I media internazionali abusano dell’eroismo dei giornalisti ucraini
[Traduzione a cura di Marta Bolgioni dell‘articolo originale di Alik Sardarian, pubblicato su openDemocracy]
Una settimana prima che la Russia desse inizio all’invasione su vasta scala dell’Ucraina, lavoravo come produttore locale per un canale televisivo britannico.
Seduti al tavolo di un grazioso ristorante a Mariupol, io e i miei colleghi discutevamo i potenziali scenari dell’invasione. In generale, la conversazione si riduceva alla solita frase “potrebbe essere una carneficina” e al fatto che a oggi, nemmeno i migliori corrispondenti nel campo militare hanno mai assistito a un confronto tra eserciti convenzionali e ben equipaggiati.
La guerra che oggi sta devastando le città ucraine rappresenta una nuova sfida per tutti coloro che lavorano nella comunicazione mediatica. Avere esperienze precedenti è quasi irrilevante. Dopo il 24 febbraio, l’esperto di sicurezza con cui stavamo lavorando è tornato in Irlanda per qualche giorno: aveva realizzato che era necessaria una revisione del suo protocollo di sicurezza per i giornalisti. Nessuno dei suoi precedenti programmi – Iraq, Siria, Libia, Sudan – era adeguato a orientare i giornalisti nel bel mezzo di due armate europee che si scontrano su terra e in aria.
Ciò nonostante, lavorare come giornalista straniero in Ucraina è relativamente facile. Molti parlano le lingue europee. Si può arrivare, per esempio, a Kiev dal Belgio in uno o due giorni, con l’aereo o con il treno – senza bisogno di introdursi illegalmente e di nascosto, come fece la reporter di guerra Marie Colvin in Siria. Dal mio punto di vista, esiste una chiara separazione tra “buoni e cattivi” in questa guerra, e non c’è bisogno di addentrarsi nel contesto politico. Il solo fatto che stiamo assistendo a una guerra su larga scala in Europa permette di vendere qualunque articolo o altro tipo di lavoro. Per avere una storia di successo, basta camminare per le strade di Kharkiv e parlare con la prima persona che si incontra.
È per questo che la guerra russa in Ucraina ha attratto tutti – giornalisti dei maggiori media internazionali, scrittori freelance e fotografi, documentaristi e registi di tutti i tipi. La maggior parte di loro è accomunata dallo stesso fattore: autonomamente non può fare nulla.
È infatti difficile mettere a punto una storia se non si conosce la lingua e non si può nemmeno fare domande. I giornalisti stranieri necessitano di produttori locali per procurarsi competenze linguistiche, conoscenze culturali e regionali, e contatti sul territorio. I colleghi locali, ben informati e pieni di risorse, vengono spesso chiamati fixers (riparatori, mediatori, risolutori), un termine che personalmente ritengo stupido e degradante.
Per i produttori ucraini, lavorare per una grande organizzazione internazionale è una buona possibilità di garantirsi quantomeno un po’ di sicurezza e di stabilità finanziaria. In un mondo ideale, i giornalisti occidentali e i loro colleghi locali dovrebbero supportarsi e rispettarsi gli uni con gli altri.
Tuttavia la realtà sembra essere quasi l’opposto. Dopo un mese dall’inizio della guerra, abbiamo potuto osservare che i giornalisti occidentali – sebbene non tutti, e non in ogni occasione – dimostrano regolarmente di non avere un atteggiamento rispettoso nei confronti dei colleghi ucraini. Ignorano o trascurano la loro sicurezza. In questo modo violano norme etiche fondamentali, le stesse che probabilmente tra venti o trent’anni insegneranno ai loro studenti di giornalismo nel Missouri o a Londra.
“Sei fortunato, avevamo un giubbotto antiproiettile in più”, così alcuni giornalisti di uno dei principali canali TV italiani si sono rivolti a un mio conoscente, un produttore locale. “È un tuo problema se non ne hai uno con te. Stiamo andando a Kharkiv”. Non avevano neanche preso in considerazione il fatto che avrebbero dovuto fornire un kit di protezione anche all’autista. Il mio collega ha infine rifiutato di lavorare per loro in quelle condizioni.
Alcuni giornalisti di un canale televisivo americano hanno invece chiesto a un team di corrispondenti ucraini: “Perché non andate a Mariupol insieme a un convoglio umanitario? È molto importante mostrare cosa sta succedendo laggiù”.
Non era loro chiaro, forse, che sia il produttore che l’autista muniti di passaporto ucraino non sarebbero passati inosservati ai controlli russi, ma al contrario avrebbero potuto essere fermati e interrogati dagli agenti del FSB, il Servizio Federale per la Sicurezza della Federazione Russa.
Non sembrano rendersi conto del fatto che la presenza di un giornalista su un convoglio umanitario aumenti il rischio di diventare un bersaglio per l’esercito russo.
Spesso l’intento è quello di registrare uno di quei pezzi in cui il giornalista sta in piedi davanti alla telecamera, con alle spalle una città devastata. Dicono di volere un pezzo così perché è importante, ma non è l’unico motivo. La vera ragione per cui vogliono registrare nel bel mezzo di un combattimento, che rappresenta tra l’altro un alto rischio per un intera squadra di corrispondenti, è che aumenta la probabilità che il reporter in questione possa ricevere un premio o una nuova proposta di contratto nel suo Paese, per aver dimostrato “coraggio” e senso di “sacrificio”, o altre parole vuote di senso.
Sembra che alcuni giornalisti occidentali abbiano la presunzione di lavorare meglio dei colleghi ucraini. Tuttavia, per quanto riguarda l’invasione russa, i giornalisti ucraini Yevhen Maloletka e Mstislav Chernov sono riusciti a registrare ciò che nessun altro è riuscito a testimoniare: erano gli unici giornalisti attivi a Mariupol quando è scattato l’assedio russo sulla città.
Sono riusciti a documentare il bombardamento del reparto maternità di Mariupol per l’Associated Press ed è solo grazie a loro che il mondo ha potuto vedere cosa stesse accadendo veramente. In confronto al lavoro di Maloletka e Chernov a Mariupol, tutti gli sforzi dei colleghi internazionali per raggiungere la città sotto assedio e filmare ciò che si riduce a immagini pornografiche della guerra, appaiono futili e volti unicamente a soddisfare il loro ego.
La morte della produttrice Oleksandra Kuvshynova e di Pierre Zakrzewski, cameraman per Irish Fox News, durante un bombardamento russo il 14 marzo nei sobborghi di Kiev, è un esempio calzante. Ci si può domandare innanzitutto come Fox News abbia pensato di addentrarsi in una zona così pericolosa, solo per un report e qualche intervista. Uno dei miei colleghi e loro collaboratore ha visto il filmato recuperato da una videocamera casualmente non danneggiata, e ritiene – opinione che personalmente condivido – che un video del genere avrebbe potuto essere registrato tranquillamente nel centro di Kiev.
Da questo punto di vista, Fox News sarebbe responsabile della morte di Kuvshynova. Se avessero girato nel centro della città, l’unica differenza sarebbe stata l’assenza di colpi di armi da fuoco automatiche di sottofondo. Ma è in atto una sorta di pressione sui giornalisti, particolarmente coloro che lavorano per la televisione, perché raggiungano zone rischiose per ricavarne immagini di impatto, che contribuirebbero ad aumentare gli ascolti (e gli elogi nei confronti dei giornalisti).
Non mi ha stupito venire a sapere che molti organi di stampa internazionali sono soliti lasciare che gli esperti locali lavorino allo sbaraglio. Alcuni giornalisti stranieri sono tristemente noti perché diversi produttori del luogo sono morti lavorando con loro.
Mi ha scioccato però il cinismo con cui gli organi di stampa internazionali sfruttano esperti e produttori in loco.
La reazione di Fox News per la morte di Oleksandra Kuyshynova lascia a bocca aperta. All’inizio, il canale ha ritardato la notizia della morte, affermando che la scelta era dovuta alla volontà di informare prima la famiglia. Successivamente, hanno definito Kuyshynova una “consulente” anziché una giornalista e hanno continuato a chiamarla, in maniera del tutto irrispettosa, con il suo soprannome: Sasha. Quasi come se non fosse stata una loro collega a morire, ma una semplice conoscente di Kiev.
I corrispondenti locali generalmente non ricevono nessun riconoscimento per il lavoro – indispensabile – che svolgono per i servizi mediatici. L’esempio di Oleksandra Kuyshynova dà l’idea di come tale mancanza continui anche una volta morti.
Il comportamento di molti colleghi internazionali (che lavorano sia per la stampa occidentale e sia per quella dell’Asia mediorientale) riguardo alla tutela della sicurezza risulta non professionale e irresponsabile. Queste sono le problematiche principali rilevate:
- Alcuni giornalisti non si riforniscono di giubbotti antiproiettile, caschi e kit di pronto soccorso se non quando arrivano in Ucraina, come se non avessero la minima idea di dove sono diretti
- Non ascoltano gli avvertimenti e i consigli dei produttori locali, nonostante essi conoscano il territorio e comunichino con l’esercito ucraino e i volontari
- Non pagano le commissioni concordate, o contrattano, come se si trovassero al mercato del pesce
- Esigono che i produttori locali si addentrino in situazioni pericolose senza alcun obiettivo chiaro
- Non capiscono che loro hanno scelto di trovarsi in una zona di guerra, mentre i colleghi ucraini non hanno alternative
- E soprattutto, non comprendono che sono più salvaguardati, grazie ai loro passaporti stranieri, ai contratti a lungo termine e alle assicurazioni.
Non c’è molto che gli ucraini possano fare per prevenire che i giornalisti occidentali e gli organi per cui lavorano non commettano questo tipo di errori. Perciò ci tengo a incoraggiare i loro colleghi della comunità internazionale a parlare apertamente e dire la loro rispetto a tali comportamenti inaccettabili.
Certamente, la relazione tra giornalisti stranieri e fixers si basa su un disequilibrio di potere. Quando un corrispondente di esperienza sceglie di non andare in un determinato luogo perché troppo pericoloso, è sempre possibile assumere un insegnante di inglese locale, per esempio, che ci andrà per la metà della paga, oppure un giovane studente di giornalismo.
Molti considerano ancora il giornalismo come un’avventura in stile machista e la corrispondenza di Ernest Hemingway dalla guerra civile spagnola resta ancora oggi un modello da imitare. E proprio come i personaggi eroici dei film che hanno guardato, questi insegnanti o studenti neo-giornalisti si addentrerebbero nell’inferno dei combattimenti senza giubbotto antiproiettile. Caldeggiati dai nostri spavaldi colleghi: “Andrà tutto bene, non fartela sotto”.
Da tempo esistono linee-guida apposite per i reportage in situazioni pericolose, incluse le zone di conflitto. Alcuni organi di stampa le rispettano e si curano realmente del benessere dei loro lavoratori, che si tratti di un giornalista londinese o di un produttore di Dnipro.
Capita anche che un esperto della sicurezza ceda il proprio giubbotto antiproiettile all’autista ucraino, perché consapevole che la mancanza di giubbotti in più è una sua responsabilità e che l’autista non dovrebbe essere esposto a un rischio ancora maggiore: questo è un primo passo per una giusta collaborazione.
Abbiamo però il dovere di pretendere che tutti gli organi di stampa internazionale aderiscano a tali norme di sicurezza e tutela. Altrimenti il bilancio di giornalisti ucraini deceduti aumenterà di settimana in settimana. È ormai più di un mese che l’attacco russo procede e gli editori internazionali sembrano preoccuparsi che l’interesse del pubblico per il conflitto possa affievolirsi. La città dell’Ucraina occidentale Lviv, che è lontana dalle prime linee ed è base per molti giornalisti, non è più sufficiente. Vogliono sangue, morte e sparatorie. E andranno probabilmente a prendersele.