Qatar oltre i Mondiali: no ai diritti, alleanze scomode, accordi sul gas

Il Qatar è oggi al centro del mondo perché sta ospitando i Mondiali di calcio 2022. Eppure, finora ben pochi potevano considerarsi davvero informati sulle peculiarità di questo piccolissimo Stato. Affacciato sul Golfo Persico, che ospita lungo le sue coste Paesi cruciali della Penisola araba e del Medio Oriente: Iran, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, l’emirato è la più piccola nazione a ospitare un evento sportivo di tale portata. A prescindere da quale sarà il bilancio della Coppa del Mondo, l’edizione qatarina è già storica: per la prima volta la massima competizione Fifa si svolge in Medio Oriente.

La monarchia guidata dall’emiro Tamim bin Hamad al-Thani arrivato al potere nel 2013 dopo l’abdicazione del padre suscita interesse innanzitutto per la sua composizione demografica: dei circa 3 milioni di abitanti, infatti, solo 300.000 sono nazionali, ovvero cittadini del Qatar. Per il resto si tratta di lavoratori stranieri, provenienti soprattutto da Sud-Est asiatico, Egitto, Filippine. Lo Stato è molto giovane, sia perché il 60% della popolazione ha meno di 40 anni, sia per la storia nazionale: nel 1971 è stata dichiarata l’indipendenza dal protettorato britannico.

Prima che si aprisse la finestra calcistica mondiale su questo minuscolo emirato, il Qatar era emerso come protagonista della crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina. La monarchia del Golfo, infatti, vanta il terzo posto a livello globale per riserve di gas naturale. Considerando che il primo Paese al mondo a possederne è la Russia, oggi isolata per l’invasione ucraina, e il secondo è l’Iran, bloccato da sanzioni internazionali per la questione nucleare, Doha è diventata in pochi mesi un perno della geopolitica degli idrocarburi.

Non è un caso che gli Stati europei si siano affrettati a incontrare l’emiro per accaparrarsi nuovi accordi sulla fornitura della risorsa (anche l’Italia è andata in missione). E non stupisce nemmeno che, mentre divampano le critiche sui diritti umani e civili negati nell’emirato, gli stessi Paesi polemici intessono relazioni politiche ed economiche con Doha. Il 29 novembre, ad esempio, la Germania ha siglato accordi per ricevere nuovi flussi di gas naturale liquefatto del Qatar dal 2026 e per un periodo di 15 anni.

Pochi giorni prima, QatarEnergy ha annunciato l’intesa storica per la fornitura di gas naturale alla Cina per 27 anni, definendo l’accordo come il più lungo mai visto prima. I Paesi asiatici guidati da Cina, Giappone e Corea del Sud sono il mercato principale del gas del Qatar, oggi però conteso anche dagli europei, sempre più coinvolti in affari con l’emirato. TotalEnergies, società francese, possiede la quota del 9,3% del progetto North Field South che mira a produrre gas naturale liquefatto. Anche l’italiana ENI vi fa parte, con circa il 3%.

In realtà, la giovane monarchia del Golfo ha avviato una strategia di soft power, ovvero di relazioni diplomatiche fitte per accrescere il suo prestigio che va ben oltre l’approvvigionamento del gas naturale. Il Paese intesse rapporti anche con Stati considerati nemici in quella calda area geografica che è la penisola del Golfo Persico, proprio con lo scopo di non restare fuori da nessuna area di influenza e di costruire una rete di relazioni di comodo e in modo assolutamente indipendente.

Proprio questo “non allineamento” nella politica estera con le nazioni della regione, Arabia Saudita in primis, è costato al Qatar un lungo periodo di isolamento e di crisi. Nel 2017, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto hanno tagliato i rapporti diplomatici e commerciali con Doha e hanno imposto un blocco marittimo, terrestre e aereo all’emirato, sostenendo che supportava il “terrorismo” ed era troppo vicino all’Iran.

Già precedentemente, ai tempi delle primavere arabe, le tensioni hanno ruotato attorno al suo presunto sostegno a movimenti politici islamisti, come i Fratelli Musulmani, oltre ad Hamas. Una posizione inaccettabile innanzitutto per i potenti sauditi e per gli Emirati Arabi Uniti.

La ritrovata pace con i vicini, tramite l’Accordo di stabilità e solidarietà del 5 gennaio 2021, non ha comunque cancellato le peculiarità di questo piccolo Stato, che lo vedono in relazione con Usa, Cina, Paesi del Golfo, Turchia, Iran. Con la Repubblica islamica, per esempio, condivide il South Pars/North Dome, considerato il più grande giacimento di gas naturale al mondo. I legami con Ankara si sono fatti sempre più stretti, come spiegato da Valeria Talbot, Co-Head, Mena Centre – Ispi:

L’alleanza tra Qatar e Turchia è tra le più stabili del Medio Oriente. Risalente ai primi anni 2000, si è rafforzata negli anni, soprattutto dopo le rivolte arabe del 2011. Sia l’ideologia che il pragmatismo hanno avvicinato i due Paesi. In effetti, il loro sostegno reciproco all’Islam politico nella regione è andato di pari passo con comuni interessi militari ed economici. Mentre Doha conta sulle capacità di difesa di Ankara (una base militare turca è stata costruita in Qatar nel 2019), Ankara si affida a Doha per il sostegno economico e finanziario…

Soprattutto dal 2010 in poi, anno in cui è stato assegnato il mondiale a Doha, l’emirato è emerso come protagonista internazionale infilandosi nella crisi afghana, con i talebani che hanno aperto un ufficio politico nella capitale qatarina nel 2013 (unico caso al mondo) e da qui avviato le trattative diplomatiche con gli Usa, facendo da ponte tra gli americani e il gruppo islamista.

Si è quinti giunti agli accordi di Doha – appunto – del 2020 siglati dal presidente Trump e dai talebani. Era quello il preludio di un riconoscimento politico degli estremisti islamici e dell’intesa per il ritiro delle truppe Usa.

Senza dimenticare che la base americana dell’emirato, al-Udeid, e l’aeroporto di Doha sono stati cruciali per il ritiro Usa e per i voli di evacuazione dei civili in quei giorni concitati di fuga nell’agosto 2021. Insieme alla Turchia, il Qatar ha offerto assistenza per riaprire l’aeroporto di Kabul e, prima che i talebani entrassero nella capitale, proprio Doha era in trattative con la Nato per addestrare le forze speciali afghane in vista della partenza dell’Alleanza atlantica. Inoltre, Stati Uniti, Regno Unito, Giappone, Paesi Bassi e anche Italia sono alcuni dei Paesi che hanno trasferito le loro missioni diplomatiche afgane a Doha. 

A livello interno, l’emirato spicca per la carenza di tutela dei basilari diritti umani e civili, di cui tanto si sta parlando in queste settimane. Lo sfruttamento dei lavoratori migranti è balzato sulle prime pagine mondiali. In realtà, la pratica disumana della kafala, o sponsorizzazione, è alla base del reclutamento di operai, braccianti, domestici in Qatar e in altri Paesi limitrofi da molto tempo. Voci Globali ne ha parlato più volte, in un approfondimento e in una analisi sull’Arabia Saudita.

C’è da dire che alcuni passi in avanti sono stati compiuti e nel 2020 l’emirato si è distinto per essere stato il primo Paese nella regione del Golfo Arabo a consentire a tutti i lavoratori migranti di cambiare lavoro prima della fine del contratto senza dover ottenere il consenso del datore di lavoro, che è uno degli aspetti chiave della kafala. Il Qatar è stato poi il secondo Paese della regione del Golfo a stabilire un salario minimo per i lavoratori migranti, dopo il Kuwait. Tuttavia, sono rimaste attive altre disposizioni legali che di fatto facilitano l’abuso e lo sfruttamento.

Lo ha denunciato, tra gli altri, Human Rights Watch. Nell’emirato è ancora legittimo che un datore di lavoro richieda, rinnovi o annulli il permesso di soggiorno di un lavoratore, e la fuga o l’abbandono del posto di impiego senza permesso, è un reato. I lavoratori, in particolare quelli a bassa retribuzione e i domestici, spesso dipendono dal loro datore di lavoro anche per l’alloggio e il cibo. La confisca dei passaporti, le elevate tasse di reclutamento e le pratiche di assunzione ingannevoli rimangono in gran parte impunite. Ai lavoratori è vietato anche iscriversi a sindacati o esercitare il diritto di sciopero. Tale impunità e gli aspetti rimanenti del sistema kafala  continuano a guidare abusi e pratiche di lavoro forzato.

Foto Wikimedia Commons di Alexey Sergeev. Lavoratori edili stranieri in Qatar

Opaca è inoltre la grave questione delle morti sul lavoro per lo stress da caldo. Un’analisi del Guardian ha rivelato che più di 6.500 lavoratori migranti provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka sono morti in Qatar dall’assegnazione dei Mondiali fino alla fine dei lavori per la Coppa del mondo, proprio nei cantieri per la costruzione degli stadi. Lo Stato qatarino ha sempre assunto un approccio superficiale sulle indagini di questi decessi, molto probabilmente causati dalle estreme condizioni di lavoro, ma insabbiate dal Governo.

Molto critica è anche la condizione delle donne. Nel marzo 2021, Human Rights Watch ha pubblicato un report in cui si condanna il concetto discriminatorio di tutela maschile, previsto e incorporato nella legge, che nega alle donne – in modo quindi legale –  il diritto di prendere molte decisioni chiave sulla loro vita in modo autonomo.

Le donne in Qatar devono ottenere il permesso dai loro tutori maschi per sposarsi, studiare all’estero con borse di studio governative, lavorare, viaggiare fino a determinate età e ricevere alcune forme di assistenza sanitaria riproduttiva. Il sistema nega inoltre alle madri l’autorità di agire come tutrici principali dei loro figli.

Il diritto di famiglia, inoltre, limita fortemente i diritti femminili su matrimonio, divorzio, eredità. Una volta sposata, per esempio, una donna è tenuta ad obbedire al marito e può perdere il sostegno finanziario del consorte se lavora o viaggia o si rifiuta di fare sesso con lui, senza un motivo “legittimo”. Gli uomini hanno un diritto unilaterale al divorzio, mentre le donne devono chiederlo ai tribunali e per ragioni  limitate, oltre ad andare incontro a svantaggi economici più gravi rispetto agli uomini in caso di separazione. Le donne continuano inoltre a non essere adeguatamente protette contro la violenza domestica e sessuale.

Pesante è anche la situazione dei diritti Lgbt, di associazione e di espressione. L’articolo 296, paragrafo 3, del codice penale, criminalizza una serie di atti sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso, comprese potenziali pene detentive per “chiunque induca o tenti un maschio, con qualsiasi mezzo, a commettere un atto di sodomia o dissolutezza”.

Nell’ottobre 2022, le organizzazioni per i diritti umani hanno documentato casi in cui le forze di sicurezza hanno arrestato persone Lgtb in luoghi pubblici, basandosi esclusivamente sulla loro espressione di genere, e hanno perquisito i loro telefoni. Hanno anche affermato che era obbligatorio per le detenute transgender partecipare alle sessioni di terapia di conversione come requisito per il loro rilascio.

Proteste per la liberazione del poeta al-Ajami all’ambasciata del Qatar negli Usa, 2013 – Foto Wikimedia Commons – Il poeta ha ricevuto la grazia reale dallo sceicco Tamim bin Hamad Al Thani, l’emiro del Qatar nel 2016, dopo essere stato arrestato nel novembre 2011 per la pubblicazione su YouTube del suo “Tunisian Jasmine”, una poesia che elogiava le rivolte arabe e criticava i Governi di tutta la regione. Il poeta era stato inizialmente condannato all’ergastolo il 29 novembre 2012 per “incitamento al rovesciamento del regime”.

Sul fronte della libertà di espressione, occorre sottolineare che il codice penale del Qatar criminalizza la critica all’emiro, l’insulto alla bandiera nazionale, la diffamazione della religione, compresa la blasfemia, e l’incitamento “a rovesciare il regime”.

Emblematico è stato il caso di Malcolm Bidali, una guardia di sicurezza kenyota, blogger e attivista per i diritti dei lavoratori migranti. Tenuto in isolamento per un mese, gli hanno negato l’accesso all’assistenza legale. Il 14 luglio 2020, il Consiglio supremo della magistratura lo ha multato ai sensi della controversa legge sui crimini informatici per aver pubblicato “notizie false con l’intento di mettere in pericolo il sistema pubblico dello Stato“. L’ordine penale è stato approvato senza che Malcolm Bidali fosse formalmente accusato, portato davanti a un tribunale o informato delle accuse penali che doveva affrontare. Il blogger ha lasciato il Qatar il 16 agosto dopo aver pagato la pesante multa.

L’emirato ha pochi media indipendenti o critici. Le autorità del Paese limitano la libertà di stampa imponendo restrizioni alle emittenti, anche vietando le riprese in determinati luoghi come edifici governativi, ospedali, università, alloggi per lavoratori migranti e abitazioni private.

Molto controllata e limitata è anche la libertà di associazione, di riunione e di manifestare. Nell’agosto 2022, centinaia di lavoratori migranti sono stati arrestati e deportati dalle autorità statali per aver protestato per le strade di Doha dopo che la loro azienda non aveva ripetutamente pagato gli stipendi.

Quasi imossibile, poi, parlare di processi equi. Sono stati documentati casi di processi in cui le denunce di tortura e maltrattamenti degli imputati non sono mai state indagate e le condanne sono state emesse sulla base di “confessioni” estorte.

Quando tutte le luci dei Mondiali e l’euforia delle partite di calcio si spegneranno, il Qatar continuerà a marciare su questa strada fatta di diritti inesistenti per i cittadini e di alleanze opportunistiche. Con la complicità anche di quei Paesi che oggi criticano l’assegnazione della Coppa del mondo di calcio nell’emirato, ma fiutano affari imperdibili alla corte della monarchia del Golfo.

Violetta Silvestri

Copywriter di professione mantiene viva la passione per il diritto internazionale, la geopolitica e i diritti umani, maturata durante gli studi di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, perché è convinta che la conoscenza sia il primo passo per la giustizia.

One thought on “Qatar oltre i Mondiali: no ai diritti, alleanze scomode, accordi sul gas

  • Bravissima ottimo lavoro. È sempre un piacere leggere i tuoi articoli . Complimenti .

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