21 Novembre 2024

Etiopia, il conflitto sta aumentando i casi di disturbi mentali

[Traduzione a cura di Valentina Gruarin dell’articolo originale di Abel Fekadu Dadi e Tesfaye B. Mersha pubblicato su The Conversation]

Ragazze provenienti dalla regione etiope del Tigray. Rod Waddington/Flickr, CC BY-SA 2.0

Le guerre infliggono ferite sia fisiche che mentali a chi le vive, ma le prime ricevono molte più attenzioni delle seconde.

Numerosi sono le ricerche e i progetti su cui abbiamo lavorato con focus sui problemi di salute mentale affrontati da diverse sottopopolazioni. In un nostro recente articolo su The Lancet, abbiamo applicato i risultati di studi precedenti all’attuale situazione in Etiopia.

Il Paese è il secondo più popoloso dell’Africa: conta una popolazione totale di circa 115 milioni e 12 regioni amministrative. Il conflitto è scoppiato alla fine del 2020 tra il Governo centrale etiope e il Tigray People’s Liberation Front. La guerra è in corso da allora, con battaglie che si estendono anche alle regioni di Afar e Amhara.

I problemi di salute mentale sono importanti conseguenze indirette dei conflitti armati. Possono avere effetti sia a breve che a lungo termine sul benessere degli individui che vivono in zone colpite dalla guerra.

In un recente rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si stima che in contesti di conflitto vi sia un’elevata percentuale di individui affetti da problemi di salute mentale come depressione, ansia, disturbo da stress post-traumatico, disturbo bipolare e schizofrenia.

I dati disponibili riguardo le potenziali conseguenze della guerra in Etiopia sulla salute mentale sono invece limitati. Per cercare di colmare questa lacuna, gli autori hanno applicato le stime generali dell’OMS alle popolazioni di Afar e Amhara.

I risultati, ottenuti da questa operazione, suggeriscono la presenza di un minimo di 28.560 individui attualmente affetti da gravi forme di disturbo mentale che richiedono un intervento immediato. Di questi, 12.566 sono bambini e 14.565 sono donne.

Curare questi individui è stato impossibile. Durante la guerra [in corso, NdT] sono stati danneggiati e saccheggiati più di 40 ospedali, 453 poliambulatori, 1.850 presidi sanitari nella zona di Amhara e, nella Regione Afar, un ospedale, 17 istituti sanitari e 42 ambulatori.

Gli autori sostengono che l’incidenza dei disturbi mentali e le loro conseguenze a breve e lungo termine nelle comunità delle due regioni dovrebbero essere una priorità nel periodo post-bellico.

Data la vasta percentuale di popolazione, nel Nord dell’Etiopia, che necessita interventi volti alla cura della salute mentale, è sempre più urgente il bisogno di offrire un’assistenza medica collaborativa che sia efficace, conveniente e accessibile.

L’impatto

Oltre 12 mesi di conflitto prolungato hanno provocato massicce migrazioni interne, la presenza sempre maggiore di persone senza fissa dimora, nonché grandi perdite finanziarie e familiari, assieme allo sconvolgimento della cultura e dei valori di milioni di persone che vivono in Amhara e Afar.

Diverse istituzioni religiose, che hanno giocato un ruolo cruciale nel mantenere e favorire la resilienza e il benessere mentale della comunità, sono state distrutte. Le strutture governative e comunitarie sono state saccheggiate e, per questo motivo, non hanno potuto far fronte al mantenimento del benessere mentale della popolazione etiope.

Le donne e i bambini hanno quindi sopportato, più di altri, il peso del conflitto. Questo può essere dovuto direttamente alla violenza o, indirettamente, a varie conseguenze sanitarie.

Tutte le questioni qui riportate esacerbano i problemi di salute mentale degli individui che vivono nelle regioni colpite dalla guerra e, indirettamente, colpiscono anche famiglie e amici di chi soffre di alterazioni psichiche.

Un’altra avversità che potrebbe aumentare il rischio e l’incidenza, nella popolazione, dei suddetti disturbi sono gli atti di violenza e di aggressione basati sul genere come lo stupro, anche quello di gruppo.

Ma gli effetti intergenerazionali del conflitto armato sono ugualmente preoccupanti. La violenza sessuale può portare alla disgregazione della famiglia e all’abbandono dei bambini che, in presenza di traumi importanti, rimangono senza cure per tutta la loro infanzia ed età adulta.

Cosa si può fare

La sensibilizzazione, la psicoeducazione, la formazione delle competenze, la riabilitazione e le terapie psicologiche sono considerati interventi efficaci in contesti post-bellici. Queste cure potrebbero essere fornite nelle case, nelle scuole, nelle comunità e nelle istituzioni religiose e sanitarie.

È inoltre fondamentale formare gli operatori sanitari, i leader e gli educatori. Si dovrebbe far ricorso, in modo costruttivo, al sostegno sociale o a quello della comunità, attraverso metodi che rispettino la fede e la cultura delle persone, che possano dotarle delle conoscenze e competenze necessarie per fornire un’assistenza incentrata sul trauma. Il coinvolgimento dei leader della comunità – come i leader religiosi, gli anziani e le figure pubbliche – e l’impiego delle istituzioni culturali, aiuterebbero ulteriormente questi interventi a raggiungere una popolazione – e quindi un’efficacia – più ampia.

Diverse agenzie delle Nazioni Unite (il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, l’UNICEF, l’OMS e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) hanno lavorato attivamente per identificare le donne colpite dai vari tipi di violenza e per formare consulenti a livello comunitario, rendendoli idonei a fornire i dignity kit e supporto psicologico, come il counselling nella Regione del Tigray.

Questi servizi di salute mentale – presenti nei contesti post-bellici – dovrebbero essere estesi anche alle popolazioni colpite nelle Regioni  Amhara e Afar.

Valentina Gruarin

Laureata in Storia e Politica Internazionale, specializzata in Politiche Europee. Si interessa di politica estera dell'UE con uno sguardo particolare alle zone del Nord Africa e Medio Oriente. Ha frequentato un corso di formazione "analista euro-mediterraneo" presso l'Istituto Affari Internazionali. Laureata con il massimo dei voti, ha svolto una tesi magistrale attorno al tema delle teorie post-development, alternative non-eurocentriche al concetto di sviluppo.

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