La tendenza dilagante degli ultimi anni è che ogni prodotto, iniziativa, politica o innovazione sia naturale, amica della natura, sostenibile. Ogni cosa si veste di verde, ma il rischio che questo sia solo il colore di una maschera accende un faro sul fenomeno del greenwashing.
Il concetto viene dal mondo del marketing: il neologismo che viene tradotto come ambientalismo o ecologismo di facciata, infatti, indica la precisa strategia commerciale di alcune imprese di pubblicizzare un’immagine di sé positiva dal punto di vista dell’impatto ambientale.
Il termine fu coniato per la prima volta nel 1986 dall’ambientalista Jay Westerveld, in risposta alla fuorviante strategia commerciale di alcuni alberghi. La leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria nascondeva, in realtà, il tentativo di attutire i costi per l’impresa.
Oggi il fenomeno ha preso piede, anche come diretta conseguenza dei cambiamenti del mercato e dei consumatori stessi. Se è vero, infatti, che siamo sempre più attenti e consapevoli nelle nostre scelte come acquirenti, la globalizzazione dell’economia ha spinto le aziende a investire nella Responsabilità Sociale d’Impresa per essere competitive. Dunque, a parità di offerta, un’azienda che mostra una sensibilità spiccata per le questioni ambientali può aggiudicarsi una buona fetta di profitti.
Da qui, il rischio sempre più evidente di essere esposti a finte campagne che disegnano un quadro idilliaco di imprese impegnate per l’ambiente, così come organizzazioni e istituzioni. La tutela dal greenwashing non è ben delineata: in qualche modo, a livello europeo è assicurata dalla Tassonomia Ue, una sorta di catalogo che classifica e definisce quali sono le attività economiche che possono essere dette sostenibili.
Nei diversi Stati, poi, normative specifiche sono adibite a contenere il problema. In Italia, ad esempio, il greenwashing è considerato pubblicità ingannevole ed è quindi posto sotto il controllo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
Quest’ultima è intervenuta su tema, l’anno scorso, in un eclatante caso riguardo ENI, accusata di diffondere messaggi fuorvianti nel pubblicizzare come green il carburante “ENIDiesel+”. La sentenza ha disposto per il colosso dell’energia una multa da cinque milioni di euro, il massimo imputabile.
Altri casi, in tempi recenti, hanno investito e macchiato di greenwashing altri grandi brand: Coca Cola, per esempio, citata in giudizio nel 2021 dall’ Earth Island Institute per la pubblicità riguardante le bottiglie di plastica della nota bevanda. O, ancora, il grande marchio della moda commerciale H&M, che ha visto sotto i riflettori la campagna “Conscious” da parte della Norwegian Consumer Authority, perché poco chiara nel definire la sostenibilità della linea.
Oltre i grandi casi che suscitano clamore su notiziari e giornali, ciò che allarma maggiormente è la sovraesposizione di ciascuno al fenomeno. Tutti i settori sono stati investiti dall’entusiasmo di questa onda verde che ci richiama con urgenza a scegliere il meglio per il Pianeta, cosa che rende più semplice all’ecologismo di facciata farsi strada nella nostra quotidianità.
Come non considerare, fra tutti, il greenwashing alimentare cui siamo continuamente sottoposti? Ingredienti di origine naturale, agricoltura biologica, packaging riciclati, rispetto per l’ambiente, sono solo alcuni degli slogan che ormai si perdono accanto alle etichette e che fanno da spalla ai valori nutrizionali, ai pochi conservanti, alle percentuali di sale ridotte. La poca attenzione e le indicazioni poco chiare delle aziende produttrici rendono opaca una realtà di sfruttamento animale e dei lavoratori, di standard di qualità e sostenibilità bassi o non rispettati, di filiere poco trasparenti o solo in parte sostenibili, di emissioni e inquinamento troppo alti.
Ma anche nel settore dei trasporti la pubblicità ingannevole è dietro l’angolo. Gli incentivi governativi e le grandi case automobilistiche ci mostrano, ad esempio, con grande speranza la sostenibilità delle auto elettriche, con la promessa di basse emissioni e di un’aria più salubre. Quanto però emerso attraverso uno studio di Transport & Environment, è una realtà diversa: le auto elettriche (ibride) producono dal 28 all’89% di emissioni in più di quanto viene pubblicizzato. Allo stesso tempo, anche la transizione totale alle auto elettriche non assicura un significativo impatto sull’abbattimento delle emissioni di gas serra, in quanto la produzione delle batterie, così come la produzione di elettricità, non è stata ancora completamente decarbonizzata.
Altro grande settore investito dalla strategia di facciata del greenwashing è sicuramente quello della moda. Dilaga, soprattutto tra le grandi catene commerciali di capi d’abbigliamento, la pubblicità di tessuti biologici, fibre sintetiche che sono più sostenibili e grandi certificazioni di qualità. Anche in questo settore, purtroppo, la “vernice verde” copre nei fatti un ciclo di vita dei capi non sostenibile, di cui le certificazioni di qualità e attenzione all’ambiente non tengono conto.
Questo è quanto accede soprattutto per i capi in fibra sintetica, quella che forse è più sponsorizzata come sostenibile, in quanto non prodotta direttamente in natura: ciò, però, apre una grande questione in merito principalmente allo smaltimento dei capi. Le stesse osannate fibre sintetiche, di origine fossile, contribuiscono all’inquinamento e alla dispersione di sostanze tossiche per il loro smaltimento. Un report della fondazione olandese Changing Markets – Licence to greenwashing – tenta di far luce sulla questione, partendo dall’analisi della validità di alcune delle maggiori certificazioni di capi sostenibili, rivelando quanto esse siano poco complete e poco aggiornate nel tempo.
Il rischio di pubblicità ingannevole da greenwashing più pericoloso, tuttavia, è probabilmente quello delle istituzioni e della politica. I governi, i legislatori e i grandi decisori internazionali, mettono in atto continuamente promesse e iniziative volte a tutelare la Terra e stabilire un radicale cambio di rotta verso le tematiche ambientali.
Molte però sono le linee d’ombra: come non pensare, ad esempio, ai grandi incontri internazionali susseguitisi negli anni, tradotti però quasi mai in interventi concreti o in accordi vincolanti?
Per arrivare a tempi più recenti molte delle azioni introdotte come grandi punti di forza di Transizioni ecologiche e di azioni per l’abbattimento delle emissioni si sono rivelate il contrario: primo tra tutti la forte presenza, ancora, dei combustibili di origine fossile e del nucleare in campo energetico.
Proprio in merito allo strumento della Tassonomia, a cui abbiamo accennato, ha suscitato forti critiche e la mobilitazione del mondo associazionistico, la volontà da parte dell’UE di introdurre il gas naturale e l’energia nucleare quali investimenti sostenibili. Di fatto, questa pratica, inserita nell’ampio e ambizioso progetto del Green Deal europeo, ci porta di molti passi lontano da un profonda transizione ecologica e disincentiva gli investimenti verso fonti energetiche alternative e realmente poco impattanti.
Sull’altro fronte, possono essere classificati come tentativi di greenwashing anche i grandi numeri relativi alla riforestazione (nel Green Deal il progetto di piantare almeno tre miliardi di alberi), adottata come mezzo di abbattimento delle emissioni e, allo stesso tempo, di compensazione di interventi dannosi per la natura. Anche in questo caso, dietro ai miliardi di alberi piantati in giro per il mondo, c’è una bugia di fondo: una foresta non si ricrea dal nulla. Piantare alberi, spesso in modo disordinato e in habitat che hanno una biodiversità specifica, non consente automaticamente di ricreare l’ambiente distrutto. Inoltre, prima che una foresta abbia la capacità di assorbire quantità consistenti di CO2 occorre che trascorrano diversi decenni. Certo, meglio cominciare che non farlo.
Se il greenwashing ha pervaso la società come la politica, saperlo riconoscere è il modo migliore per evitarlo.
Nel 2007 l’associazione Terra Choice in un suo rapporto ha individuato i sette segni del greenwashing, utile strumento e campanello d’allarme per rifuggire la pubblicità ingannevole.
Secondo il documento il primo segno di greenwashing è quello del compromesso nascosto (hidden trade-off) e fa riferimento a tutte quelle affermazioni che sponsorizzano come sostenibile un prodotto in base ad un ristretto numero di fattori, senza tener conto di altre questioni ambientali. Ne è un esempio il settore della moda, come già sottolineato, in cui la promozione di una fibra bio nasconde l’impatto dell’intero processo.
Ancora, l’assenza di prove (no-proof) e la vaghezza (vagueness) degli slogan sono una spia valida che avverte del tentativo di manipolare il consumatore, utilizzando dichiarazioni poco chiare e non supportate da informazioni facilmente accessibili circa la sostenibilità di quanto presentato. L’utilizzo di slogan fatti di paroloni come “eco-friendly” o “bio”, poi, hanno il preciso scopo di creare confusione, come avviene nel settore alimentare, senza entrare nel merito di ciò che è realmente green.
Inoltre quando un prodotto, attraverso il packaging o con elementi visivi confusionari, dà un’impressione di sostenibilità o attenzione alla questione siamo di fronte al segnale delle false etichette (worship false labels). Esse, in realtà, spesso sono contaffatte o le certificazioni poco complete.
Anche l’irrilevanza (irrelevance) è un’indicazione di greenwashing. Ci avverte rispetto ad affermazioni ambientali che possono sì essere veritiere ma non importanti o utili ai fini della scelta. Per esempio, nei prodotti di cosmetica, quando si fa riferimento all’assenza di alcune componenti già proibite secondo la legge.
Si tratta della strategia del minore dei mali (lesser of two evils), invece, nel caso di asserzioni che possono essere vere all’interno di una macro categoria, ma che sono utilizzate per distrarre dall’impatto nel l’intero settore produttivo. Questa è una pratica molto diffusa in campo automobilistico, ad esempio, quando la scelta di una batteria elettrica cela l’inquinamento che essa produce o le emissioni dell’industria dell’automobile nel suo complesso.
Si tratta di greenwashing, infine, semplicemente quando un’azienda o un’istituzione dicono il falso (fibbing).
Che siano uno o più i segnali che contraddistinguono un ecologismo di facciata, una “realitywashing” è sempre possibile.
Tema caldo e di forte rilevanza. Grazie Vanna per la consapevolezza che mi fai acquisire grazie ai tuoi articoli.
Da oggi, punterò ad uno shopping più sostenibile.