolese.
La sicurezza dei civili Tutsi è stata un campo di battaglia importante nell’attuale guerra dell’informazione. La ribellione dell’M23 ha innescato una nuova recrudescenza dei sentimenti anti-Ruanda e anti-Tutsi associati nella RDC, che hanno portato a episodi di violenza, tra cui linciaggi.
Anche qui, l’ambiente online amplifica le tensioni della vita reale, intensificando la sua velocità e collegando discorsi di odio provenienti da fonti disparate: membri della diaspora, politici dell’opposizione a Kinshasa e gruppi armati nell’Est.
Il fronte pro-M23 e pro-Ruanda ne ha approfittato per diffondere l’affermazione secondo cui sia in corso un genocidio dei Tutsi, una dichiarazione questa che dimostra l’incapacità di Kinshasa di proteggere i propri cittadini.
Il Governo di Kinshasa, nel frattempo, sta percorrendo una linea difficile tra l’azione di invitare i suoi cittadini ad astenersi dalla violenza e quella di sfruttare un’ondata di sentimenti anti-ruandesi volta a rafforzare la sua posizione in vista delle elezioni previste per la fine di quest’anno.
Ci sono tanti altri esempi di guerra dell’informazione. Con l’aggravarsi del conflitto nell’ultimo anno, le forze armate congolesi e ruandesi si sono scambiate ogni tipo di accusa, dalle incursioni e dagli arresti di soldati al bombardamento dei reciproci territori.
Questa lotta sui fatti e sui significati crea effetti reali sul campo. Può infatti intensificare le tensioni, innescare movimenti di truppe e modellare il flusso di risorse sia per il Governo che per le forze ribelli.
Questo ecosistema influenza anche il modo in cui arriviamo a pensare e a parlare di violenza e ciò che identifichiamo come le principali cause e soluzioni del conflitto nell’Est, una guerra che ha causato lo sfollamento di oltre 5,5 milioni di persone.
Schierarsi
Gli analisti e i giornalisti che lavorano sull’M23 e sul più ampio conflitto nella RDC hanno bisogno di una maggiore consapevolezza di questo complesso ambiente informativo e del fatto che ne fanno inevitabilmente parte.
Dovrebbero porsi domande del tipo: quali voci sono più estreme o più moderate? Come viene manipolata la storia? Quali narrazioni sono colorate dalla propaganda bellicosa?
Eppure gli osservatori sono invece diventati parte integrante della guerra di parole online e offline.
Ad esempio, i funzionari delle Nazioni Unite per i diritti umani hanno amplificato le storie pro-M23 e Ruanda. A novembre, un consigliere speciale per la prevenzione del genocidio ha sollevato importanti preoccupazioni sulla violenza contro i Tutsi nella RDC, ma ha anche identificato la FDLR come il principale motore della violenza nell’Est.
Questo nonostante il fatto che, mentre una volta l’FDLR costituiva una forza formidabile composta da 20.000 o 30.000 combattenti, ora è l’ombra di se stessa. Gran parte della sua leadership si è arresa o è stata eliminata da operazioni mirate sostenute dal Ruanda.
Anche i media internazionali sono caduti in trappola. Quando Kinshasa ha aumentato il bilancio delle vittime del massacro di Kishishe da 50 a 272, i notiziari si sono affrettati a riprodurre i numeri gonfiati.
L’ulteriore pressione a semplificare le storie per garantire un vasto pubblico di lettori ha anche portato i media a pubblicare titoli sensazionalistici con termini carichi di connotazioni come cannibalismo o terrorismo.
Mentre a livello locale le persone riconoscono l’iperbole e l’uso politico dei riferimenti storici, quando tali frasi vengono esportate a un pubblico internazionale privo delle conoscenze per contestualizzarle, possono essere male interpretate.
I discorsi semplicistici offuscano una comprensione più profonda dei tre decenni di conflitto ciclico nella parte orientale della RDC e possono ancora una volta servire ad amplificare una parte o l’altra nella guerra dell’informazione.
Oltre l’M23
Per comprendere la complessa crisi della RDC è necessario andare oltre il qui e ora, e guardare a come la lunga storia di conflitti del Paese continua a plasmare la violenza odierna nella Regione.
La maggior parte dei gruppi armati oggi è alimentata da una varietà di fattori, tra cui la concorrenza delle élite, il risentimento per le violenze del passato, i conflitti di lunga data per la terra e i Governi locali e la sempre maggiore sfiducia nei confronti dello Stato.
Per comprendere la situazione è anche necessario concentrarsi su altre tragiche aree di violenza di massa oltre che sull’M23. Ciò dovrebbe includere i combattimenti negli altopiani della provincia del Sud Kivu e le sue ramificazioni geopolitiche.
Dovrebbe includere anche gruppi come le Forze Democratiche Alleate (ADF), gruppo ribelle musulmano con origini ugandesi e la Cooperativa per lo Sviluppo del Congo (CODECO), coalizione eterogenea di milizie con sede nella provincia dell’Ituri.
Mentre la ribellione dell’M23 è trattata da alcuni come la principale fonte di violenza nell’Est, l’ADF e il CODECO fanno la parte del leone nei massacri più raccapriccianti che hanno avuto luogo di recente.
Alla fine, analizzare e indagare sul conflitto della RDC presenterà sempre una certa quantità di sfide piuttosto serie. Ma questo non nega la necessità di una maggiore consapevolezza della guerra dell’informazione e di cercare di svelare le altre complesse dinamiche in gioco. I milioni di persone coinvolte non meritano niente di meno.
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