Le donne vanno in guerra ma vengono escluse dai processi di pace

[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale di Siobhan O’Neil,  Cristal Downing e Kato Van Broeckhoven pubblicato su The New Humanitarian]

16ª Brigata aerea dell’esercito ucraino “Brody”. Foto da Wikimedia Commons in licenza CC

Fino a un po’ di tempo fa, l’account Instagram di Alina Mykhailova era quello tipico di una ventenne europea. Una foto con un abito luccicante a Capodanno, le vacanze e qualche immagine del suo lavoro come consigliera comunale a Kiev.

Fino a quando non si è unita alle forze armate ucraine e ha cominciato a fotografare ciò che vedeva.

A marzo 2022, Alina è tornata in prima linea dopo due anni da civile. Con le immagini degli edifici bombardati e delle pattuglie ha documentato il suo ritorno sul campo di battaglia, raccontando come abbia “ricordato rapidamente la vita nomade e semi-selvaggia della guerra“.

La storia di Alina non è l’unica. Sono molte le donne in servizio nell’esercito ucraino o che si sono offerte volontarie per combattere contro la Russia. In base ai dati statistici più recenti, le donne costituiscono quasi il 25% delle forze armate ucraine.

Potrebbe sembrare prematuro discutere di disarmo o smobilitazione mentre il Paese si trova nel bel mezzo di un feroce conflitto, ma se le donne ucraine dovranno partecipare alla risoluzione delle ostilità e al successivo processo di pace, è necessario che si parli ora del loro ruolo e dei loro bisogni.

E questa pratica andrebbe estesa alle altre guerre in atto nel mondo, in cui le donne combattono attivamente o prestano servizio in ruoli ausiliari ma altrettanto importanti. È necessario perché le loro priorità e aspirazioni passano spesso in secondo piano durante la transizione post-bellica.

Il mese scorso, la comunità internazionale ha discusso dei progressi a partire dall’adozione dell’epocale Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per le Donne, la Pace e la Sicurezza. Ci è stato ricordato che un percorso di pace sostenibile richiede condizioni sociali e politiche che rendano possibile la parità di genere, tra cui la partecipazione delle donne al peacebuilding a tutti i livelli, dal governo centrale alle comunità locali.

Una partecipazione totale, paritaria e significativa

Negli ultimi anni, i Governi e le agenzie multilaterali hanno invocato sempre più l’applicazione di misure che mettano le donne in grado di partecipare più pienamente alle transizioni post-belliche: al disarmo, la smobilitazione, la reintegrazione, la riforma della sicurezza e al processo di pace.

Si è accentuata l’enfasi sulla necessità di allontanarsi da una semplice “inclusione” (che vede le donne coinvolte in maniera secondaria) e di muoversi verso una partecipazione che sia piena, paritaria e significativa, in modo che le donne possano esercitare ruoli pari a quelli degli uomini come soggetti attivi del peacebuilding, e in modo che i loro bisogni e le loro priorità vengano ascoltati e presi in esame.

Questi appelli sono incoraggianti ma la comunità internazionale non vanta ottimi precedenti rispetto all’inclusione di tutti i generi nelle transizioni post-conflitto. Le azioni necessarie alla ristrutturazione o smobilitazione dei ranghi dell’esercito regolare o dei gruppi armati vengono progettate principalmente per gli uomini, il che significa che le donne non sono in condizione di poter accedere, partecipare o beneficiare di tali azioni.

Gli sforzi compiuti in passato in tal senso raramente si sono concentrati, inoltre, sui ruoli più informali che spesso le donne svolgono durante i conflitti tra cui, per esempio, quello di cuoche e informatrici, o membri di organizzazioni comunitarie per la sicurezza.

Questi errori in fase di pianificazione implicano l’esclusione delle donne dai programmi fin dall’inizio o, se la loro inclusione è prevista, il fatto che i programmi non siano diversificati in base ai generi – così che l’esperienza delle donne nella guerra e i loro bisogni e aspirazioni rispetto alla fine del conflitto non vengono presi in considerazione.

La maggior parte degli interventi supportati direttamente dalla comunità internazionale per la smobilitazione e il reintegro dopo il conflitto degli ex combattenti tendevano a riguardare i gruppi armati non di Stato invece delle forze armate statali – un’omissione evidentemente errata.

Mentre sono stati vari i tentativi di riorganizzare o ristrutture l’esercito di Stato, analizzare gli interventi sui gruppi armati non statali si rivela comunque istruttivo per capire quali siano le necessità specifiche delle donne e gli ostacoli che incontrano quando ritornano alla vita da civili.

L’analisi della storia di questi programmi di smobilitazione evidenzia come gli sforzi del passato non siano stati sufficienti a raggiungere una reale apertura alle donne (e alle ragazze) e un pieno coinvolgimento nelle fasi di transizione fuori dal conflitto.

Riconoscere i bisogni specifici delle donne

Una ricerca del Managing Exits from Armed Conflict (MEAC), un’iniziativa del Centro Universitario ONU per la Ricerca sulla Politica (UNU-CPR) e dell’Istituto ONU per la Ricerca sul Disarmo (UNIDIR), mostra come le donne e gli uomini vivano la guerra in maniera diversa e possano avere necessità diverse quando vengono smobilitati.

In Nigeria, le donne che avevano fatto parte di Boko Haram spesso ricevono ben poco supporto, anche se hanno un certo numero di figli a carico. Invece, i loro mariti – se classificati come combattenti – ricevono supporto in via prioritaria.

Oltre all’aumentare delle difficoltà economiche, le donne hanno riportato sintomi più accentuati di PTSD (disturbo da stress post-traumatico) e depressione rispetto agli uomini.

In Colombia, sebbene il processo di reintegro sia iniziato negli anni ’90 se non prima, il MEAC non ha trovato prove che le considerazioni di genere siano state prese realmente in considerazione fino al 2008.

Questa negligenza si rivela ancora più problematica se si considerano gli ostacoli che le donne devono affrontare all’interno della società quando depongono le armi dopo un conflitto. Lo stigma e la discriminazione verso le donne che hanno preso parte a una guerra può bloccare la loro transizione verso la vita civile e/o la loro piena partecipazione al processo di pace.

Rispetto a ciò, il MEAC ha rilevato che le donne impiegate nelle forze di autodifesa in Nigeria erano oggetto di stigma semplicemente perché indossavano un’uniforme con pantaloni, cosa che i loro corrispettivi maschili non erano tenuti a fare.

In Colombia, le donne che avevano rivestito ruoli apicali nelle FARC hanno dichiarato di sentirsi frustrate dalla scarsità di opzioni nella fase post-conflitto, che le vedevano occuparsi di questioni famigliari come l’accudimento di bambini, impedendo di fatto la loro partecipazione alla politica dopo gli accordi di pace.

Questo caso evidenzia non solo gli ostacoli di genere che le donne si trovano ad affrontare quando tornano alla vita civile, ma anche le difficoltà che esse vivono nel tenere in equilibrio identità diverse, tra cui quelle di professioniste e di madri.

Occuparsi dei loro bisogni nelle fasi iniziali della pianificazione della transizione, facendo tesoro delle lezioni imparate anche da altre situazioni, significa che le donne – sia quelle in prima linea come Alina che quelle impegnate in ruoli più informali dietro le quinte – non saranno più sottovalutate e potranno in maniera paritaria forgiare la società che emerge alla fine di un conflitto.

[Questo articolo fa parte di una serie di The New Humanitarian dedicata al peacebuilding, focalizzata su come prevenire le atrocità, rendere le società più resilienti e costruire la pace in maniera sostenibile.]

Gaia Resta

Traduttrice, editor e sottotitolista dall'inglese e dallo spagnolo in ambito culturale, in particolare il cinema e il teatro. L'interesse per un'analisi critica dell'attualità e per i diritti umani l'ha avvicinata al giornalismo di approfondimento e partecipativo.

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