Manganelli, lacrimogeni, pallottole: muore il diritto alla protesta
Sta per concludersi un’estate nera per il diritto di protesta nel mondo, come testimoniato da alcuni fatti avvenuti negli ultimi mesi.
I combattenti talebani hanno picchiato le donne manifestanti e sparato in aria mentre disperdevano violentemente una marcia nella capitale afgana, pochi giorni prima del I° anniversario del loro ritorno al potere. Cantando “pane, lavoro, libertà“, “vogliamo partecipazione politica” e “no alla schiavitù“, una quarantina di donne si sono fatte coraggio per far sentire la loro voce, ma sono state inseguite e picchiate.
In Sri Lanka, il Governo è stato accusato di una sproporzionata repressione delle proteste sfociate nel rovesciamento di Gotabaya Rajapaksa da presidente, con attivisti che hanno subito intimidazioni e arresti arbitrari. Il neo-presidente Ranil Wickremesinghe, contestato perché ritenuto illegittimo e protettore della famiglia Rajapaksa, ha chiamato i manifestanti “fascisti” e ha dichiarato lo stato di emergenza, dando pieni poteri alle forze di polizia e ai militari contro le manifestazioni.
In Tunisia, le forze di sicurezza hanno represso con la forza un’importante protesta svoltasi il 22 luglio nella capitale per contrastare le azioni del presidente Kais Saied volte a cambiare la Costituzione e indebolire ulteriormente le istituzioni democratiche.
Secondo le organizzazioni per i diritti umani, la polizia ha attaccato i manifestanti che si erano radunati nel centro di Tunisi, colpendoli con manganelli e lanciando gas lacrimogeni. Diverse persone ferite durante la repressione sono state ricoverate in ospedale e la polizia ha arrestato nove manifestanti. Tra questi, l’attivista femminista Olfa Baazaoui del Partito dei Lavoratori della Tunisia, la sostenitrice dei diritti LGBTQ+ Saif Ayedi di Damj, Aziz Ben Jemaa del Partito dei Lavoratori della Tunisia.
In Uzbekistan, le manifestazioni nella regione autonoma del Karakalpakstan contro gli emendamenti costituzionali proposti dal Governo sono diventate violente quando la polizia si è scontrata con i manifestanti, uccidendo almeno 18 persone.
In Uganda, la polizia ha arrestato dozzine di manifestanti, colpevoli di aver protestato contro l’aumento vertiginoso dei prezzi di cibo e carburante. I residenti del distretto di Jinja, nella regione orientale, l’11 luglio hanno espresso la loro frustrazione bruciando pneumatici e chiudendo l’autostrada Jinja-Kamuli, mentre la polizia ha sparato gas lacrimogeni e proiettili veri per disperdere la folla e dall’11 al 12 luglio ha arrestato almeno 25 persone.
Poi, le riprese televisive della rivolta del 25 luglio hanno mostrato nuvole di gas lacrimogeni da bombole esplosive sparate dalla polizia, mentre forze di sicurezza inseguivano giovani manifestanti, picchiandoli con manganelli.
Anche gli Stati Uniti sono stati protagonisti, con proteste e manifestazioni contro la decisione della Corte suprema degli Stati Uniti di ribaltare la storica sentenza Roe vs Wade, che sosteneva il diritto costituzionale all’aborto. Sebbene nella maggior parte dei casi il clima sia stato pacifico, non sono mancati episodi di violenza, a testimonianza di una tendenza alla repressione del dissenso espresso in strada.
Le forze dell’ordine hanno represso le proteste in più Stati, utilizzando manganelli, rimuovendo con la forza i manifestanti dagli spazi pubblici, sparando gas lacrimogeni. Oltre 20 attivisti pro-choice (a favore dell’aborto) sono stati arrestati a New York mentre le proteste si svolgevano al Washington Square Park, Union Square e davanti all’edificio NewsCorp nel centro della città, sede degli studi Fox News. In Arizona, la polizia ha sparato lacrimogeni contro i manifestanti.
Quelli appena elencati sono soltanto alcuni esempi concreti di un fenomeno, quello della repressione violenta e illegale del diritto alla protesta, diffuso purtroppo da tempo e che non sembra conoscere confini.
Diversi allarmi al riguardo sono stati lanciati proprio di recente. Il relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto all’assemblea pacifica e all’associazione, Clément N. Voule, ha dipinto un quadro preoccupante nel suo rapporto di giugno 2022, affermando a chiare lettere che
invece di considerare la protesta pacifica come un mezzo democratico di partecipazione, troppo spesso i Governi ricorrono alla repressione per reprimere le proteste e mettere a tacere le voci della gente… c’è una continua contrazione dello spazio civico e un aumento delle violazioni dei diritti umani nel contesto di proteste pacifiche, mentre i Governi di tutto il mondo assumono un approccio legato esclusivamente alla sicurezza nelle crisi più gravi.
Troppo spesso, inoltre, gli Stati perseguitano le persone, le arrestano illegalmente, le criminalizzano, le torturano, addirittura le uccidono soltanto perché hanno esercitato la loro libertà fondamentale di riunione o manifestazione pacifica.
Il relatore speciale ha affermato che l’abuso delle misure di emergenza da parte degli Stati per imporre restrizioni prolungate ed eccessive contro le proteste è diventato un luogo comune ed è aumentato durante la pandemia di COVID-19. Nella relazione Onu se ne fa esplicito riferimento:
Imporre lo stato di emergenza, non dà mano libera agli Stati per violare i diritti umani. Indipendentemente dalla crisi che stanno attualmente affrontando, anche durante uno stato di emergenza o di guerra, gli Stati sono vincolati dai loro obblighi in materia di diritti umani. Laddove il diritto a un’assemblea pacifica è pienamente goduto, prosperano società pacifiche, democratiche e rispettose dei diritti.
Nel rapporto si legge anche che gli Stati hanno spesso utilizzato illegalmente armi da fuoco contro i manifestanti. Centinaia di persone che pacificamente chiedevano democrazia e ordine costituzionale sono state ferite e anche uccise a causa dell’uso deliberato, indiscriminato e sproporzionato della forza, comprese le armi da fuoco, nelle rivolte dopo i colpi di Stato militari avvenuti in Myanmar e in Sudan nel 2021.
L’uso ingiustificato della forza su larga scala da parte di agenti di sicurezza ha caratterizzato anche leproteste innescate da crisi sociali ed economiche in Kazakistan, Iran, Libano e Venezuela.
Inoltre, numerose sono state le segnalazioni di forze di sicurezza che hanno abusato intenzionalmente di armi meno letali per reprimere le proteste, compresi gas lacrimogeni, cannoni ad acqua, proiettili di gomma e manganelli. Questi strumenti sono sempre più impiegati, ma devono anch’essi rispondere a determinati criteri come la necessità e la proporzionalità ed essere utilizzati come misura di ultima istanza e garantendo il minimo danno alle persone. L’uso non necessario o eccessivo di tali armi può costituire tortura o maltrattamento, o violare il diritto alla vita.
Secondo alcuni studi scientifici i gas lacrimogeni, molto utilizzati per disperdere manifestanti in ogni parte del mondo, sono delle vere e proprie armi chimiche, in grado addirittura di causare aborti spontanei. Il Protocollo di Ginevra del 1925 aveva lo scopo di vietare l’uso militare di armi chimiche in guerra. Tuttavia, i trattati pertinenti non si estendono alle nazioni che usano tali sostanze sul proprio popolo. Ciò significa che la polizia e le altre forze governative sono libere di lanciare gas lacrimogeni ai civili disarmati in nome dell’ordine pubblico, mentre i soldati potrebbero essere perseguiti per crimini di guerra se avessero fatto lo stesso con i combattenti armati.
La mancanza di regolamentazione di questi strumenti negli Usa, per esempio, significa che, in alcuni casi, la polizia ha acquistato armi chimiche sempre più potenti da utilizzare sulla folla. Il Chemical Weapons Research Group di Portland, Oregon, ha documentato molti tipi di armi utilizzate durante le rivolte del 2020 negli Stati Uniti, tra cui granate fumogene di livello militare e versioni di gas lacrimogeni contenenti oleoresin capsicum in polvere (OC, lo stesso ingrediente dello spray al peperoncino, commercializzato da alcune aziende come “polvere del panico”). Tali strumenti di maggiore potenza non erano mai stati documentati prima.
Anche queste sono evidenti violazioni del diritto di protestare. Così come lo sono gli arresti arbitrari. Sicurezza nazionale, antiterrorismo, ordine pubblico, leggi sulla diffamazione e sull’ istigazione sono state motivazioni ampiamente utilizzate in modo improprio per criminalizzare le proteste e per arrestare e trattenere arbitrariamente i manifestanti.
In India, secondo il rapporto Onu, le autorità hanno sempre più utilizzato vaghe leggi sulla sedizione dell’era coloniale e sull’antiterrorismo per condannare i manifestanti pacifici, soprattutto nel contesto delle proteste degli agricoltori. Una pratica ampiamente diffusa nella nazione, che aveva già richiamato l’attenzione di Human Rights Watch nel 2016.
Recentemente, lo stesso fenomeno si è verificato in Russia, non appena Putin ha ordinato l’invasione dell’Ucraina. Entro la sera del 25 febbraio la polizia aveva già arrestato almeno 1.858 persone, stando ai dati di un’organizzazione indipendente, solo per aver partecipato a proteste contro la guerra in 57 città. Alcuni dei manifestanti detenuti sono stati incolpati soltanto perché tenevano in mano cartelli con slogan “no alla guerra“, “non tacere“, “ferma la guerra“.
A questi esempi di repressione del dissenso si aggiungono quelli di atti preventivi da parte dei Governi, ovvero la promulgazione e la messa in pratica di leggi che bloccano sul nascere movimenti pacifici e manifestazioni di protesta, oppure che vogliono fungere da deterrente.
Come accaduto in Australia, dove i Governi di due Stati hanno introdotto una legislazione progettata per criminalizzare le proteste ambientaliste. Nel Victoria, i manifestanti che tentano di impedire il disboscamento delle foreste native dovrebbero affrontare 12 mesi di carcere o più di 21.000 dollari di multa e il divieto di accedere alle aree di protesta, secondo una proposta di legge.
In Tasmania, i manifestanti potrebbero essere multati fino a 12.975 dollari o incarcerati per 18 mesi. Il New South Wales ha approvato leggi che vedranno le persone multate fino a 22.000 dollari o incarcerate per due anni se protestano su strade pubbliche, linee ferroviarie, tunnel, ponti o aree industriali.
In Francia, i rappresentanti del collettivo di calciatrici musulmane chiamato Les Hijabeuses avevano organizzato una protesta vicino al Parlamento francese per esprimere il dissenso verso una politica discriminatoria della Federcalcio francese, che vieta alle donne che scelgono di indossare il velo di partecipare a partite ufficiali. La Prefettura ha negato la manifestazione per timori sull’ordine pubblico e sulla sicurezza delle donne manifestanti. Tuttavia, secondo i promotori della pacifica manifestazione, le ragioni offerte dalle autorità per giustificare il divieto non erano proporzionate o legittime rispetto all’obbligo del Governo di tutelare il diritto alla libertà di riunione pacifica e si basavano su stereotipi stigmatizzanti. Un tribunale amministrativo ha annullato la decisione della polizia, ma a quel punto le proteste erano state sospese.
Dagli atti concreti di violenza e repressione contro le persone che manifestano in strada, fino all’attuazione di discutibili leggi sulla sicurezza pubblica, nel mondo c’è un’abbondanza di ostacoli illegali al diritto di protestare pacificamente. Un’ulteriore prova, quest’ultima, dell’ingiustizia che domina negli Stati meno democratici, ma anche in quelli che vengono considerati tali.