Nel 2000, a dieci anni esatti dall’approvazione della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie (Convenzione peraltro ancora oggi ratificata solo da poche decine di Paesi, nessuno europeo), l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato per il 18 dicembre la Giornata internazionale per i diritti dei migranti che, grazie all’UNICEF, a partire dal Forum Sociale Mondiale di Dakar del 2011 diventa “Giornata di azione globale per i diritti dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati e per la lotta al razzismo”.
Dopo oltre vent’anni dalla proclamazione della Giornata, però, non sembra esserci una significativa implementazione di azioni che garantiscano effettivamente piena dignità e rispetto dei diritti umani alle persone in percorso migratorio. In tutto il mondo e, anche, in Europa.
Piano d’azione sul Mediterraneo centrale
Pochi giorni fa, il Consiglio d’Europa ha discusso il Piano d’azione sul Mediterraneo centrale, proposto dalla Commissione Europea. Racchiude alcune misure prettamente operative per affrontare le sfide ritenute più immediate ed emergenziali lungo la rotta migratoria del Mediterraneo centrale, in attesa di definire un quadro strutturale di riforme in materia di asilo e migrazione (attualmente in fase di negoziazione, complessa, tra gli Stati membri).
La bozza del Piano d’azione propone 20 misure, raggruppate all’interno di tre assi: ridurre la migrazione irregolare e non sicura, fornire soluzioni alle sfide emergenti nel settore della ricerca e del soccorso e rafforzare la solidarietà tra gli Stati membri.
Proviamo a capirne di più e a fare chiarezza sulle politiche europee in tema di migrazione, asilo e salvataggi in mare.
Lo facciamo grazie al contributo di Nancy Porsia, giornalista freelance e producer esperta di Medio Oriente e Nord Africa, di Alessandra Sciurba, docente dell’Università di Palermo dove coordina la clinica legale migrazioni e diritti (CLEDU) e di Giulia Tranchina, esperta di migrazioni e ricercatrice dell’associazione Human Rights Watch (HRW).
Esternalizzazione delle frontiere
Il nuovo Piano europeo sulle migrazioni sembra avere come obiettivo principale, per l’area mediterranea, quello di “ridurre le partenze”. Questo, da quanto leggiamo, non pare voglia essere implementato agendo (direttamente e indirettamente) sulle cause principali delle migrazioni forzate (quindi discriminazioni, violenze, violazioni dei diritti umani, persecuzioni, mancanza di prospettiva, inquinamento, guerre, cambiamenti climatici, povertà, mancato accesso a strutture sanitarie adeguate, ecc) ma sugli effetti.
Uno dei pilastri del piano è quello della “collaborazione con Paesi partner e organizzazioni internazionali” e, al suo interno, un punto riguarda il “miglioramento delle capacità di Tunisia, Egitto e Libia per azioni congiunte mirate a prevenire le partenze irregolari”. Si parla quindi, ancora, di esternalizzazione delle frontiere.
“L’Italia e tutti gli Stati membri UE sono firmatari della Convenzione di Ginevra sui diritti del rifugiato, non possono non riconoscere il diritto all’asilo”, spiega Nancy Porsia. “Fallita la politica dei respingimenti (che ha un profilo di violazione del diritto internazionale), l’esternalizzazione delle frontiere diventa l’unico stratagemma per aggirare l’ostacolo: l’Unione Europea non riesce a immaginare un’altra politica migratoria, che si basi sul diritto”.
“È davvero sconcertante che l’Unione Europea continui ad adottare un approccio alle migrazioni basato esclusivamente sull’obiettivo di chiudere i propri confini, cercare di impedire a bambini, donne e uomini in fuga di arrivare in Europa ad ogni costo e pagare regimi abusivi o repressivi per fare il lavoro sporco di bloccare i migranti nei loro Paesi, sovvenzionando indirettamente violazioni gravissime dei diritti umani ai confini europei”, conferma Giulia Tranchina, che aggiunge: “Queste politiche di esternalizzazione delle frontiere e di supporto e finanziamenti ai Paesi terzi partner ai confini dell’Europa si sono rivelate non solo inefficaci e controproducenti, ma soprattutto disumane e illegali, poichè portano a detenzioni arbitrarie, abusi, espulsioni collettive, intercettazioni e sfruttamento di bambini, donne e uomini migranti resi ancora più vulnerabili e senza accesso ad alcun canale sicuro e legale per raggiungere il territorio dell’Unione”.
In questo, gli accordi con la Libia (e le loro conseguenze) sembrano essere esemplificativi.
“Nel caso della Libia”, continua la ricercatrice di HRW, “le strategie di esternalizzazione hanno contribuito all’intercettazione nel mare Mediterraneo di migliaia e migliaia di donne, uomini e bambini in fuga dagli ‘orrori inimmaginabili’ che subiscono nel Paese nordafricano (più di 32400 nel solo 2021, oltre 20900 quest’anno).
Le Nazioni Unite hanno documentato come i migranti subiscano in Libia detenzioni arbitrarie, torture, violenze sessuali, lavori forzati e altre forme di abusi e sfruttamento così sistematici e diffusi da poter rappresentare crimini contro l’umanità. I rapporti delle Nazioni Unite hanno anche denunciato varie volte come la cosiddetta guardia costiera libica sia spesso collusa coi trafficanti, di come alcuni ufficiali delle autorità libiche siano ricercati dalla Corte Penale Internazionale e segnalati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU per traffico di esseri umani e tortura”.
Alessandra Sciurba rimarca proprio la responsabilità degli Stati e delle Istituzioni europee: “Ridurre le partenze collaborando con Paesi come la Libia, l’Egitto e (in modo diverso) anche la Tunisia è un obiettivo che implica la violazione consapevole dei diritti fondamentali e del diritto internazionale a cui ogni accordo bilaterale dovrebbe sempre essere subordinato.
Il caso oggi pendente alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità relativi al trattamento delle persone migranti in Libia coinvolge, molto correttamente, anche gli esponenti dei governi europei, in primis quello italiano e quello maltese, che si sono resi protagonisti di queste politiche di esternalizzazione”.
Esternalizzazione che coinvolge, nei fatti, prevalentemente Stati (non solo la Libia) nei quali i diritti umani non vengono rispettati. A tal proposito, la docente dell’Università di Palermo sottolinea come “siamo perfettamente consapevoli del livello di violenza e repressione che in Libia e in Egitto subiscono anche i cittadini e le cittadine di questi Paesi: le Nazioni Unite o il Consiglio d’Europa, per parlare di realtà istituzionali, e autorevoli Organizzazioni come Amnesty International o Medici senza frontiere hanno fornito rapporti che non lasciano dubbi in merito”.
Eppure, nonostante questo…
“Nonostante questo, le politiche di esternalizzazione continuano: accordi come quello tra Italia e Libia (che implica la cattura in mare e il refoulement in Libia di decine di migliaia di persone) vengono rinnovati, decine di cittadini ogni mese vengono rimpatriati in Egitto dall’Italia senza adeguati accertamenti rispetto al loro bisogno di protezione da un Governo che viola apertamente diritti e libertà fondamentali, e un Paese come la Tunisia, in piena crisi economica e politica, che non ha un sistema efficace per la protezione dei rifugiati (la Convenzione di Ginevra del 1951 non è implementata in alcun modo e il riconoscimento da parte dell’UNHCR dello status di rifugiato non vale nulla in termini di accesso anche ai diritti minimi) viene pagato tramite accordi non pubblici per intercettare in mare e portare sul proprio territorio anche persone partite dalla Libia”, continua Alessandra Sciurba.
La docente poi, nel sottolineare come gli accordi di esternalizzazione agiscano significativamente sugli equilibri geopolitici, ci spiega: “I dittatori che dovrebbero essere isolati nel contesto internazionale vengono riabilitati e legittimati a questo scopo. Si pensi che nei partenariati promossi dall’Unione Europea sotto l’egida dell’allora Alta rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini erano inclusi personaggi come il sudanese Al Bashir condannato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità, o il governo eritreo. O si pensi alle costanti minacce di Erdogan di riaprire i confini, che era stato pagato per chiudere, ogni volta che si levano timide proteste europee per il trattamento da lui riservato alla popolazione curda”.
Nella narrativa europea, delegare Paesi terzi al contrasto dell’immigrazione irregolare serve anche a fermare i trafficanti di persone.
Su questo punto, per Giulia Tranchina “è intollerabile e vergognoso che l’Unione Europea riproponga la stessa retorica di lotta ai trafficanti rafforzando in realtà la collaborazione con autorità colluse con i trafficanti come quelle libiche, o regimi abusivi o repressivi come quelli egiziano, turco o marocchino.
Invece che cercare di risolvere le cause alla base delle migrazioni, queste politiche vanno a finanziare le autorità spesso responsabili per i fattori politici, sociali, economici e ambientali che costringono le persone a migrare. L’Unione Europea, ancora una volta, non offre alcun canale sicuro e legale per arrivare in Europa e chiedere protezione, lasciando migranti e richiedenti asilo ancora più vulnerabili, alla mercè di trafficanti e autorità repressive e violente, e rendendo i loro viaggi ancora più pericolosi e mortali”.
Anche da un punto di vista esclusivamente economico, la pseudo-strategia di finanziare Stati per bloccare le persone in movimento pare inefficace e un uso diverso di quel flusso (enorme) di capitali potrebbe certamente sopperire a carenze strutturali nella gestione dei sistemi d’asilo e dell’accoglienza.
Per Alessandra Sciurba “militarizzare ed esternalizzare le frontiere costa molto di più che rispettare i diritti delle persone anche dal punto di vista puramente economico” e, a conferma, ci racconta come a studenti e studentesse proponga spesso “di fare una semplice proporzione tra i 6 miliardi di euro dati nel 2016 al presidente turco Erdogan per ‘chiudere’ la rotta balcanica e i 250 milioni di euro con i quali il progetto Mediterranean Hope della Chiesa Valdese e della Comunità di Sant’Egidio ha portato in Italia in aereo 1.000 persone garantendo un anno di accoglienza pienamente dignitosa e trasparente nella gestione, con risorse quindi reinvestite nel nostro Paese”.
Di identico avviso anche Giulia Tranchina: “Invece che pagare milioni di euro a Governi repressivi e dittatoriali per convincerli a bloccare i migranti nei propri Paesi, l’Unione Europea potrebbe usare questi soldi per creare canali sicuri e legali per arrivare in Europa e chiedere asilo. Dovrebbe rafforzare i sistemi di asilo nei Paesi membri, migliorare i sistemi di accoglienza e le misure di integrazione, permettere ai migranti di lavorare e contribuire all’economia europea.
Invece, si continua a perseguire una politica miope e repressiva, che non farà altro che corrodere ulteriormente i diritti umani di migliaia di persone, sia dei migranti sia dei cittadini che vivono sotto i regimi dittatoriali rafforzati strumentalmente dall’Unione europea. Una politica che causerà più insicurezza, sofferenza e abusi alle frontiere europee, giustificando razzismo, xenofobia e attacchi allo stato di diritto nei Paesi membri e sgretolando sempre più irrimediabilmente le radici democratiche dell’Europa”.
Partenariati per i ‘talenti’, ovvero il mercato del lavoro come filtro
Un altro punto del piano europeo prevede l’attivazione di “partenariati per i ‘talenti’ con Tunisia, Egitto e Bangladesh, per favorire l’immigrazione regolare sulla base di esigenze del mercato del lavoro”. Premesso che tentare di contrastare le organizzazioni criminali che lucrano sulle migrazioni irregolari (mettendo anche a rischio la vita delle persone) senza favorire i canali legali sembra un esercizio retorico strumentale e sterile, davvero un filtro basato sulle “esigenze del mercato del lavoro” può essere la soluzione?
“Concordo che sia un esercizio inadeguato. Rappresenta sicuramente un passo nella direzione giusta ma del tutto insufficiente e non efficace poiché basato solo su una selezione di migranti in base a quanto possano essere utili e sfruttabili dalle economie europee”, risponde la ricercatrice di HRW, che poi aggiunge: “Purtroppo non ridurrà il numero di persone costrette a scappare e intraprendere viaggi potenzialmente mortali nè contribuirà a risolvere le cause che le spingono a migrare”.
Anche secondo Alessandra Sciurba “non c’è alternativa all’apertura di canali di ingresso legale se si vuole sconfiggere la tratta di esseri umani e al contempo rispettare il diritto d’asilo che si riflette in precisi obblighi internazionali da parte degli Stati: condizionare gli ingressi alle esigenze del mercato del lavoro può essere una scelta inadeguata e restrittiva, ma sarebbe già qualcosa!”.
“Quando il decreto flussi in Italia veniva ancora emanato, seppure implementando una legge ipocrita come la Bossi-Fini”, aggiunge Sciurba, “in anni come il 2006 550.000 persone entravano legalmente in Italia e il Mediterraneo era solo una rotta residuale. Inoltre, il mercato del lavoro europeo ha bisogno di persone che provengono da Paesi terzi: siamo un continente vecchissimo, in crisi demografica da decenni. Se non possiamo ottenere la libera circolazione delle persone, guardare senza ipocrisia alle esigenze del mercato del lavoro porterebbe comunque a riaprire canali di ingresso legale assolutamente non residuali e non solo per quei settori del mercato del lavoro segnati da sfruttamento e basse qualifiche”.
Nancy Porsia ribadisce invece la necessità di “rigettare in toto il distinguo tecnico tra profughi e migranti economici: chiunque abbia necessità – o anche solo voglia – di immaginare il proprio futuro in un altro luogo deve poterlo poterlo fare attraverso non la concessione di un favore ma il riconoscimento di un diritto”.
Che conseguenze potrebbe avere l’effettiva implementazione di questa libertà di movimento?
Per Porsia, questa “porterebbe tanti cittadini extra europei a entrare nell’area Schengen per periodi più brevi o comunque per valutare uno stile di vita che potrebbe anche non piacere”. Al contrario, invece, “davanti la scelta tra morte (il viaggio, il rischio) e vita (l’Europa come sogno migratorio) tutto quanto ci possa essere di razionale viene meno e ci si attacca in qualche modo alla vita ossia a quello che hanno raggiunto arrivando qua in Europa”.
Ricerca e soccorso in mare e guerra alle ONG
Uno dei “pilastri” del piano europeo sulle migrazioni riguarda un “approccio coordinato di ricerca e soccorso” che, a dispetto del nome, non traccia l’ipotesi di una missione europea di ricerca e soccorso in mare. Prevede, ad esempio (al punto 17), la promozione di discussioni in seno all’IMO (International Maritime Organization) sulla “necessità di un quadro specifico e linee guida per le navi che si dedicano in modo particolare alle attività di ricerca e salvataggio, in particolare alla luce degli sviluppi nel contesto europeo”. Questo ricorda un po’, istituzionalizzato a livello europeo, il “codice di condotta per le ONG” pensato nel 2017 dall’allora ministro dell’Interno Minniti.
Ma ‘discriminare’ tra salvataggi operati da ONG e salvataggi operati da altre navi (civili o militari) non può configurarsi come una violazione del diritto internazionale?
“Le ONG che operano ricerca e soccorso in mare sono diventate un simbolo in molti sensi. L’ossessione dei governi contro il loro operato è strumentale a vari livelli; per questo si fanno queste distinzioni senza alcun fondamento giuridico tra salvataggi e salvataggi”, ci risponde Sciurba.
Che aggiunge: “La guerra contro le ONG ha un portato demagogico quasi irrinunciabile per la politica istituzionale di Paesi come l’Italia, con conseguenze culturali profondissime, allo scopo di decostruire ogni idea di solidarietà possibile e di stimolare costanti sentimenti di rancore e sospetto nell’opinione pubblica”.
Quale può essere il vantaggio nell’introdurre una regolamentazione differente dedicata alle ONG? A cosa serve tutto ciò?
Ancora la coordinatrice della CLEDU: “Serve principalmente a distrarre le cittadine e i cittadini dalle cause reali del loro malessere e a dislocare ogni potenziale conflitto su capri espiatori come sono ormai non solo le persone migranti ma anche chi opera per tutelare i loro diritti. Inoltre, il contrasto alle ONG del mare è uno strumento attraverso il quale i Governi europei stanno riscrivendo il diritto internazionale, o meglio la sua strutturale violazione, invertendo quel principio fondamentale che nasce con le Dichiarazioni e le Convenzioni del Secondo dopoguerra per cui i fini politici nazionali, come la proclamata ‘difesa dei confini’, devono sempre essere subordinati alla tutela dei diritti individuali e al rispetto dei trattati internazionali”.
“Il principio dello sbarco nel porto sicuro più vicino, ad esempio, tutela il diritto alla vita e il divieto di trattamenti inumani e degradanti, e non è certo un capriccio delle ONG che in nulla, come dimostrano gli esiti giudiziari delle indagini nei loro confronti, hanno violato il diritto internazionale del mare e dei diritti umani. Cosa che invece fanno costantemente i governi, coi loro accordi con Paesi di transito come la Libia e la Tunisia, o quando rifiutano di coordinare eventi di ricerca e soccorso e di assegnare un porto sicuro di sbarco”.
Sulla regolamentazione ‘dedicata’ alle ONG interviene anche Nancy Porsia, secondo la quale “è uno stratagemma di grande sofisticazione concettuale utilizzato dall’Unione Europea: davvero nulla giustifica questo tipo di distinguo tra ONG che prestano soccorso in mare e altre imbarcazioni di altra natura, commerciali o militari. I barchini che arrivano autonomamente o i mercantili costretti a complesse operazioni di salvataggio sono prove del fatto che in mare le ONG non rappresentano un pull factor ma sono soltanto uno strumento per salvare vite. Anche quando l’operazione Mare Nostrum è stata terminata, anche quando le ONG erano poco presenti in mare, la gente ha continuato a partire”.
Ancora Porsia: “Si tratta di palliativi che servono a ‘tenere buona’ quella parte dell’elettorato che guarda verso i politici come difensori del proprio territorio, quando sappiamo perfettamente che la difesa dei diritti di noi europei e del nostro territorio non passa attraverso la chiusura dei nostri confini verso i migranti”.
Tranchina ribadisce che “le ONG operano già nel pieno rispetto di tutte le convenzioni e leggi internazionali sul diritto marittimo esistenti. Sono alcuni governi dell’Unione Europea quelli che hanno cercato varie volte di aggirare queste convenzioni internazionali, firmate e ratificate da tutti i Paesi in questione, violando i loro obblighi di soccorso e pronta allocazione di un porto sicuro di sbarco o il divieto di respingere i naufraghi e riportarli in paesi non sicuri. Le ONG stanno operando per adempire a un dovere umanitario, civile e morale di soccorso in mare a cui gli stati membri si stanno sottraendo”.
Le associazioni umanitarie che si occupano di ricerca e soccorso in mare lo fanno, quindi, come ‘supplenti’ per via dell’assenza degli Stati.
“È molto preoccupante che si parli ancora, anche solo velatamente, di regolamentazione dell’operato delle ONG, quando la sola regolamentazione che è necessaria urgentemente è quella delle pratiche utilizzate dai Paesi costieri in relazione al soccorso in mare”, aggiunge l’avvocata di HRW.
“Per il Mediterraneo Centrale, l’Italia e Malta, in quanto Stati costieri con i porti sicuri più vicini, dovrebbero non solo coordinare e lanciare operazioni di soccorso nelle loro rispettive zone di Search And Rescue, ma anche partecipare prontamente a operazioni di soccorso in tutte le altre zone di SAR e alla allocazione di un porto sicuro di sbarco come previsto dal diritto marittimo e internazionale”.
E la SAR libica?
Ancora Tranchina: “Invece che cercare di ostacolare le attività delle ONG che salvano vite in mare, l’Unione Europea dovrebbe adoperarsi affinchè l’IMO revochi la cosiddetta SAR libica, registrata in violazione di tanti requisiti non soddisfatti a livello di capacità di soccorso, coordinamento, professionalità e rispetto dei diritti umani”.
Dovrebbe. Se non fosse tra i registi dell’operazione che ha portato alla sua creazione.
Alternative?
Un anno fa tre organizzazioni per i diritti umani (Human Rights Watch (HRW), European Council on Refugees and Exiles (ECRE) e Amnesty International) hanno presentato un proprio piano d’azione sul Mediterraneo centrale. E, analogamente a quello della Commissione, anche questo è suddiviso in 20 punti operativi.
Non pare ci siano molte altre analogie e similitudini, però, se Amnesty International Italia scrive:
“Il Piano della Commissione si concentra sul rafforzamento della cooperazione con i Paesi terzi con l’obiettivo di impedire le partenze, disinteressandosi delle persone bloccate e riportate indietro. Per le ONG è urgente interrompere gli accordi, in particolare con la Libia.
Mentre le ONG di fatto riempiono il vuoto lasciato dagli Stati, la Commissione sembra cercare nuovi modi per limitarne il lavoro di salvataggio piuttosto che rafforzare con esse la collaborazione.
La Commissione insiste sul rafforzamento di Frontex, l’agenzia europea accusata di avere un ruolo attivo in respingimenti e violazioni dei diritti. Le ONG chiedono che si renda conto proprio di tali violazioni.”
Alternative, credibili, per una gestione delle migrazioni a livello europeo che sia strutturale, sostenibile e rispettosa dei diritti delle persone sono quindi possibili. E ci sono già. La semplificazione imposta dalla narrativa della ‘difesa dei confini’ e della chiusura del sarcofago Europa si scontra però con una complessità reale, troppo spesso nascosta e banalizzata.
“E quali altri obiettivi nascondono in realtà queste politiche di esternalizzazione? Quali traffici tra Libia e Malta si muovono ad esempio in questo momento nel Mediterraneo? Quali scontri per determinare l’equilibrio di potere tra Stati dell’Unione Europea, venati di dinamiche post-coloniali, sono in atto in questo momento in Libia o in Tunisia, usando come strumento anche gli accordi relativi al cosiddetto contrasto dell’immigrazione clandestina? Ecco, è questo il livello di complessità che dobbiamo affrontare.” (A. Sciurba)
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